Storie di cinema: Suso Cecchi D’Amico e Luchino Visconti 

Francesco Rosi racconta Luchino Visconti

27 Luglio 1972

Sono andata a prendere Luchino a casa con la macchina della produzione [..] stava bene [..],  vestito nuovissimo di lino grezzo, scarpe nere,fazzoletto pervinca  all’occhiello, camicia di seta blu a piccoli disegni bianchi [..] Hanno servito dello champagne. Io ho fatto osservare che avevano freddato i bicchieri, ma che lo champagne non era affatto gelato. Let us come to the point ha detto Luchino. Janni ha cominciato a dire dell’incontro di Shapiro con il capo della Paramount, che invitava Luchino e Janni a un meeting e si sarebbe dichiarato pronto a finanziare il Puccini interamente [..] dopo di che  Janni (com’è sua abitudine) ha cominciato a divagare raccontandoci delle traversie per ottenere dagli eredi i diritti di Via dalla pazza folla. [..] Dalla strada saliva un po’ di rumore, e Luchino non è molto acuto di orecchie. Né questa divagazione lo interessava, ho pensato io. [..] Quando mi sono accorta dello sguardo allarmato che Janni puntava su Luchino, mi sono girato anch’io a guardarlo. Era pallido, lo sguardo in alto, ma con l’occhio destro stranamente vago. La mano destra ondeggiava in un movimento “autonomo”. Ho cercato di richiamare l’attenzione di Perugia seduto davanti a me. Perugia ha guardato Luchino, e anche lui si è reso conto di qualcosa di anormale. [..] Sono tornata da Luchino per vedere come stava e se era arrivato il medico di guardia. Luchino stava sempre nella stessa posizione eretta nella poltroncina, pallido, dignitoso; un monumento [..] Luchino è stato trasportato con gran cura da Perugia. L’hanno distesi sul letto della camera 418, e il medico gli ha fatto subito delle iniezioni di Papaverina [..] poi trasportato alla clinica dove è stato messo nella camera 541 [..]

E’ la prima volta che ritiro fuori queste pagine; le scrissi sull’onda dello spavento che mi ero presa e dal dolore; ancora non si sapeva bene cosa fosse successo. Pensai che una testimonianza del genere potesse essere utile, magari anche per i medici.

Quanti anni dopo morì Luchino?

Quattro, direi. Vissuti con l’angoscia della malattia e della difficoltà di trovargli da lavorare. Andavo da lui quasi ogni giorno, nella nuova casa al Fleming.

Come mai si trasferì  dalla villa in via Salaria?

Non voleva più farsi vedere dalla casa, e dopo la paralisi non ci mise più piede. Era stata costruita dal padre, che era molto legato alla regina, ed era situata davanti al cancello d’ingresso al Parco di Villa Savoia. Attraversando la strada ti trovavi nel parco. Il padre di Luchino era bellissimo, aveva avuto sette figli da Carla Erba, bellissima anche lei. Non l’ho mai conosciuto. A detta di un suo grande amico l’omosessualità aveva poi prevalso in lui. De Sica mi raccontava di avere ricevuto le sue attenzioni, quando era un giovane debuttante e scherzava: “Ho sempre voluto dire a Luchino: avrei potuto essere tua madre”. Il duca Visconti di Modrone ebbe sempre la passione per il teatro, che faceva anche in casa. Luchino era il quarto figlio [..] 

Tornando alla malattia, quanto tempo Luchino rimase a Villa Carla?

Pochissimo, di lì lo portarono in Svizzera, a Zurigo, e con Uberta stette ad assisterlo gran parte del tempo Enrico Medioli. Avevamo un lavoro insieme e ci dividemmo i compiti: io mi occupavo delle cose a Roma, e lui si occupava di Luchino.

Si capì subito che sarebbe rimasto paralizzato?

Si sperava che migliorasse, come un pochino avvenne. Poca roba, però. Finite le cure in Svizzera fu portato a Cernobbio, dove sono stata diverse volte a trovarlo [..]

A quel punto si incominciò a prospettare la difficoltà di far accettare a Luchino le sue menomazioni. A una persona di quell’orgoglio, e con l’incapacità che aveva di dipendere da qualcuno. Si cercò di organizzargli il lavoro installando a Cernobbio una moviola e facendo venire Ruggero Mastroianni per il montaggio di Ludwig che si sarebbe dovuto incominciare appena terminate le riprese, quando cioè Luchino ebbe l’ictus.

Hai scritto nei tuoi appunti che Luchino teneva molto al fatto che Helmut Berger rimanesse a Parigi a girare il film successivo al Ludwig. Come mai?

Ci teneva molto che facesse carriera. C’era in Luchino, fortissimo, l’aspetto dell’educatore, unito al senso della famiglia. Si rifletteva nel desiderio di spingere in avanti le persone che aveva creato, o di ostacolarle. Non c’erano vie di mezzo. Non posso dire che fosse un carattere molto facile.

A Cernobbio, la villa di Nana (sorella) dove stava Luchino è bella architettonicamente, della fine del Settecento.. Con Luchino si era trasferita da Nane anche Uberta, la cui vita, da quel momento, fu dedicata esclusivamente al fratello malato. Luchino rimase lì parecchi mesi. Al momento di tornare a Roma, dunque, dichiarò di non voler entrare mai più in Via Salaria. Questo dispiacque moltissimo a Edoardo che venne da me, sapendo quanto fossi legata a Lu chino, e mi pregò di convincerlo a non vendere la casa. Presi quindi un trancio, e andai a Cernobbio. “Luchino, le devo dire una cosa”, tentai, “S’era sempre detto che questa era la casa di tutti, ci abbiamo sempre lavorato, l’amiamo tanto. Non la dia via: la si può adattare, magari mettendoci un ascensore..” Lui mi rispose che l’abitazione di Via Salaria era testimone di una vita che non avrebbe mai più potuto fare, ed egli voleva dare subito la prova a se stesso di essere consapevole di questo fatto, perciò non avrebbe mai più messo piede dentro quelle mura. Cominciò allora la disgregazione di quella casa.

Perché, non la vendette subito?

Una delle caratteristiche di Luchino, che aveva una severità morale anche spietata, era quella di avere poi contraddizioni bizzarre. Per esempio era molto amico di Cesare Pavani, un arredatore, carino, un po’ uccisione, che aveva il piccolo difetto di far sparire oggetti e combinare  dei gran pasticci. Fu lui ad occuparsi della vendita della villa, che diede a non so quali milanesi che poi non pagarono, per cui la casa finì in una banca. [..]

Luchino, intanto, aveva comprato una villa a Castel Gandolfo, che aveva preso in affitto l’estate in cui girò gli interni della Caduta degli dei.

Quando venne via da Cernobbio capì che a Castel Gandolfo sarebbe rimasto molto isolato, e la cosa preoccupava anche Uberta. Fu così che affittò un piccolo appartamento – piccolissimo per le sue abitudini – in via Fleming, di fronte alla casa della sorella. La villa di Via Salaria, una volta venduta, doveva essere smobilitata. Se ne occuparono alcune persone del servizio, mentre altre passavano la giornata in Via Fleming per tornare soltanto a dormire in Via Salaria, in quanto le due stanzette riservate al servizio nel nuovo appartamentino erano occupate da un fisioterapista svedese e da un cameriere, che aveva la nuova incombenza di aiutare Luchino a vestirsi e a fare la toilette. Fu anche assunto un segretario che rubacchiava e faceva le commissioni. Luchino esigeva una grande disciplina dal personale. Tutto doveva essere fatto alla perfezione e non voleva sentire chiasso, quindi nella nuova abitazione, dove non c’era spazio adeguato, le persone addette al servizio stavano in cucina, zitte e impalate, e davano la sensazione di essere su un autobus affollato a mezzogiorno. Intanto cominciava il trasferimento a Castel Gandolfo di tutta la roba contenuta in Via Salaria, e già un po’ decimata. Luchino aveva detto che sarebbe andato a vivere lì dopo che Villa Ada venne aperta al pubblico e davanti a casa sua cominciò a esserci un gran traffico, ma nessuno di noi ci aveva creduto. [..]

La storia dei furti a Castel Gandolfo è quasi farsesca, tanto è clamorosa. E tutto avvenne nella totale indifferenza di Luchino, che pure aveva sempre amato e curato moltissimo le sue cose. [..]

In un primo momento si discusse con preoccupazione di come dare a Luchino la notizia della sparizione di oggetti che sapevamo prediletti. Poi si vide che la cosa lo lasciava completamente indifferente e i bollettini vennero riferiti con un certo cinismo “Sono scomparse tutte le icone, sono rimasti solo due tori, non ci sono più gli obelischi”.

La vita in Via Fleming diventò per lui sopportabile solo quando riprese a lavorare. Aveva supplicato Romolo Calli di trovargli modo di far qualcosa a Spoleto, e fece quella meravigliosa Manon che passò alla storia, come il suo allestimento delle Tre sorelle. E’, insieme alla Traviata con la Callas, lo spettacolo più bello che abbia mai visto. Poi tentammo di fargli fare un film, impresa assai difficile, poiché in quelle condizioni non l’assicuravano. 

Enrico Medioli scrisse il soggetto da cui nacque poi Gruppo di famiglia in un interno. Chiedemmo aiuto a quella persona deliziosa che era Burt Lancaster, e ci incontrammo con lui a Porto Ercole, come dei congiurati, per chiedergli –  senza dirlo a Luchino – se fosse disposto a firmare un contratto non solo come attore, ma anche come regista (aveva già esordito dietro la macchina da presa) nel caso in cui fosse successo qualcosa a Visconti. Naturalmente accettò. Luchino, che era leggermente migliorato, con la sua tremenda forza di volontà, non volle mai stare in carrozzella. Girò tutto il film in piedi, appoggiandosi a un bastone, e l’intera troupe lavorò nel terrore di una sua caduta. Per dare un’idea del suo carattere, basta ricordare che quando fece la Manon a Spoleto arrivò qualche giorno prima, accompagnato dal fisioterapista svedese e dall’autista, per provare tutti i percorsi in teatro, esercitandosi a muoversi dignitosamente. Lo stesso studio lo compì nel teatro in cui fecero le riprese del Gruppo di famiglia.

Tornare a lavorare migliorò il suo stato d’animo?

Era di nuovo quasi felice. Tanto che, appena finito quel film, cominciammo a cercarne disperatamente un altro da fare. Nella storia di Gruppo di famiglia, intanto, c’era stato un incidente causato dai miei colleghi con i quali mi trovavo per la seconda volta in disaccordo.. Non trovavamo come finanziare questo film, un po’ per le condizioni di salute di Visconti, un po’ per i costi. L’Ital-noleggio [..] fu il primo a essere interpellato e a dire di no. Dissero tutti di no, finché si offrì l’editore Rusconi, uomo di destra, e successe il finimondo, la ribellione di tutti i colleghi.

Ricevetti alle tre di mattina telefonate da Venezia: “Non puoi far fare questo a Visconti! Visconti non può fare un film con Rusconi…!.” E io domandavo: “Perché mai?  Che differenza c’è fra Rusconi o Rizzoli o Lombardo?, me lo dovete spiegare.” Non me lo spiegavano, e io non ho capito neanche oggi. Fecero addirittura dichiarazioni alla stampa; un putiferio a non finire. Visconti se ne infischiava. Voleva farlo, l’avrebbe fatto col diavolo. E aveva tutte le ragioni. 

Come vi organizzaste per preparare il film successivo?

Luchino aveva avuto sempre in mente La Montagna Incantata e diceva che adesso che era malato era un tema che sentiva ancora di più. Per me, da molti anni, scrivere le sceneggiature per Luchino era diventato molto facile. Proust glielo ho scritto da sola, in pratica; ne avevamo tanto parlato che sapevo le scene alle quali non avrebbe rinunciato mai, e come le immaginava.

– L’unico mio dolore è la mancanza delle nostre sedute alle 17, ma torneranno per la “Montagna”, quando ti scrisse questo biglietto?

Quando finimmo la sceneggiatura di Gruppo di famiglia in un interno. Mi mandò un quintale di fiori, e già pensava al prossimo film. Si fece quindi questa proposta ad Andrea Rizzoli, figlio del vecchio Angelo.. Andrea, letto il nostro trattamentino, fece grandi scongiuri, e disse che quella storia tutta di malati e moribondi non gli piaceva per niente. Non so cosa si fosse immaginato. Una favola, i ghiaccioli, gli edelweiss. Ci mettemmo dunque alla ricerca affannosa di qualche altra cosa. Qualcuno il Piacere di D’Annunzio. Subito! Dicevamo di sì a tutti. 

Lo realizzò mai?

No. Comunque fu per questo che passammo all’innocente. Nessuno di noi lo amava molto, ma facemmo del nostro meglio per affezionati. Luchino accettò entusiasticamente la proposta di andarlo a girare fuori Roma. Non c’era una vera necessità ma per Visconti era una conquista. Aveva cominciato a camminare discretamente e si esercitava in continuazione, anche da solo, senza il fisioterapista, finché non inciampò. Cadde e si ruppe la gamba buona. Finì in clinica a Villa del Rosario e a quel punto volle lasciarsi morire.

Le riprese del film, quindi, non erano ancora incominciate?

No, questo accadde prima, mentre Visconti stava scegliendo il cast, che poi fu tutto diverso. Luchino aveva chiesto Delon, che era venuto a trattare. [..] 

Durante la degenza si ridusse alla metà di quello che era. Vederlo in quello stato stato era uno strazio, e  non c’era modo di mentirgli, perché era chiaro che non avrebbe potuto mai più camminare. Andai a supplicarlo di reagire, e piano piano riuscimmo a persuaderlo fare il film anche in carrozzella. Ma soffriva terribilmente. Monica Stirling. una scrittrice inglese che all’epoca lavorava a un libro su Luchino, ci parlò di una modernissima carrozzella elettrica che consentiva grande autonomia. Ne fu subito fatta venire una dalla Svizzera. Luchino impazzì di furore perché non riusciva a manovrarla, e fu fatta subito sparire.

Iniziò infine il lavoro. Si andò lo stesso, come era stato progettato in Lucchesi, riuscendo in qualche modo ad arrivare in fondo. Gli attori erano stati tutti sostituiti perché nei mesi che erano passati da quando erano stati scelti avevano preso altri impegni.

Lo stesso Delon si tirò indietro.

Delon si era tirato indietro subito, e io so perché. Delon era stato creato da Luchino, gli deve tutto. Fra loro c’era stato un rapporto turbinoso ma di grandissima stima. Alain sapeva che soltanto con Visconti aveva potuto fare film come Rocco o iI Gattopardo. Gli voleva  molto bene, e vedeva in lui il grande condottiero. Trovarlo in quello stato lo emozionò enormemente. Me lo disse dopo, quando Luchino morì: “Non avrei potuto”.

E Visconti se la prese?

Delon aveva fatto chiedere dal suo agente una cifra esagerata, per farsi dire di no, ma Luchino capì, secondo me, la vera ragione. Tant’è che non ne parlo più e non inveì mai contro di lui come avrebbe fatto se non avesse compreso. ..

Terminate le riprese dell’Innocente, dunque, Visconti si ammalò e morì.

Durante la degenza a Villa del Rosario aveva fatto lo sciopero della fame, rifiutava le medicine, voleva lasciarsi morire. Da un certo punto in poi adottò l’atteggiamento opposto. Riprese per  esempio a fumare moltissimo, a bere se ne aveva voglia, a riposare in modo insufficciente. Finì il montaggio del film, e due o tre giorni dopo alla proiezione di quel primo montaggio gli venne una febbretta che lo tenne a letto. [..]

 

da Suso Cecchi D’Amico, Storie di cinema (e d’altro)

 
 
Sayonara