Tom Bill campione dei pesi massimi – Aleksander Wat

Fu allora che lo vidi, atleta tragicamente incupito in quell’ambiente così triste, la cui cupezza era verniciata dell’afa del sole di un pomeriggio di agosto – una greve, densa macchia che si stava lentamente versando come dal tappo aperto di un calamaio.
Si stava scaldando il viso malridotto, non rasato da settimane, il viso di un uomo sfinito a morte, seduto sul basso muretto nero di un cortile in Via Monjol, piena di gramigna, di erbacce selvatiche, di rifiuti e di avanzi marcescenti, di grossi gatti baldanzosi, ruggine di rottami anneriti, carbone, bambini, la cui pulizia e i cui giochi silenziosi meditabondi conferivano al luogo un’atmosfera di minaccia, di sterquilineo, di aspra, dolorosa povertà. In mezzo al cortile, sopra un alto mucchio di immondizia, di pezzi di intonaco, di ferri vecchi, di escrementi, si stava scaldando il suo cane, ugualmente immobile, un vecchio mastino rognoso, marrone, con la lebbra di certe macchie bianche sul dorso e dal muso scorticato e butterato. [..]
Su un muretto basso in via Monjol, in quel pomeriggio d’agosto, sedevamo noi tre, tristi e immobili all’ascolto delle voci del lavoro, degli stridii e dei fischi delle seghe, dei fruscii dell’acqua e del clangore del metallo: io, lui e il suo cane. Sopra di noi pendevano i mesti angeli della morte. Da mezzogiorno al tramonto. Fu allora che, con la stessa appesantita lentezza del sole, scese dal moretto e, zoppicando, si trascinò verso l’ingresso di un misero edificio. Riconobbi in lui quell’atleta brutale che alcuni mesi prima avevo visto in un bar in via Marcadet [..]
Tom Bill aveva trentasei anni quando fece il bilancio della sua vita fino a quel momento. Ne giudicò severamente e imparzialmente tutti i lati e concluse: in meno, in perdita, totale bancarotta, vuoto assoluto. Il lettore, soprattutto quello abituato alle analisi psicologiche dettagliate senza lacune, vorrebbe indubbiamente sapere che cosa avesse portato questa sportivo pachiderma, accanito professionista della lotta più bruta, che a malapena conosceva le tabelline, a un resoconto tanto scabroso e deleterio. Domanda, invero, interessante, ma purtroppo l’autore non è in grado di fornire una risposta soddisfacente. In primo luogo perché non è uno psicologo e, se ha scritto questo racconto, è perché la cupa figura del suo protagonista lo importunava insistentemente con le sue visite, proprio come personaggi di Pirandello, durante certe notti insonni di nostalgia a Parigi; in secondo luogo, abituato a un resoconto pressoché quotidiano, quasi fosse un prudente bottegaio, delle perdite e dei guadagni della propria coscienza, non sai davvero che cos’è che può far fare quel bilancio una volta sola dopo trentasei anni. Per facilitarci il compito, diciamo semplicemente che la molla della vita attiva dell’atleta Tom Bill è stata caricata fino a quel per lui fatale trentaseiesimo anno. Con questo non vogliamo negare che la causa effettiva potessi celarsi in qualche evento o persino in qualche casuale capriccio della cronaca di strana, in qualche banale, frusta tragedia della quotidianità; oppure che la colpa fosse alla fine da attribuire a qualche pensiero fisso o a un complesso psicologico fin qui rimasto nascosto. Basta dire che qui termina la vita di Tom Bill in quanto famoso, vittorioso campione dei pesi massimi, poco amato, violento ben oltre le esigenze del suo sport, solo, che seminare il terrore persino fra gli sconosciuti passanti; e inizia una vita nuova, difficile a descriversi, impossibile a definirsi, piena della ruggine corrosiva di certe dannose riflessioni, di lirici ritorni all’infanzia, dei germi di un’imprecisata nostalgia, che riescono a spezzare anche le più ferree travi di muscoli. [..]
Tom Bill scoprì ad un tratto nuove mappe della sua vita. I ricordi presero a trasparire attraverso i reali fatti del giorno come attraverso traslucidi paraventi giapponesi. Lottava ancora nell’arena, consumava i pasti al ristorante, si allenava, prendeva tutti i giorni una donna e un bock di birra al bar di via Marcadet dove l’avevo visto seduto su un alto sgabello una sera d’estate (e dove il basso, grasso petulante barman dalla spiacevole faccia glabra, dopo che Tom era uscito, mi aveva raccontato svariati dettagli sulla sua ferocia, sulla sua furia bestiale, sul suo carattere disumano, cupo e greve, sul suo accanirsi contro gli avversari, sul famoso doppio nelson, che aveva causato la morte pressoché istantanea del giovane e simpatico boxeur di belle speranze Louis Chauffard [..]
Tom faceva tutto questo, ma con sforzo sempre maggiore, rimanendo imprigionato nelle sabbie mobili delle fantasticherie e di una crescente scontentezza.
I ricordi gli spostavano lo scenario della realtà. Oltre la serata trascorsa in camera sua o a passeggio, se ne apriva un’altra, gonfia della dolcezza, dei suoni lontani, dei colori vaporosi, degli odori dimenticati dell’infanzia, delle mosche e della povertà. Quando andava letto con una donna, l’oblio gli giungeva non dall’estasi amorosa, ma dal ronzio che proveniva dal cortile, dalle grida e dal chiasso giocoso dei bambini, forse cercando in quel coro cinguettante la sua stessa voce [..] fosse andando alla ricerca delle fievoli ombre di un paradiso perduto.
Tom Bill a trentasei anni era al culmine del successo, era il terrore dei suoi avversari e delle donne che amavano gli spettacoli forti, ma non troppo brutali. Ma Tom Bill fece il suo bilancio e il risultato fu: male, sconforto, disperazione. [..]
Divenne quindi per lui una verità evidente, non soggetta al minimo dubbio, che tutta la sua vita fino a quel momento era stata un errore sprecato. E che cosa doveva pensare quella mente semplice e indotta, che non conosceva gli arcani e il relativismo del logicismo? Visto che la direzione fin qui tenuta dalla sua vita era del tutto errata, quella giusta era evidentemente la direzione opposta. Visto che la forza l’aveva ingannato, che cosa poteva dunque salvarlo se non la debolezza? Cosa poteva sentire il suo cuore – pan nero indurito di un taccagno-accattone morente di fame, un cuore che non conosceva le croci e le delizie dell’essere interiormente scissi? Desiderò la debolezza, così come un tempo aveva desiderato la forza [..]
Tom Bill decise di essere debole. Gli doveva risultare difficile? D’altro canto non era stato sempre forte, non era stato sempre Tom Bill. Debole, di costituzione piuttosto gracile, da ragazzo si era indirizzato alla boxe, divenendo poi campione di fama mondiale, lavorando duro su se stesso, con la caparbietà, la dispettosa ostinazione di un adolescente spinto da una volontà di vendetta. Significativo il fatto che fra i ricordi nei quali naufragava, che lo separavano dalla terraferma della realtà, non c’era mai quello dell’evento che aveva deciso la svolta di tutta la sua vita: la trasformazione dei bicipiti, la carriera, la professione di Tom. (Una tetra scena della vita dei poveri, una tragedia comune per i bambini di periferia: il debole, vecchio padre di Tom era stato picchiato per strada, a sangue, ferocemente, in sua presenza; e che c’entra se era stato per una vigliaccata che aveva compiuto spinto dalla miseria e dall’alcool? E a che vale distendersi nello scrivere su questo episodio fondamentale, ma tanto truce?! Il lettore che ama le descrizioni sadiche, mi permetto di rimandarlo qui ai Fratelli Karamazov, dove troverà una scena analoga).
Tom Bill non ricordava quell’evento, eppure quel fatto apparentemente banale aveva segnato tutta la sua vita. La volontà di vendetta per l’atroce torto subito, fu essa a spingere quel bambino di sei anni a sviluppare la propria forza fisica, a sognare la professione di atleta. Raggiunse il suo scopo, potè vendicarsi. Non ci stava forse vendicando, allorché, stordito, col suo pugno di pietra picchiava l’avversario sul dorso, sulla testa, sui muscoli gonfi e sulle parti morbide, finché non lo risvegliava la campanella di ammonizione dei giudici? [..] Ma una volta temperata nel disprezzo che gli suscitavano quei corpiccioli ormai vinti, la volontà di vendetta di Tom diminuiva fino a sparire del tutto. Fu forse per questo che Tom Bill provò l’indifferenza e il vuoto nella sua vita? Fu per questo che di fronte a tutto ciò che aveva vissuto fino ad allora pose il segno meno? E fu forse per questo che desiderò la debolezza in modo così ardente e irruento, come un tempo aveva desiderato la forza?
L’osservazione gli aveva proposto situazioni in cui la debolezza aveva trionfato sulla forza. Essere debole, ecco tutte le gioie della vita! Ai deboli le donne sorridevano, i deboli accumulavano ricchezze, ai deboli arrideva la sorte! E decise d’essere debole.
Ma la debolezza non ci raggiunge facilmente. È difficile diventare deboli in questo mondo, dove persino l’inerzia è inattività della forza. L’inerzia dell’anima umana, l’abitudine – questo nucleo dell’io -sottolineava e rafforzava agli occhi dei nemici di Tom Bill i truci contorni dei suoi muscoli gonfi, che lui stesso col vano sforzo della sua stizzita volontà cercava di indebolire, di far sparire. Scene comiche, degne del grande Chaplin: un boxeur, che pur rispettando l’etica professionale, cercava di soccombere mostra i suoi punti deboli; e l’avversario, basito, insospettito, sconcertato, che vi vede un nuovo pericoloso trucco del suo terribile e astuto contendente, e non solo non approfitta della sua debolezza, ma anzi si sperde nelle congetture, si lascia andare, perde forma e diventa una preda fin troppo facile. Perché non sono umorista da poter far ridere fino alle lacrime i miei lettori?! il pubblico dell’arena, disorientato, non conoscendo le reali intenzioni e i motori di una tale lotta, non rideva. Né avrebbe riso se anche li avesse conosciuti; le categorie del riso e quella delle emozioni selvagge erano del resto ben separate per esso: da una parte i clown, dall’altra la lotta francese.
Di tale vittorie, per fraintendimento, contro la sua stessa volontà, Tom Bill ne riportò abbastanza. Pochi sanno quanto possa essere atroce una vittoria che non si desiderava. Ma anche per Tom Bill giunse finalmente il giorno della felicità: fu sconfitto. Da allora perse regolarmente. L’ipnosi della sua supremazia, della sua fama mondiale, fu sciolta. Dopo breve tempo dovette ritirarsi delle professione.
Gli sembrava, e anzi, neanche gli sembrava , bensì aveva un incrollabile certezza che nel momento in cui avrebbe perduto e sarebbe stato sconfitto, tutto sarebbe cambiato in meglio, completamente e per sempre; Il mondo, che fin qui gli era stato nemico, gli si sarebbe finalmente rivolto, lo avrebbe abbracciato e stretto a sé. E tutto questo sarebbe accaduto improvvisamente e definitivamente. Su come sarebbe accaduto non ci aveva pensato; aveva un nebuloso presentimento, pregustava le belle donne, il benessere, la paternità, la quieta, ma grande felicità di cui avrebbe goduto. Ma niente di tutto questo! invece dei sorrisi, gli venivano mostrate le zanne dell’odio e dell’inimicizia, prime tenute coperte dalla paura. Invece della felicità, raccoglieva sventura. Il mondo gli si rivolse, sì, ma per sputargli addosso la sua bava velenosa.
Tom non era deluso, ma enormemente stupito. Rimase in attesa. Temporaneamente poté vivere dei suoi risparmi. Ma bastarono per poco. [..] Andò ad abitare in una misera stamberga [..] dove a malapena poté sistemare un pagliericcio. Vi giaceva per giornate intere, oppure si metteva a sedere sul muretto in cortile e stava lì ad aspettare: non un miracolo, ma quella fortuna che a tutti è dovuta, almeno una giustificazione della propria vita, una qualunque. Testarda, ancorché celata fede in una giusta logica della sorte. [..]
Non è a effetto di un intervento dell’autore, impaziente di affrettarsi verso un rapido finale, che Tom Bill una notte, mentre trasportava al mercato dei pesi in eccesso, scivolò e cadde. il giorno dopo non poté muoversi dal suo giaciglio. Volendo caparbiamente provocare la catastrofe, nella corsa verso la morte, cui Tom stesso aveva dato inizio, giunse al punto in cui la curva del suo tracollo prese ormai a cadere a tempo accelerato. La vita, a volersi esprimere sentenziosamente, taglia corto con un uomo di cui ha cessato di interessarsi.
A letto, solo, nel suo sgabuzzino, inseguiva i fantasmi sfuggenti delle sue ossessione. Il dubbio sopraggiunse all’improvviso in una notte di calma scandita dal pulsare della febbre. Tutto era perduto. Tutta la vita una sconfitta. La forza l’aveva deluso, ma la debolezza lo aveva ingannato ancora di più. [..] Avvampava nella febbre, morendo di un dolore ottuso e disperato. E presto, dunque, la morte… La morte? Ma per un ex campione la morte non era altro che un prolungamento della sua vita, una continuazione all’infinito, la vita durata fin qui preparata all’uso dei secoli. Non gli si era mai presentata quale ultimo, sicuro riposo; non l’aveva mai invocata quale consolatrice, amante dolce e silenziosa; non si era mai bagnato nei suoi fluidi, per poi, una volta incontratala faccia a faccia, fuggire, respingendola con le unghie e con i denti, urlando dal dolore, dalla disperazione e della paura. La sua sconfitta era totale e oltrepassava la morte, quel confine dove il contrabbando è l’unica forma vigente di scambio.
Tom Bill stava morendo. E tutto a un tratto nella sua testa riarsa dal tormento defluì gorgogliando una frase, una sola frase [..] Quell’unica frase “Beati i deboli”, l’aveva sentita davvero una volta, oppure gli sembrava solo ora nel delirio? L’aveva letta o udita davvero da quel libro rivelato che non conosceva, ma del quale sapeva che basta sapere che esiste?
Se era così, se era effettivamente così in quel libro rivelato, non tutto sarebbe stato perduto. [..] La sconfitta non sarebbe stata così irrimediabile, la sua debolezza, la sua vita avrebbero trovato quella giustificazione che la sua coscienza tormentata chiedeva. Se è davvero così, poteva spirare tranquillamente. Sentendo ormai si di sé la mano della morte, Tom Bill sapeva di tuttavia che non ce l’avrebbe fatta a morire finché non avesse avuto la certezza. Allora si ricordò del suo vicino.
Era un russo, apostolo del Cristo della pietà, san Francesco degli atei, un anarchico dai capelli lunghi e dal cuore di colomba. La condizione degli altri lo feriva assai più della propria. Si muoveva in atmosfera di intensa umanità. Le miserie del mondo lo avevano segnato con le stimmate di una dolorosa compassione.
Ma quel santo ateo era debole. Si spaventava ad esempio di fronte all’agonia, al sudore del suo forte coinquilino; in fondo al suo subcosciente gli faceva ribrezzo con quella sua forza nuda e brutale. [..] Ora, sentendo che batteva violentemente contro la parete, tremando, lottava contro se stesso, contro la propria debolezza, contro la paura e la repulsione che provava. Da quella lotta uscì vittorioso. Impegnato di prontezza al martirio, entrò dell’atleta che lo stava chiamando. La miseria di quell’agonia, la febbrile pressoché incomprensibile richiesta del morente di sapere se davvero nel Vangelo si parli della beatitudine dei deboli e, se sì, di leggergli quel brano a voce alta, commossero profondamente il russo. Tornato in casa sua a prendere il Vangelo, ebbe un momento di incertezza. La Bibbia stava su un unico scaffale accanto alle opere di Nietzsche. Esitò. Proprio lui, che non mentiva mai, si trovava di fronte alla scelta: o una pietosa menzogna o un’atroce verità. (Si sbagliava, purtroppo. E tuttavia non biasimiamolo, cerchiamo di comprendere, per poter perdonare, giacché siamo migliori di noi stessi, delle nostre stesse condanne e giudizi, dei nostri istinti e delle nostre passioni, delle nostre intelligenze caratteri, e in ciò soltanto scorgiamo la possibilità e la divinità di una morale). Conoscendo Tom quale atleta brutale e viva immagine della forza malvagia e violenta, il pietoso anarchico credeva che fosse la paura di morire, il terrore del castigo, nella colpevolezza, che a quell’energumeno, vissuto solo della verità del suo pugno, faceva chiedere una conferma delle parole divine che avrebbero segnato la sua dannazione eterna. Come poteva dunque lui, apostolo della pietà, dare all’infelice atleta l’ultimo crudele spintone, privarlo forse della sua ultima speranza, dell’ultimo gioioso dubbio; come poteva amministrare il viatico di una severa condanna prima della sua penosa separazione della vita? Caricando dunque del peso della menzogna la sua sensibile coscienza, decise di dare a Tom l’ultima consolazione. Invece del Vangelo prese Nietzsche e, sedendosi accanto a quell’uomo forzuto che era in frenetica attesa delle parole che gli avrebbero permesso di dare adito alla morte ormai spazientita, lesse a voce alta non :”Beati i deboli”, ma “Beati i forti”. Pensava con questo di giovare al morente, ancora forte così poco tempo addietro, di dargli la speranza della salvezza. Si sbagliava atrocemente. E gli orecchi sensibili del russo, attraverso le cupe, dure parole condite di fiele del cupo filosofo tedesco, colsero un suono: né un gemito, né un sospiro; e i suoi occhi, sollevandosi dalla pagina del libro, nella semioscurità di quella stamberga fecero ancora in tempo a scorgere lo spasmodico rilassamento di una gamba sotto la coperta e il tremito nervoso delle guance, col quale la morte scolpisce i nostri volti nella statuaria nudità dell’umanità.

da L’Ebreo errante –
Aleksander Wat

* in copertina
Untitled di Mostafa Dashti