la “vocazione sovversiva” della poesia

Il faut s’établir à l’extérieur de soi, au bord des larmes et dans l’orbite des famines, si nous voulons que quelque chose hors du commun se produise, qui n’était que pour nous. – René Char

 
” ..Nessuna poesia, anche quella apparentemente più lontana da queste problematiche, può esserne immune, rimanere estranea alle vicende del mondo in cui nasce e al quale, in forme e con fini i più diversificati, comunque si rivolge e risponde.
Non credo nell’isolamento e nell’ispirazione: sono termini che ho sempre visto con profondo sospetto perché ingenerano l’idea di una nascita quasi divina, mistica, del fare poetico – che ne esce circonfuso da un’aura di sacralità e di inviolabilità, di separatezza e inaccessibilità, mentre invece il “poiein” è la più terrestre e la più elementare delle attività umane: una perenne creazione di forme che, sottratte alle destinazioni d’uso delle categorie dell’utile, si pongono per la loro stessa natura in opposizione costante verso ciò che tende a ridurre l’esistenza nell’alveo soffocante di quelle stesse categorie elevate a sistema. La poesia è sempre, da questo punto di vista, un fatto eminentemente politico.
Quindi, si può fare, anzi si deve fare, una poesia di opposizione, eretica, dissenziente, radicale, politica, e tante modalità, in questa direzione, sono state ampiamente esplorate, esperite, praticate. Rimane, però, un malinteso sostanziale, un nodo teorico non risolto nella maggioranza di queste enunciazioni, che, a mio parere, condiziona non poco le intenzioni e la pratica scrittoria di tanti pur validissimi poeti, frettolosamente etichettati, in particolare in Italia, come “civili”: e cioè che la denuncia passa invariabilmente attraverso la riproposizione, a parametri rovesciati, di quello stesso reale reificato contro cui ci si pone, dando luogo a delle rappresentazioni che utilizzano, sul piano della comunicazione, quello stesso linguaggio che genera e veicola il degrado, la mercificazione, l’ipostatizzazione dell’esistente. Il risultato è, nella migliore delle ipotesi, una poesia “consolatoria”, d’occasione, da santini laici, che ha la stessa inconsistenza, su un piano solo presuntivamente alternativo, di tutte le poetiche impastate di aneliti estatici al sovrasensibile e accensioni spirituali variamente assortite.
Io provo, nei limiti del possibile, a fare, o almeno a ipotizzare, un percorso diverso, rischiando l’oscurità più totale, l’erranza perpetua del senso, pur di sfuggire a queste logiche auto-assolutorie che normalizzano, loro sì, la mercificazione omologante delle belle forme e delle belle anime.
Cos’è, in buona sostanza, che permette al potere di perpetuarsi attraverso il controllo, la rimozione delle diversità, il seppellimento ancora in vita di ogni forma di alterità, nell’arte come nella vita concreta di tutti i giorni, qui e ora? Nient’altro che il “linguaggio”, le forme canonizzate ed etero-dirette della comunicazione, una parola priva di vita, che non nomina e non ricrea il mondo ma lo ingabbia nell’oggettualità senza sguardi e senza voce dei simulacri da cui siamo soffocati. Ed è qui che va speso almeno un tentativo, prefigurata almeno una possibilità di alternativa: riandare a una parola primigenia, essenziale, disincrostata; restituire alla parola la sua libertà, quella di “essere”, prima di “significare”; farle parlare la lingua delle cose al loro primo apparire, prima che il circuito della rappresentazione/significazione la rinchiuda, attraverso i meccanismi tipici della tradizione museificata e della complicità accademica officiante, nel tritacarne delle etichette, degli schemi, delle omologanti artificiali pulsioni alla visibilità senza suono e senza sostanza.
Mi interessa chi si espone, giorno dopo giorno, nelle strade, nei luoghi dove si cova il conflitto, la dialettica; chi si immerge nelle contraddizioni e nelle lacerazioni e le vive sulla sua pelle; chi si ritrova parte, e ha coscienza di esserlo, della stessa umanità emarginata e senza voce; non mi interessa minimamente chi crede di avere assolto il suo compito etico, civile, sociale, affermando una distanza solo presunta dai luoghi del domino che genera emarginazione e dolore, facendo il suo bel compitino in versi e, in questo modo, mettendo a tacere, anestetizzandola di buoni proponimenti, la sua coscienza.
Se mi è cara la condizione degli ultimi, io con gli ultimi ci vivo e ci consumo la mia esistenza, non gli offro una poesia, sia pure ben scritta e politicamente corretta, che dica “ecco, è per voi”: se sono poeta, e lo sono a partire da quella scelta radicale, io metto i miei strumenti a disposizione di un progetto consapevole di scardinamento delle strutture su cui il potere si regge, cioè delle strutture della comunicazione che perpetuano il controllo. L’eresia, il dissenso, l’opposizione sono qui: perché la poesia, quella vera, quella che chiede alla parola di essere, nasce come “vocazione sovversiva”: sovversione dell’ordine di segni attraverso il quale il potere perpetua da seimila anni controllo e dominio.
René Char, tanto per fare un esempio che forse può spiegare meglio il mio pensiero, “non” ha scritto pagine “belle” o “utili” sulla resistenza, ma la resistenza l’ha “fatta”, in armi: e mentre combatteva per restituire all’umano (cioè in primo luogo a se stesso) la sua dignità ferita e umiliata, da poeta scavava fin nelle viscere delle parole, fino a disperderne il senso, contrapponendo oscurità a oscurità, alla ricerca di quegli “squarci di esistenza inafferrabili” dove la vita riscopre “l’abisso e la cima”, “il furore e il mistero”: l’irripetibile finitudine delle sue radici e dei suoi rami.
Le sue pagine sulla Maddalena del lumino di Georges de la Tour sono fatte di parole levate per l’eternità contro ogni forma di totalitarismo e di oppressione; così come l’oscurità del mandorlo di Celan splenderà per sempre, come un monito a futura memoria, contro ogni forma di violenza e di negazione della vita e delle sue diversità.
La poesia “politica” è questa: un corpo di parole che parla di speranza e futuro ma lo fa, come ogni arte che sia tale, con strumenti che sono solo i suoi, quelli che la distinguono da ogni altra forma dell’operare umano. Chi crede che le poesie cambieranno il mondo, sta semplicemente ingannando se stesso e coloro che lo leggono: il mondo si cambia, l’esistente reificato si rovescia e si abbatte solo con la forza della volontà e delle idee e con l’azione concreta dell’impegno quotidiano e della lotta: le poesie possono solo ricordarci, quando cercheremo di ricostruirlo, il mondo, quali sono i mattoni che non possiamo assolutamente fare a meno di utilizzare, quali quelli da scartare per evitare che domani tutto crolli di nuovo. ..”
 
da Una forma di resistenza – Francesco Marotta

Pourquoi poème pulvérisé ? Parce qu’au terme de son voyage vers le Pays, après l’obscurité pré-natale et la dureté terrestre, la finitude du poème est lumière, apport de l’être à la vie. – René Char

 
Un rêve solaire – Patrick Bokanowski
Les poèmes sont des bouts d’existence incorruptibles que nous lançons à la gueule répugnante de la mort, mais assez haut pour que, ricochant sur elle, ils tombent dans le monde nominateur de l’unité. – René Char

 
Colui che passa

E’ capitato di notte.
Le fiamme delle foreste di eucalipti
stavano per inghiottire la luna piena e la città.

Avrebbe potuto essere un foglio carbonizzato
trasportato dal vento di mezzanotte.
La sua vena centrale: la sua acuta libertà.

E’ il vento
che ci ricorda che occorre scegliere
e che non ci si rifugia sul suo lato nascosto.

Parla un poco,
saluta, piange, pianta il suo palo e il suo canto
nel cuore della nuvola,
in pieno viso al mostro,
saluta, ascolta e se ne va
dopo aver rialzato la collina degli uomini.

Yves Bergeret
 
*
tutte le foto sono tratte
dal film Un rève solaire, 2016
di Patrick Bokanowski