Moments musicaux – W.G. Sebald

[Andante sostenuto]

Al mio risveglio mi occorse un po’ di tempo prima che riuscissi a capire dove fossi e prima che, in quella stanza quasi interamente al buio, cominciassero a delinearsi le singole forme. Mi tirai su dal letto, andai alla finestra, aprii gli scuri e soltanto in quel momento udii l’inesausto frinire dei grilli, sempre con la stessa intensità di suono, un immane gemito e stridio, che solo di tanto in tanto cessava e repentino [..] – per poi riprendere subito dopo con non minore energia. [..]
Seduto sul davanzale della finestra, guardai fuori nella notte. E poco dopo, ogni volta che i grilli ammutolivano per qualche istante e all’orecchio non giungeva altro che il ronzio del silenzio, era come se di laggiù, dove si vedevano le luci di Piana, io cogliessi i frammenti di una musica svanita e il lieve scroscio di un applauso remoto. Ora ricordo di aver udito, già sprofondando nel sonno, una voce che sembrava provenire da un veicolo con altoparlante, intento a compiere più volte il giro della località, una voce talvolta lontanissima, talaltra lì vicino, e di quell’annuncio, nella mia coscienza che andava morendo, non riuscì a penetrare nient’altro se non le ultime parole, pronunciate evidentemente con particolare enfasi: Ce soir a huit heures dans la cour de l’ancienne école. [..] A Piana era arrivato il circo, un evento quasi miracoloso, se si pensa a quanti ostacoli deve affrontare per sopravvivere sull’isola un’attività del genere, dalle dimensioni minuscole [..] Quando entrai, lo spettacolo era quasi finito. Una cinquantina o tutt’al più una sessantina di donne e bambini – in Corsica gli uomini evidentemente non vanno al circo – erano seduti su sedie pieghevoli e sgabelli attorno a una sorta di proscenio, costituito da un palchetto mobile [..]
Dopo che la funambola ebbe completato felicemente il numero, i teli furono di nuovo tirati e il pubblico rimase per un po’ seduto, senza più alcun intrattenimento, sotto il tendone scuro. Solo allora mi accorsi che, sulla parte interna del padiglione sospeso sopra le nostre teste, era dipinta con colori fosforescenti una moltitudine di stelle, sicché davvero si aveva la sensazione di essere fuori, in aperta campagna, sotto lo scintillio del firmamento. Mentre noi tutti, rapiti da tanto spettacolo, tenevamo gli occhi rivolti verso l’alto, entrarono in successione i componenti della troupe e si disponevano, al buio, sul proscenio. L’ultimo reggeva una lampada, il cui chiarore cadde su cinque figure in abiti orientali e su un’oca dal candido piumaggio. Si notava subito che i tre figli adolescenti della famiglia di saltimbanchi – che proprio d’una famiglia si trattasse era fuori di dubbio – sopravanzavano dell’ intera testa i genitori, entrambi molto bassi di statura, e questo dava l’impressione che lì si nascesse giganti per retrocedere poi progressivamente a nani nel corso della vita. Ma in realtà la metamorfosi cui assistemmo fu tutt’altra, perché infatti gli artisti del circo, che prima erano stati illusionisti, funamboli, mangiatori di fuoco, indovini e altro ancora, alla fine del programma si presentarono, sorprendendo tutti, nelle vesti di musicanti con un enorme contrabbasso, rabberciato con un nastro isolante nero, una fisarmonica, un piffero di latta, una tuba ammaccata e uno xilofono. A un cenno, che si erano dati l’un l’altro, con occhi già stanchi, si misero a suonare. Fin dal primo brano ebbi l’impressione di riascoltare una melodia ormai da lungo caduta nell’oblio, che mi era però assai familiare, una specie di musica paesana: quella che si produce quando nessuno dei suonatori sa leggere le note, e gli strumenti sono un po’ scordati e mezzo rotti. Oggi da noi è raro udire ancora simili accordi, eccetto quando – com’era accaduto a me attraversando nel gelo dell’inverno un sottopasso pedonale alla stazione di una grande città nella Germania del Nord – ci si imbatte per caso in un qualche musicante girovago, giunto da Suwalki o da Pinsk. In totale abbandono e con lo sguardo però in lontananza, i saltimbanchi corsi suonavano proprio come quei musicanti della Selva Boema, descritti in modo mirabile da Bohumil Hrabal in un suo racconto, i quali in passato, durante i mesi estivi, si spostavano dall’una all’altra delle cittadine morave. Gli accordi e i suoni che si susseguivano avevano sfumature particolari e mi sembravano originari per certi aspetti dell’Africa e per altri delle contrade alpine. Talvolta mi pareva di udire un canto liturgico, o il roteare di un valzer, oppure la cadenza strascicata di una marcia funebre, durante la quale coloro che accompagnano il defunto all’estrema dimora tengono, a ogni passo, il piede quasi impercettibilmente sollevato in aria, prima di posarlo a terra. In ogni caso era come se quella strana serenata risuonasse fino a noi da un mondo al rallentatore e recasse un conforto che oggi quasi più nessuno conosce. E questa sensazione la provai in particolare con il brano che i musicanti suonarono alla fine, fuori programma. Era come un canto di commiato dalla vita nella sua interezza e mi ricordò, fin nei dettagli, l’Andante sostenuto della Sonata per pianoforte in si bemolle maggiore che Franz Schubert, nato a Himmelpforgrund, aveva composto poco prima della morte con quella sua peculiare sicurezza da sonnambulo. Continuo a ritenere inverosimile che i saltimbanchi corsi possono avere creato da sé, per una seconda volta, una musica tanto incomparabile nella sua solennità; più credibile, invece, così mi veniva da pensare, che l’avessero udita un tempo chissà dove e – cosa comprensibilissima – non l’avessero più dimenticata. Ti perseguitano infatti fin nel sonno le note di basso, che subito all’inizio si levano dal sottosuolo come bolle da uno stagno scuro, l’ombra delle nuvole che con il cambiamento di tonalità d’un tratto ti guizza davanti, il tintinnio isolato di una piccola campana a morto che risuona discosto, i tocchi della mano destra che vanno sempre più su alla ricerca della salvezza e poi quell’impercettile passaggio di tonalità, quasi un passo falso (oltre l’orso dell’abisso) e tuttavia così autenticato e preciso che, come il povero Enrico della fiaba, sentiamo anche noi il cuore liberarsi dai suoi ferrei vincoli. La mia sensazione quella sera non fu solo come se, per la prima volta dopo tanto tempo, di nuovo mi si allargasse il petto, ma anche come se dall’interno il mio cranio si elevasse fino al firmamento, esso si sciogliesse insieme con il mio corpo inutile, che andava facendosi via via più trasparente. Che cosa i suonatori provassero eseguendo quella musica viennese, giunta loro chissà da dove, non sono in grado di dirlo, ma so di non essere stato l’unico nel pubblico a sentirsi schiudere il cuore, perché a più di una di quelle donne, in silenzioso ascolto accanto ai loro bambini, gli occhi si fecero d’un tratto lucenti di lacrime: io le vidi asciugarseli furtive; ed erano lacrime non già di letizia quanto piuttosto di cordoglio per la nostra vita, fatta in fondo soltanto di calcoli sbagliati, e perdite incolmabili. Ma che cosa in certi accordi possa commuovere in tale misura, questo una persona fondamentalmente priva di orecchio musicale, quale sono io, non riuscirò mai a comprenderlo. Un simile mistero in quella mia prima sera a Piana, mi sembrò racchiuso – e ancora oggi così mi sembra -nell’immagine dell’oca dal candido piumaggio, che era rimasta ferma e immobile in mezzo ai saltimbanchi intenti a suonare. Piena di dignità, con il collo lievemente proteso e le palpebre abbassate, ascoltava tutta concentrata in quello spazio che somigliava a un planetario, finché non si dissolsero le ultime note, quasi conoscesse il proprio destino e anche quello suoi compagni.

da Moments musicaux –
W.G. Sebald

* in copertina
Music to be seen –
Ulfert Wilke