Muro e Relazione

 [..] La tentazione del muro non è nuova. Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese di ferro, di filo spinato, di reti elettrificate o di ideologie chiuse si sono innalzate, sono crollate e ora ritornano con nuovi stridori.
L’intimorito rifiuto dell’altro, i tentativi di neutralizzare la sua esistenza, perfino di negarla, possono assumere la forma di una corazza di testi legislativi, l’aspetto di un ministero difficile da definire, o la nebbia di una convinzione trasmessa dai media che, abbandonando a loro volta lo spirito di libertà, sottoscrivono soltanto la propria diffusione all’ombra dei poteri e delle forze dominanti.
Cosí il muro può essere surrettizio o ufficializzato, discreto o spettacolare.
La nozione stessa di identità è servita a lungo da muraglia: per fare i conti con noi stessi su chi siamo, per distinguerci da ciò che appartiene all’altro – erigendolo quindi a minaccia indecifrabile, a impronta di barbarie.
Il muro identitario ha provocato l’eterno confronto di popoli e imperi, le espansioni coloniali, la tratta dei neri, le atrocità dello schiavismo americano, gli orrori impensabili della Shoah e tutti i genocidi noti e ignoti. L’aspetto “muro” dell’identità è esistito, e continua a esistere, in tutte le culture, presso tutti i popoli, ma è in Occidente che si è rivelato in tutta la sua forza di devastazione, sotto l’amplificazione delle scienze e delle tecnologie.
Ma il mondo ha in ogni caso generato il Tutto-Mondo. Le lingue, le culture, le civiltà, i popoli si sono incontrati, massacrati, mutualmente arricchiti e fecondati, spesso senza saperlo o manifestarlo.
La minima invenzione, la minima trovata, si è sempre diffusa tra i popoli a una sorprendente velocità, dall’uso della ruota alle pratiche della coltivazione sedentaria.
Il progresso umano non si può capire senza ammettere che esiste un aspetto dinamico dell’identità, quello della “relazione”. Mentre l’aspetto-muro dell’identità rinchiude, l’aspetto-relazione apre in egual misura e se, dall’origine, tale aspetto si è accordato sia alle differenze che alle opacità, ciò non è mai avvenuto su basi solidali né secondo il dispositivo di una morale religiosa laicizzata. È stata semplicemente una questione di sopravvivenza: quelli che hanno resistito di piú, che si sono riprodotti di piú, hanno potuto praticare il contatto con l’altro, compensare l’aspetto-muro attraverso l’incontro del dare-ricevere, alimentarsi senza sosta “tramite uno scambio in cui si cambia senza tuttavia perdersi o snaturarsi”. Dunque, tutto questo è stato anche un’occasione di poesia, dal momento che l’essere-nel-mondo accresce l’essere-in-sé. La bellezza è inseparabile dal movimento delle umanità, dalla loro instancabile quête.
La necessità delle identità si inscrive nel contatto e nello scambio. L’unatrirudine a vivere il contatto e lo scambio crea il muro identitario e snatura l’identità. L’estremo rifiuto del contatto e dello scambio potrebbe venire dallo specchio che rompiamo per non vedere più noi stessi. Cominciare a rifiutare di vedere l’altro innesca un processo di chiusura nei confronti di se stessi. L’idea che ci si possa “sostenere” e realizzare non si può elaborare che nel rapporto con l’altro, nella presenza al mondo, nell’effervescenza dei contatti e degli scambi, non in precetti che vengono inalberati a priori.

L’aspetto-muro dell’identità poteva far rifulgere di qualche splendore le tribú, le etnie, le popolazioni o le nazioni che si confrontavano con l’ostilità della natura, con la violenza della vita che si accanisce nell’egoismo della sussistenza. Si è potuto affermare per gruppi umani isolati o dominanti, attraverso miti fondatori, storie nazionali, lignaggi verticali (che formano severe genealogie); ma, a mano a mano che il mondo si è aperto alla presenza di tutti e che anche la piú oscura coscienza si è ritrovata coinvolta nell’esistenza inevitabile di tutti (e che è risultato chiaro, per esempio, come l’abbondanza di qui sia molto spesso all’origine della penuria di là), l’aspetto relazionale dell’identità è emerso come il piú duraturo. Attraverso tale aspetto, comprendiamo che niente sfugge alle luci del Tutto-Mondo e che in esso non ci sono né confusione né abbandono.
Che i muri e le frontiere tengono ancora meno quando il mondo genera il Tutto-Mondo e amplifica fino all’imprevedibile il battito d’ali della farfalla. L’aspetto-muro dell’identità può rassicurare. Può allora essere funzionale a una politica razzista, xenofoba o populista che è sconfortante. Ma, indipendentemente da tutti i suoi principi virtuosi, il muro identitario non sa piú niente del mondo. Non protegge piú, non apre a nient’altro che all’involuzione delle regressioni, all’asfissia insidiosa dello spirito, alla perdita di sé.

I muri che si costruiscono oggi (con il pretesto del terrorismo, dell’immigrazione selvaggia o del dio migliore) non si innalzano tra civiltà, culture o identità, ma tra povertà e sovrabbondanza, tra ebbre ma inquiete opulenze e sterili asfissie. [..]
I rigidi muri che, cosí facendo, si erigono contro le miserie del mondo, si dissolvono curiosamente di fronte alle immigrazioni dei capitali, alle invasioni febbrili della finanza, alle orde di merci alla conquista, alle popolazioni di tecnologie che si impongono e di servizi che a grandi ondate standardizzano e alimentano a senso unico invisibili voracità liberali. D’un tratto divenuti servili, gli stessi muri sembrano allora salutare il passaggio di queste potenze che non inalberano piú marchi nazionali, che non impongono piú la loro lingua, che vanno a volto scoperto ma indistinto, anonimo e uniforme, che riempiono di cicatrici tutte le geografie del sistema di frontiere che istituiscono. Quello che minaccia le identità nazionali non sono le migrazioni; è invece, per esempio, l’egemonia degli Stati Uniti, è l’insidiosa standardizzazione del consumo, è l’idolatria della merce, precipitata su tutte le innocenze, è l’idea di un’“ essenza occidentale” separata dagli altri o di una civiltà esente da qualsiasi contributo degli altri, e che proprio per questo è diventata inumana. È l’idea della purezza, dell’elezione, divina o no, della preminenza, del diritto d’ingerenza; in breve, è il muro identitario nel cuore dell’unità-diversità umana. [..]
Il ritornello dello scontro di civiltà è deplorevole. Le civiltà si conoscono, si frequentano, si cambiano e si scambiano in modo cosciente o inconscio da migliaia di anni. Le archeologie culturali o anche identitarie non rilevano che strati che si intrecciano senza fine, si nutrono, si guardano, si fecondano, si “emulsionano”. L'”Occidente” è in noi e noi siamo in esso. È presente in noi attraverso le strade della suggestione, della soggezione, della dominazione diretta o silenziosa. Ma è anche in noi attraverso quei valori che ha portato al livello più alto e forse fino all’eccesso (ragione, concetto di individuo, diritti umani, uguaglianza uomo-donna, laicità, cottadinanza …) e che erano già in embrione in tutte le culture, in gradi variabili e con sfumature infinite. Tutte le culture hanno avuto la loro proiezione magico-mitica legata a un processo razionale e tecnico. Tutte le culture implicano follia e saggezza, prosa e poesia. Tutte le culture sono fatte di pulsioni comunitarie e di partecipazione individuale. La dominazione occidentale si è rafforzata a partirre da una brusca espansione e da un’esasperazione di questi elementi. Il verme era nel frutto. In creolo sé kod yanm qui maré yanm, è la lama prodotta dell’igname che permette di legarlo meglio.
Così, tutti i conquistatori sono segretamente conquistati. Tutti i dominatorri si trasformano nell’alchimia della loro stessa dominazione. La forza cieca e brutale espone colui che la esercita a inevitabili debolezze. Impossessandosi del mondo, l’Occidente si è fatto anche prendere dal mondo. Il dare-ricevere forse sopravanzerà il saccheggio rituale, o almeno questa è la nostra speranza per il futuro.
La grande forza dei vinti del mercato-mondo è l’aver anche ricevuto splendori e ombre dei vincitori. La cosa più difficile non è rifiutarli, ma disfarsi delle loro fascinazioni attraverso un immaginario liberato, una poetica chiaroveggente del Tutto-Mondo. Una pienezza ideale, che si chiama mondialità, lontane dalle conquiste [..] Attraverso tutto ciò siamo nell'”Occidente”, ma oltre a questo ci orientiamo: conosciamo il “nostro Oriente”. [..]
 
da Quando cadono i muri. L’identità nazionale fuorilegge? di
Patrick Chamoiseau e
Édouard Gkissant