Momenti eterni

  
[..] Non mi resta che segnalare al lettore la mia teoria personale dell’eternità. È una povera eternità ormai senza Dio, e perfino senza altri proprietari e senza archetipi [..] Trascrivo ciò che pubblicai allora: la pagina s’intitolava Sentirsi in morte.

Desidero qui annotare un’esperienza che ho avuto qualche sera fa: minuzia troppo evanescente ed estatica per essere chiamata avventura; troppo irragionevole e sentimentale per essere chiamata pensiero. Si tratta di una scena e della sua parola [..]. Ne farò la storia, con i particolari di tempo e di luogo che la dichiararono.
Così la rammento. Il pomeriggio che precedette quella sera, andai a Barracas: quartiere che di solito io non frequento, e già il fatto che esso rimanesse così distante da quello che io percorsi dopo, bastava a dare uno strano sapore a quella giornata. La sera della quale non avevo destino alcuno; poiché faceva bello, dopo aver mangiato uscii a camminare e a ricordare. Non volli dare una meta alla passeggiata; mi procurai una massima latitudine tra le diverse probabilità, per non stancare l’aspettativa con l’obbligatoria previsione di una sola di esse. Riuscii, nella povera misura del possibile, a fare ciò che chiamiamo camminare alla ventura; accettai, senz’altro consapevole pregiudizio che quello di eludere i viali e le strade larghe, i più bui inviti del caso. Ciò nonostante, una specie di gravitazione familiare mi portò verso certi quartieri, del cui nome vorrei sempre ricordarmi, i quali impongono riverenza al mio petto. Non voglio alludere al mio quartiere, al preciso ambito dell’infanzia, bensì ai suoi ancora misteriosi dintorni: confine che ho posseduto interamente nelle parole e poco nella realtà, vicino e mitologico a un tempo. Il rovescio di ciò che è conosciuto, le sue spalle, sono per me quelle strade penultime, non meno pienamente ignorate dalle sotterranee fondamenta della nostra casa o del nostro invisibile scheletro. La camminata mi lasciò all’angolo di una strada. Aspirai notte, in serenissima vacanza di pensiero. La visione, nient’affatto complicata, sembrava semplificata dalla mia stanchezza. La sua stessa tipicità la rendeva irreale. Era una strada di case basse, e sebbene il suo primo significato fosse di miseria, il secondo era certo di felicità. Tutto estremamente povero ed estremamente bello. Nessuna casa osava affacciarsi sulla strada; il fico copriva d’ombra l’angolo; i cancelli – più alti della stirata linea dei muretti – sembravano foggiati nella stessa sostanza della notte. Il marciapiede era alto sulla strada; questa era fatta di fango elementare, fango d’America non ancora conquistato. In fondo, lo stradone, già provincia, si sgretolava verso il Maldonado. Sulla terra torbida e caotica, un muro roseo sembrava non ospitare luce di luna, bensì effondere luce intima. Non si potrebbe nominare la tenerezza meglio che con quel rosa.
Rimasi a guardare quella semplicità. Pensai, probabilmente ad alta voce: Questo è lo stesso di trent’anni fa [..]. Immaginai quella data [..]. Forse un uccello cantava e provai per lui un affetto piccolo, della grandezza di un uccello; ma è probabile che in quel vertiginoso silenzio non ci fosse altro rumore che quello, anch’esso intemporale, dei grilli. Il facile pensiero Sono nell’ottocento non era più un gruppetto di parole approssimative bensì aveva la profondità della realtà. Mi sentii morto, mi sentii percettore astratto del mondo: confuso timore imbevuto di scienza che è la massima chiarezza della metafisica. Non supposi, no, di aver risalito le presuntive acque del tempo; piuttosto mi sospettai in possesso del reticente o assente senso dell’incocepibile parola eternità. Soltanto dopo riuscii a definire quel’immaginazione.
La scrivo, adesso, così: Quella pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in calma, muretto limpido, odore provinciale della madreselva, fango fondamentale – non è semplicemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa; è, senza somiglianza né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo.
Ovviamente il numero di simili momenti umani non è infinito. Quelli elementari – quelli della sofferenza fisica e del piacere fisico, quelli in cui ci si avvicina al sonno, quelli in cui ascoltiamo una musica, quelli molto intensi oppure molto svogliati – sono ancora più impersonali. Traggo anticipatamente questa conclusione: la vita è troppo povera per non essere anche immortale. Ma non abbiamo nemmeno la sicurezza della nostra povertà, poiché il tempo, facilmente confutabile nell’ambito dei sensi, non è confutabile in quello intellettuale, dalla cui essenza sembra inseparabile il concetto di successione. Rimanga, dunque, come aneddoto emotivo l’intravista idea e come confessata indecisione di questo foglio il momento vero di estasi e la possibile immaginazione di eternità di cui quella notte non fu per me avara.

da Storie dell’eternità – J.L. Borges