le Montagne Incantate e la “realtà” dipinta – M. Antonioni

.. “la deviazione pittorica” di Antonioni: le Montagne incantate.
[..] È una “deviazione” tutt’altro che marginale, anzi particolarmente interessante per quel che dice direttamente e per quello che propone indirettamente. Perché queste Montagne sono anche un’operazione di critica, di riflessione, o di autoriflessione. E poiché questa propensione antonioniana, su cui ci siamo già soffermati, è importante, conviene dilungarsi per intenderne tutte le possibili diramazioni, per quel che ci dicono sul colore, sulla riproduzione, e alla fine sul cinema. Si può partire, come quasi tutti hanno notato e lo stesso regista ha sottolineato, da Blow-up; infatti, il procedimento usato richiama da vicino quel processo di “sviluppo” dell’immagine che questo film prende in considerazione. Si tratta di iniziali “tracce” pittoriche, di piccole dimensioni, a tecniche miste, progressivamente ingrandite tramite riproduzione fotografica. Il risultato è “altro”, potremmo provvisoriamente definirlo astratto. Dietro, o al fondo, c’è una indicazione di carattere teorico generale. In primo luogo si riafferma il ruolo della tecnica (qui quella fotografica) come produttrice di senso, come momento costitutivo di un’opera. In questo caso, a complicare le cose, si tratta di una tecnica che opera su un’altra tecnica compositiva. L’ingrandimento da espansione quantitativa diventa processo qualitativo, che modifica la base originaria nei suoi aspetti percettivi, il colore in particolare.

Queste Montagne si inseriscono in un’attenzione costante di Antonioni a forme di trasformazione, rappresentate anche dal suo cinema. E pongono subito interrogativi rilevanti. Fino a che punto può procedere l’ingrandimento? Il limite sembra naturalmente costituito dalla volontà dell’operatore, che sancisce la dimensione come marca d’autore. Siamo nell’area dei multipli pittorici, con una differenza però: in questo caso ci possono essere multipli diversi, perché il procedimento di sviluppo fotografico può modificare in modo diverso lo stesso originale. Già, l’originale; la traccia iniziale rimane, e spesso nelle varie mostre è stata esposta, complicando l’idea di copia. L’opinione di Antonioni è netta, «l’opera è l’ingrandimento, non l’originale», ma forse il problema resta aperto, perché la copia si manifesta come “rivelazione”, il visibile va oltre il visto. Le possibili analogie con, per esempio, i procedimenti litografici vanno adattate alla novità introdotta da questo ingrandimento.

Si tratta di interrogativi che riguardano i concetti cardine di riproducibilità (Benjamin incalza…) e di riproduzione. La labile nozione di modernità fa i conti anche con queste categorie. Perché, appunto, la riproduzione denota una volta di più il suo carattere non mimetico, il suo fondo di ambiguità malgrado l’apparente “oggettività” del mezzo (la fotografia). Riappare, naturalmente, il riferimento a Blow-up, e più in generale a un cinema, quello antonioniano, che ha fatto dell’insistenza dello sguardo una delle sue note formali salienti. Fotografare, inutile dirlo, o riprendere con la macchina da presa è appunto una forma di insistenza. E il residuo di ambiguità, o di “mistero” secondo la dichiarazione riportata, emerge esplorando le superfici, la loro “ricchezza”.

L’orizzonte tende ad ampliarsi proprio verso un approfondimento del “mostrare”, direzione principale delle Montagne (e del cinema, giova ripeterlo). La “naturalità” dell’occhio (in questo caso rinforzato dalla protesi della macchina) rivela invece la sua capacità di intervento sul reale, le sue diramazioni (la memoria), una non evidente propensione a rimandare ad altro, a immaginare. Il punto di partenza è la materia, il colore. Il regista ne ha spiegato la genesi: «Ho cominciato con cose astratte. Un giorno ricomponendo piccoli frammenti di un dipinto strappato mi sono accorto che erano delle montagne. È molto divertente! Uno di questi quadri, visto alla lente, mi procurava strane sensazioni, ero affascinato dalla materia». Il termine materia, appunto, è molto indicativo. La trasformazione “tira fuori” quel che non era visibile (ancora l’idea di “mistero”?), pieni e vuoti, presenze e rimandi, sottrazioni e aggiunte. La fotografia come il cinema, «filmare non è più mostrare ma interrogare il senso del visibile» (José Moure).

Il visibile, dunque. Quelle che emergono da questo blow-up sono, forse, delle montagne, linee, limiti e indeterminatezze, profili che lasciano fuori ogni cosa o persona. Ma, ci si può chiedere, perché queste montagne sono incantate? Forse perché la bellezza delle linee e dei colori produce attrazione e sospensione, un equilibrio incerto tra pieni e vuoti, o forse perché il tempo (che appare “fermato” ma non lo è) tende a sfumare l’immagine, come la luce nell’ultima inquadratura dell’Eclisse.
Al fondo, insomma, delle Montagne incantate c’è un forte strato teorico, una riflessione sul suo linguaggio da parte del regista. Le tante considerazioni che si vanno diffondendo, alle volte incautamente, sul rapporto tra cinema e pensiero (cinema e filosofia, per usare la formula) dovrebbero abbandonare l’idea che le immagini, siano o no in movimento, possano solo trasmettere significati problematici, e inoltrarsi una volta di più (qualcuno ce l’ha insegnato…) nel vasto terreno del cinema che produce un proprio autonomo pensiero.
 

da Michelangelo Antonioni –
di Giorgio Tinazzi

Ediz. Il Castoro
 
Dove va il cinema – Chambre 666 di Wim Wenders
 

“Arte fondamentalmente figurativa, il cinematografo come la pittura ha il suo mezzo di rappresentazione formale nell’apparenza esterna della natura e degli individui, purché lasci chiaramente trasparire la loro interiorità. Si badi bene: apparenza, non materia; perciò si rende indispensabile un rapporto preciso tra spirituale e sensibile, l’ottenimento del quale coincide: da un lato con la trasfigurazione dell’aspetto reale del mondo in pura illusione d’arte, dall’altro con il colore, i cui passaggi, differenze e sfumature, consentono la trasfigurazione medesima… Basta tenere per valida l’asserzione per cui il cinema in bianco e nero sta al cinema a colori come il disegno sta alla pittura. Il colore ha, nella vita dei nostri giorni, un significato e una funzione che non aveva nel passato. Sono certo che, presto, Il bianco e nero diventerà veramente del materiale da museo. ” – Antonioni

 

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Caro Antonioni,

Nella sua tipologia, Nietzsche distingue due figure: il prete e l’artista. Di preti, ne abbiamo oggi da vendere; di tutte le religioni e anche senza religione; ma di artisti?
Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o, se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l’artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità.
Contrariamente al prete, l’artista ammira e si stupisce; il suo sguardo può essere critico, ma non è accusatore: l’artista non conosce risentimento. Proprio perché tu sei un artista la tua opera è aperta al Moderno. Molti prendono il Moderno come una bandiera di combattimento levata contro il vecchio mondo, i suoi valori compromessi; ma per te, non è il termine statico di una facile opposizione; anzi il contrario, il Moderno è la difficoltà attiva di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all’interno di quella piccola Storia di cui è misura l’esistenza di ciascuno di noi. Cominciata all’indomani dell’ultima guerra, la tua opera si è così rivolta, di momento in momento, secondo un doppio movimento di vigilanza, al mondo contemporaneo e a te stesso; ognuno dei tuoi film è stato, a livello personale un’esperienza storica, l’abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova; il che significa che tu hai vissuto e trattato la storia di questi ultimi trent’anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui tu dovevi captare, di opera in opera, il magnetismo. Per te il contenuto e la forma sono storici allo stesso modo; i drammi, come tu hai detto, sono indifferentemente psicologici e plastici. Il sociale, il narrativo, il nevrotico, non sono che livelli, pertinenze, come si dice in linguistica, del mondo totale, che è l’oggetto di ogni artista: c’è una successione, non una gerarchia degli interessi. Per essere precisi, contrariamente al filosofo, l’artista non evolve; come uno strumento molto sensibile, egli percorre le successioni del Nuovo che la propria storia gli presenta: la sua opera non è un riflesso fisso, ma una moire su cui passano, secondo l’inclinazione dello sguardo e le sollecitazioni del tempo, le figure del Sociale o del Passionale, e quelle delle innovazioni formali, dal modulo narrativo all’impiego del Colore. La tua inquietudine per l’epoca non è quella dello storico, del politico o del moralista, ma piuttosto quella dell’utopista che cerca di scorgere su punti precisi il mondo nuovo, poiché ha voglia di quel mondo e vuole già farne parte. La vigilanza dell’artista, che è la tua, è una vigilanza amorosa, una vigilanza del desiderio.
Chiamo saggezza dell’artista non una virtù antica, ancor meno un discorso mediocre, ma, al contrario, quel sapere morale, quell’acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità. Quanti crimini l’umanità non ha commesso in nome della Verità! Eppure tale novità non è mai stata che un senso.
Quante guerre, repressioni, terrori, genocidi, per il trionfo di un senso! Lui, l’artista, sa che il senso di una cosa non è la sua verità; questo sapere è una saggezza, una saggezza folle, si potrebbe dire, che trae il sapere dalla comunità, dal branco dei fanatici e degli arroganti. Non tutti gli artisti, tuttavia, hanno questa saggezza; alcuni ipostatizzano il senso.
Tale operazione terroristica generalmente si chiama realismo. Così quando dichiari (in un’intervista con Godard): “Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici”, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film (uso ancora lo stesso termine) una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante»
 
Roland Barthes
 

* tutti i “dipinti” sono di M. Antonioni
(il corsivo nel testo è mio, l’immagine di copertina è un ingrandimento di un fotogramma del film “L’eclisse”, la fotografia a colori è di Enrico Appetito, fotografo di scena di alcuni film di Antonioni)