Un kumquat per John Keats – Tony Harrison

Oggi ho trovato il frutto giusto per la mia età,
non arancio, non limonarancio e non limetta,
né i globi lunari di pompelmo che ora pendono
davanti alla nostra camera da letto, né acido limone
(anche se l’anno scorso, pieno di bile e di sconfitte,
volevo credere che nessuna vita è dolce)
nè il mandarino, sole tangibile,
né alcun agrume incongruo visto a volte
dai verdurieri a New Castle o Leeds
col nome storpiato accanto a patate e rape,
un frutto che un poeta più anziano può sostituire
all’uva che John Keats chiamò il frutto della Gioia
quando, a due anni dalla morte, cercò jdi dire
come Malinconia vive nel Piacere,
e se avesse conosciuto l’agrume che dico
che non è arancio limone limetta o mandarino
sono quasi certo che Keats, per quanto sapesse
di “mele candite, cotogne, prugna e melone”,
anziché “l’uva contro il palato fine”
avrebbe, conoscendolo, celebrato il mio,
l’agrume orientale grosso non più di una ciliegia
che dopo un solo morso avrebbe apostrofato
e detto in una strofa che esso aveva tutta
la qualità dei frutti prima della caduta,
ma avrebbe dovuto aggiungere nei versi successivi
che gusto avesse la mela di Eva al secondo morso,
e se John Keats fosse vissuto fino ad avere,
a causa degli anni in più, le mie necessità,
a 42 mi avrebbe aiutato a celebrare
quel kumquat di Micanooy che ho mangiato
intero, appena colto, polpa dolce e buccia amara,
o forse il dolce era fuori, l’amaro dentro?

Infatti per quanti kumquat io mangi
non so se è la buccia o la polpa che è dolce
ed essendo uomo di dubbi a metà della vita
offrirei a Keats dei kumquat e gli direi:
Vedrai che una parte è dolce e l’altra è amara
dimmi dove comincia il dolce e finisce l’agro.

Io non ci riesco, come se non si potesse dire
esattamente a che punto la notte diventa giorno
il che fa per me del kumquat tutto intero
il frutto e la metafora migliore per l’animo
di un quarantaduenne che in Florida con Keats
mastica kumquat, pensando, mentre mangia
la polpa, il succo, il nocciolo, la buccia,
che questo dovrebbe essere il sapore di una vita piena,
Il suo gusto deperibile pungere la lingua,
quando l’uomo che gusta la vita non è più giovane,
e i frutti che erano i suoi futuri li ha alle spalle.
Poi è il frutto del kumquat che meglio esprime
come i giorni hanno intorno una buccia di buio,
la vita ha una pelle di morte che ne tiene il gusto.

La storia, una vita, il cervello, il cuore,
corrono alle papille gustative e ne ritornano.
Quel decennio o più oltre il tempo di Keats
fa di me un uomo più vecchio, non più saggio,
che sa che è troppo tardi per morire giovani,
ma visto che la giovinezza tace alcuni piaceri
gli sono concessi giorni e kumquat per esprimere
l’Essere umano maturato dal suo Nulla.
Non è solo una differenza di sedici anni,
un raccolto maggiore di orrori, paure e speranze,
ma un secolo di storia su questa terra
fra la morte di Keats e la mia nascita:
anni come un cratere aperto, cupi e sanguinanti,
con bolle rosse che sogghignano sull’orlo:
un aggeggio non più grande di un’urna esplode
e stupra ogni silenzio, ogni ode,
Flora asfissiata dall’aria immonda
ignota tanto a Keats quanto al suo Lemprière,
Naiadi deidratate, Driadi amputate,
che si trascinano fra paesaggi di detriti sterili,
un’ardente camicia di Nesso che morde e ferisce
bambini che hanno metà l’età a cui Keats morí…

Dunque, avevi venticinque anni o ventisei
quando quella fronte febbricitante infine fu fredda?
Non ho libri a portata di mano per controllare le date.
Il mio spirito aspro ma contento gode
che a portata di mano ho solo i kumquat, John,
il frutto su cui mi piacerebbe avere il tuo parere,
ma i morti non mangiano kumquat e non bevono vino,
rabbrividiscono nelle braccia di Proserpina,
non si crogiolano a letto con la loro Fanny Brawne,
né la guardano raccogliere pompelmi maturi nell’alba
come ho fatto io, svegliandomi, quando l’ho vista staccare
con un agile movimento del polso abbronzato
la luna, che iersera illuminò la nostra passeggiata
lungo la palude degli alligatori, dal suo gambo.
Pensai a sorbetti di luna quando vidi,
come se non avessi mai visto la luna prima,
il pianeta brillare fra i pomi, e la pallida luce
fare di ogni pomo sull’albero un suo satellite.

Ogni sera quando abbasso le tendine
le stelle sembrano gocce della buccia notturna;
il sole, frutto spelato della notte, spreme i raggi
con cui macchia, stria, allaga il mondo di giorni:
giorni, quando la stessa luce mi faceva piangere,
giorni, passati come le notti in un sonno pesante,
giorni a Newcastle presso il letto di mia figlia
pensando che era meglio se uno dei due moriva,
giorni a Leeds, giorni grigi, il primo vestito scuro,
le corone di mia madre vicino ai frutti di Natale,
e giorni come questo a Micanopy. Giorni!

Come il sole forte brucia le nebbia grigia del mattino
raccolgo un kumquat e i rami mi spruzzano
fredda rugiada in faccia per iniziare il giorno.
Le limette, come Galway dopo settimane di pioggia,
brillano d’un verde che quasi ferisce,
pelli fresche di rugiada che passarono
tutta la notte a fiammeggiare in cielo.
Il nuovo giorno albeggia. O giorni! Il mio spirito saluta
il kumquat con lo spirito di John Keats.
O kumquat, conforto per chi non muore giovane,
insieme dolce e amaro, benedici la lingua del poeta!
Schiaccio tutto il frutto rugiadoso
contro il palato. Non male, a 42!

Cerco poiane nel cielo che schiarisce
e le vedo in alto cavalcare fresche folate.
I loro gridi cupi furono i primi a salutarmi
quando uscii dalla porta al sorgere del sole,
e un rumore come le molle del nostro letto stanotte:
il signor Fowler che affilava le cesoie.
 

Glen Erler

 

da V. e altre poesie –
Tony Harrison

 

* in copertina
ph. Cas Oorthuys
dalla mostra “Strange and Familiar”
Martin Parr shows The Real Britain
al Barbican di Londra