La parte del bene – Edmond Jabès

“Sei ricco. Ti è data la parola”.

Reb Elaim

1

(-A cosa pensi?
– Alla terra.
– Ma tu sei sulla terra.
– Penso alla terra dove sarò.
– Siamo uno di fronte all’altro e abbiamo i piedi sulla terra.
– Conosco solo i sassi del sentiero che conduce, dicono, alla terra.


Se l’albero non avesse intelligenza, crollerebbe.
Se il mare non avesse intelligenza, divorerebbe se stesso.
L’acqua ubbidisce all’acqua
E sostenta il pesce.
L’aria ubbidisce all’aria
e sostenta l’uccello.
Se l’uomo non avesse intelligenza, sarebbe buio ovunque.
Urleresti sulle strade,
Malediresti il tuo prossimo.
Plaudiresti all’incendio.
Mozzeresti il capo ai bambini.
Non vi sarebbero più fiori.
Porteresti una corona di spine.
Saresti solo, solo, solo;
poiché, per essere due,
BISOGNA SAPERE.

Ti ho lasciato morire, Yukel. Ti ero accanto quando bevesti il veleno. Potevo impedirtelo, ma il tuo sguardo non sopportava che intervenissi per modificare la tua decisione. Ho assistito alla tua agonia, nell’ombra. Tu fissavi il muro. Non baciasti, nemmeno una volta, l’immagine di Sarah, [..]
Comincio per me una nuova vita; una miserevole morte. Ero forse destinato a denunciare la sofferenza di cui ti liberasti sopprimendoti? Ma io non ho orecchie né bocca. Quanto ai miei occhi, niente più li attira. Tu eri il mio respiro, e Sarah, il grido della mia verità violentata. [..]
Dove potrei andare così sdoppiato?

Uno scrittore evade con i vocaboli e alcuni, talvolta uno o due, lo seguono nella morte. Un vocabolo è prima di tutto un alveare, poi un nome. Due nomi si contendono il mio cuore e la mia mente. Li ho trovati nell’intimo di me stesso e la loro esistenza io l’avevo vissuta nelle tenebre. Come ieri eri tu, così io ora sono allo stremo delle mie forze. [..]
Non ho più ambizioni. Sono il varco aperto alla luce dove mi hai gettato. [..]
“Cos’è uno scrittore? Chiedeva Reb Hod a un narratore famoso. Un letterato? No; ma un’ombra che porta un uomo”.
Tu eri quell’uomo, Yukel, quel l’eroe e quel martire.
Io presto mi farò da parte.
Tu sei ritornato dai campi della vergogna per dedicarti alla tua ultima ora e i miei fogli hanno l’odore di ceneri della tua fede.
Il libro è un istante della ferita o l’eternità.
Il mondo si limita a noi. [..]

Eri avaro di confidenze e i miei racconti poggiano più sulle mie parole che sulle tue. Non so come accarezzavi la tua amante né quanto orribile fu il tuo calvario. Lo so solo dal tuo modo di pronunciare Sarah, lasciando scivolare il palmo della mano nel vuoto, e dalla piega della tua bocca quando ricordavo il tempo della tua prigionia. Ti vedo così come ti mostrasti al mio sguardo. E forse perché non potevi più vivere.
Io sono venuto dal deserto, come si viene dall’aldilà della memoria. Portavo con me il saluto della sabbia. Sono venuto con le braccia vuote, spogliate dai secoli. Non avevo nome, se non quello che avrei ricevuto da te e che ti sei ripreso.
È facile abbandonare.

I sogni, come i ricordi, sono i lidi verso cui remiamo per sfuggire agli indomani identici e alla loro vanità crudele; perché i giorni che non possono esprimersi sono grigi e freddi. Giorni muti con gesti disordinati che ci straziano.
Ho l’impressione di muovermi all’ombra delle sillabe, in quelle regioni che precedono le confidenze, dove la lingua non ha ancora la possibilità di rispondere all’appello del pensiero, in quelle paludi dove, a ogni respiro, si rischia di sprofondare.
“Bisogna aspettare talvolta anni, diceva Reb Tain, perché l’istante che ci ha segnato ritrovi la sua voce; allora, esso parla senza che noi possiamo più fermare il corso delle sue parole”.

(“Zattera percossa dalle onde, la speranza di Sion è affondata nell’oceano.
Il dolore, come ogni notte, mette a confronto le sue costellazioni”


Reb Jacobi)

La campagna dove ho cercato rifugio, si stende di fronte a me e tenta, con la forza di ogni albero, di ogni gemma, di ogni uccello, di accennare una riconciliazione con la vita.
Più che in qualsiasi altro luogo, qui sono al centro della salute, della solidità della parola; ma proprio a causa del suo vigore, questa parola mi scaccia. Nodo dopo nodo, mi separo dalla mia anima. La linfa mi è insulto; il frutto, impostura.
Sopravvivere alle grida di Sarah, al tuo suicidio esemplare, non è rinnegare me stesso nel mio orgoglio di scrittore?
Sarò un uomo senza volto, braccato dalla paura di essere riconosciuto; perché non ebbi il coraggio, Yukel, di ripetere su di me il tuo gesto fatale.
La tua morte smaschera la mia morte.

(“I libri, scriveva Reb Salem, sono abitati da mostri protetti dalla notte dell’inchiostro. Bisogna continuamente placarne la brama.
Consegnato il libro, credevo di sfuggire alla mia sorte. Ma no, eccomi qui a pagare sempre di persona e su valichi nevosi che l’orizzonte svela. Il sangue è bello su queste coltri di disprezzo che ho conosciuto solo qui”).

Il rimprovero è in ogni vocabolo che ho rivelato alla sua voce e che credeva alla mia sincerità.
Se la bestia, per grazia del poeta, si trasforma in angelo, l’angelo gradito ridiventa subito bestia.
Poco a poco, il libro mi darà il colpo di grazia.

(“Dodici tribù umiliate nel loro rango sembravano attendere dalle mie interrogazioni un libro. Io, per esse, lo volevo scritto in una lingua universale, nella lingua originaria dell’uomo.
Mi era trasmesso da mano a mano.
Vi avevo riconosciuto la mano di mio padre e quella, mai toccata, di mio nonno, con quelle pagine senza altro legame che il loro biancore, ma già sicure di offrirsi attraverso i vocaboli abilitati.

Reb Azat

“Una curiosità maliziosa spinge la rosa a rivendicare il suo posto nel firmamento. Essa fiorisce con la rugiada e si sfoglia con il crepuscolo”.


Reb Sidi).

Instaurato il dialogo, chi lo interromperà, se non io stesso? Il Reale che è la sabbia e il Nulla che è l’azzurro sono i miei due orizzonti. E che importa se cammino sull’uno e levo gli occhi in direzione dell’altro.
A esistere sei tu, Yukel ed è il tuo amore; a cessare di esistere, sei tu, Yukel, ed è Sarah i cui lamenti sono in noi.
Tutte le grida levate dall’anima si assomigliano.
Il Nulla è quel mondo ubbidiente che ci nomina. L’odio e la schiavitù hanno lo stesso alito.
Io sono lo stordimento dell’ultimo soffio zigzagante nell’atmosfera; il breve scalo della vita e della morte, prima dell’addio.
Invisibile e senza voce.

2

Siamo morti, non vedete? Diceva Reb Safir. Morire, è assumere finalmente la propria condizione di straniero.
Chi è più straniero di un uomo defunto?
Ah i morti sono tutti ebrei; stranieri per gli altri e per se stessi.
Nell’istante della morte, non ci si può che sentire ebrei.
Popolo primogenito, che ha la stessa età del cammino, noi siamo l’altrove, il di là o il di qua. L’avvenire passato, dunque l’eternità, l’infinito; la sciarpa di stelle, di sole, di setacci nel vento”.
E Reb Areb: “La solidarietà ebraica è l’impossibile passione che lo straniero può provare per uno straniero”.

“L’amore ha la voce della morte per il sordo; la propria voce”.

Reb Mosel

“Il dono degli altri arricchisce, perché prefigura il dono di sé”.

Reb Alan

“Se Dio è la vita, l’uomo può essere solo ciò che Dio non ha voluto”.

Reb Ashmin

“Il mare ricama l”universo”.

Reb Amron

“L’oblio è il vuoto antico; in esso gira la terra”.

Reb Dot
da Il libro di Yukel
in Il libro delle interrogazioni –
Edmond Jabès

(“Se, davanti al foglio che trema nelle mie mani, sono preso da vertigine, non è per il suo biancore; ma per le parole bianche che esso nasconde e che, nel loro ordine, attendono di apparire. Saprò riconoscerle? Sono abbagliato. Si fa così presto a commettere un errore. Non bisogna lasciare che una parola sopprima l’altra; ritrovare il vocabolo sperato, che spera e del quale fui la pagina e l’usta. Abbiamo una sorte comune”.

Reb Ferhat)


“Basta un minuto di mirto per dimenticare un secolo di solchi”.
Reb Kelat


“Astri linciati.
Ombre razziste”
.

Reb Bruhl

“Raduneremo le immagini e le immagini delle immagini fino all’ultima che è bianca e nella quale ci accoderemo”.

Reb Carasso

* le foto sono tratte
dal National Geographic, nel servizio fotografico “Without a Home, and without Hope” (foto di William Daniels), che documenta il dramma della popolazione Rohingya, minoranza musulmana birmana in fuga, perseguitata dalla maggioranza buddista del Myanmar che la respinge, strappando i suoi stessi cittadini dal loro paese e dalle loro case, verso il Bangladesh. Considerati clandestini dal regime birmano e da quello del Blangadesh che rifiuta loro asilo politico, circa un milione di persone vive, in condizioni di segregazione razziale, in una piccolissima zona di confine tra i due Stati.