“Abbiamo perduto la morte” – Maurice Blanchot e Aleksandr Sokurov

« Le tracé de la spirale imposait une longue errance, la désorientation sans fin de la conscience initiale. Elle a dû apprendre à séparer (mais en les rapprochant, pour survivre, dans le domaine de l’apparence) le tournoiement entêté vers l’abîme, du pauvre mouvement d’une patience – cette presque vie – tout entière tournée vers l’être qui l’élude »

« À travers cette errance, dans un mouvement qui pourrait être – qui a été parfois – celui d’une perdition pure et simple (…), c’est le surgissement royal de la vie, l’épanouissement, le rayonnement de la lumière que j’ai aussi trouvés »
Claude Vigée

[..] Giacché nell’ingaggiare una lotta superba e nel prodigare risorse meravigliose, abbiamo sicuramente sacrificato qualcosa; nel tentativo di salvarci è andata perduta la verità di quello da cui avevamo il diritto di stare al sicuro. A questo punto entriamo in un ordine piú segreto, che dice con parole che tradiscono: abbiamo perduto la morte. Perduto la morte? Che cosa cerca di dirsi con queste parole? Avremmo dimenticato di essere mortali? Non nominiamo forse ad ogni istante ciò che ci rende mortali? Lo nominiamo infatti, ma solo per dominarlo con un nome e alla fine disfarcene. Tutto il nostro linguaggio è organizzato – ed ecco la sua natura divina – per rivelare, in ciò che «è», non la parte peritura, ma quella che sussiste sempre e si forma in questo perire [..] La distanza da ciò che muore è distanza dalla realtà. Il nome è stabile e stabilizza, ma con esso si perde l’istante unico e già svanito; lo stesso vale per la parola, che è sempre generale, ha sempre già mancato la cosa nominata. [..] ho fatto appena in tempo a dire ora ed ecco che, in questo unico termine che dice insieme tutti gli «ora» nella loro forma generale e nella loro eterna presenza, è sparito il mio unico ora, l’enigma specifico di ciò che s’è dissolto in esso. Posso anche moltiplicargli attorno le singolarità, ma mentre cerco di particolareggiarlo con tratti universali e di sorprenderlo nell’attimo in cui sparisce con una comprensione che lo renda eterno, ottengo solo il risultato di alterarlo ancora di piú. Siamo dunque caduti nella slealtà di chissà quale trappola; e proprio partendo da questo punto, con profondo impegno, Yves Bonnefoy va a cercare, per se stesso e per noi, la via del ritorno, nelle immagini e nell’appello che egli vi sa intendere, cercando di recuperare l’atto della presenza, il luogo autentico dove si raccoglie in una unità indivisa ciò che «è»: la foglia d’edera spezzata, questa pietra nuda, un passo sperduto nella notte.

È giunto il momento di fermarsi, non per criticare questa strada, [..] ma per considerare meglio ciò che è in gioco in un simile movimento. .. la forza del concetto non sta nel rifiutare, ma al contrario nell’avere introdotto nel pensiero la negazione che è propria della morte, perché in essa sparisca ogni forma stereotipata del pensiero ed il pensiero stesso diventi sempre altro da se medesimo. E il linguaggio è di natura divina non perché nominando renda eterno, ma perché, come scrive Hegel, «rovescia immediatamente ciò che nomina per trasformarlo in qualcosa d’altro»; beninteso non dice ciò che non è, ma parla appunto in nome di questo nulla che dissolve ogni cosa, è il parlante divenire della morte stessa, e tuttavia interiorizza questa morte, forse purificandola, per ridurla al duro lavoro del negativo grazie al quale, in una lotta incessante, il senso viene verso di noi e noi andiamo verso di esso.
Non voglio tradire l’autore dell’Improbable (Yves Bonnefoy) situando la sua sfida esattamente in questo punto. Infatti lo spirito ed il linguaggio, con una stupefacente vocazione, sono riusciti a trasformare questa morte in un potere, ma a qual prezzo? Idealizzandola. E adesso che cosa è in realtà? Non piú la dissoluzione immediata in cui tutto sparisce senza pensiero, ma la morte famosa che è il cominciamento della vita dello spirito. E come non essere indotti ad affermare che in questo idealizzare, che è anche uno snaturare, è andata perduta l’oscurità stessa e la nera realtà dell’evento indescrivibile, distorta grazie ad uno sbalorditivo sotterfugio fino a farne un modo di vivere ed un potere di pensare? Ci ritroviamo dunque di fronte a quello che dovremo chiamare il «gran rifiuto», rifiuto di fermarsi sull’enigma che è l’estraneità della fine singolare. [..]

Quale è la vera morte? [..] La morte compresa, sottratta a se stessa, trasformatasi nella pura essenza privativa, nella negazione pura; morte che, rappresentando un appropriato rifiuto di se stessa, si afferma come potere di essere, come ciò che determina tutte le cose e le fa dispiegarsi in possibilità. Forse si tratta proprio della vera morte, della morte trasformatasi nell’impulso della verità, ma come non sentire che in questa morte vera è ormai sparita la morte senza verità, quella parte di essa che è irriducibile al vero come ad ogni rivelazione, quella parte che non si rivela né si nasconde né appare? Naturalmente nel parlare io riconosco che la parola esiste unicamente in quanto ciò che «è» scompare in ciò che lo nomina, fulminato dalla morte per trasformarsi nella realtà del nome: la parola piú comune e, ad un livello piú alto, quella del concetto, è appunto, ed in modo mirabile, la vita di questa morte. E tuttavia resta il fatto – saremmo ciechi a dimenticarlo e vili ad accettarlo – resta il fatto che ciò che «è», appunto, è sparito: c’era qualcosa che non c’è piú. Come ritrovarlo, come cogliere di nuovo nella mia parola questa presenza anteriore che sono costretto ad escludere per parlare, per parlarla? Evocheremo a questo punto l’eterno tormento del nostro linguaggio, i momenti in cui la nostalgia si rivolge verso lo scopo mancato tutte le volte, perché non può dirlo se non essendone la mancanza.


“”

Ma che cosa manca? Ora che abbiamo circoscritto e quasi braccato questa strana preda che diventa un’ombra ogni volta che l’afferriamo, soffermandoci con Yves Bonnefoy sul vuoto – che forse è tale proprio per troppa pienezza – non solo della tomba piú antica, ma di ogni cosa sensibile nella sua fresca novità: forse finalmente, dopo aver sacrificato senza rimpianti ciò che si ritrova solo nel rifiuto, ci sarà possibile sorprendere e magari illuminare la posta in gioco in questa battaglia che non è piú una Crociata o una Disputa attorno al Sepolcro vuoto, ma la «battaglia delle origini». Sarà possibile con una parola, a condizione di domandarla a colui che, nelle parole e anche nella vita, ha fatto di questo sacrificio la lacerazione della scoperta, colui (Hölderlin) che una volta ha affermato:

Ma ora sorge il giorno! Aspettavo, e l’ho visto venire,
E ciò che ho visto, il Sacro sia la mia parola.

Das Heilige, il Sacro, parola augusta, lampeggiante e come interdetta, che forse in virtú di una troppo antica riverenza serve solo a mascherare il fatto di non poter dire nulla. Ma basta avvicinarla a ciò che Yves Bonnefoy indica, spesso direttamente, e ci troveremo al cospetto di un sapere tanto semplice che ne saremo solo disincantati; anche noi a nostra volta diremo e ricuseremo di dire che: il Sacro è la presenza «immediata», è il corpo che passa e che Baudelaire segue e quasi afferra fin dentro la morte, è la «vita semplice a fior di terra» annunciata da René Char; il Sacro insomma non è altro che la realtà della presenza sensibile. Un sapere indubbiamente facile, tranquillo, accessibile  – ma d’altra parte un «sapere amaro», perché, senza rinunciare alla nostra affermazione, dobbiamo subito capovolgerla e restituirle la sua forza di enigma dicendo: la presenza è il Sacro –quello «che non offre punti di appoggio o di sosta, il terrore dell’immediato che rende vana ogni presa, la scossa del caos» [..]
Adesso forse bisogna tornare sulle parole di Hölderlin. Non offrono risposte, eppure troviamo riunito nel loro sobrio e semplice rigore tutto ciò che poco fa costituiva un problema. Prima di tutto quell’adessodi cui Bonnefoy fa la posta in gioco della poesia e che, con l’impazienza della prima luce, irrompe già in apertura di verso: Ora sorge il giorno. Poi, subito dopo l’esplosione di quel presente in cui il giorno sorge, lo perdiamo ricadendo nel passato, e ci tocca rivivere l’infinito dell’attesa, tempo di angoscia e di privazione solitaria: Aspettavo. Attesa senza fine, esistenza ridotta alla sterile attesa senza presente, e nello stesso tempo attesa arricchita e colma del presentimento in cui si prepara la venuta e la visione di ciò che sempre viene: Aspettavo e vidi venire. Che si vede? La venuta. Ma che cosa viene? Questo rimane indeterminato, o meglio è detto al neutro, anche se in questo indeterminato e in questo neutro è sicuramente compreso l’approccio dell’« ora» in cui il giorno sorge, «ora» che, non potendo esser visto direttamente, è visto solo come venuta, in quanto è la fonte di tutto ciò che può venire.

Ma ora sorge il giorno! Aspettavo e l’ho visto venire,

Come in questo primo verso si riscontra un’alternanza e un’opposizione di tempi che rimandano dallo splendido presente al dolore dell’attesa senza presente, cosí nel secondo verso si passa di nuovo da un tempo rammemorato ad un presente, ma un presente di un altro tipo; in quella sfumatura mi pare che si giochi tutto il nostro destino poetico:

E ciò che ho visto, il Sacro sia la mia parola.

Mi limiterò a due osservazioni. Prima incertezza: ciò che ho visto. Si afferma che qualcosa è accaduto, che la visione ha avuto luogo: qual è l’oggetto di questa visione? Si potrebbe pensare: il Sacro. [..] al momento di infrangere il sigillo e di rivelare finalmente ciò che un tempo siamo stati destinati a vedere attraverso il poeta, il verso si interrompe, tacendo per un istante prima di prendere lo slancio per dar forma, con forza pressante, ad un nuovo presente; ma che presente? Quello del desiderio (in cui dunque si presenta l’assenza) e che è il desiderio poetico per eccellenza: il Sacro sia la mia parola. Che il Sacro sia la mia parola: in questa sorta di preghiera esclamativa e di appello augurale è contenuto tutto ciò che ci si rivela del rapporto intercorrente tra il poeta, la parola e il Sacro. Hölderlin non dice di aver visto il Sacro – come potrebbe? – solo può, avendo visto, affidarsi in uno slancio invocante ed evocante all’avvenire del voto fondamentale: il Sacro sia la mia parola. Da una parte la richiesta è estremamente ambiziosa: non si tratta solo di parlare del Sacro, intorno al Sacro, ma il Sacro deve essere la mia parola, anzi la mia stessa parola: richiesta che a rigore bisogna definire insensata. D’altra parte l’ambizione appare contenuta al massimo: infatti tutto si riduce all’esigenza di un desiderio, tanto che in definitiva «quello che ho visto» non è forse nient’altro che il presente di questo desiderio, la risoluzione provocatoria che raccoglie insieme, in possessiva intimità e in un contatto già sacrilego, la parola e il Sacro nello spazio dell’estremo desiderio.

Scioglimento che ancora una volta saremmo tentati di giudicare deludente, visto che, proprio nel momento in cui ci si dichiara il presente sacro nella sua immediatezza, non abbiamo con esso che un rapporto di desiderio, e nel nome stesso con cui lo istituiamo, non possiamo ancora raggiungere che il nostro desiderio di nominarlo. È poco, il desiderio. Non è forse un movimento del tutto soggettivo? Forse invece è molto di piú, e lo si intuisce quando René Char, sull’abbrivo del verso di Hölderlin, scrive: Il poema è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio. [..] Ma nel testo da noi commentato il desiderio si chiama anche speranza. «Vorrei riunire e quasi identificare la poesia e la speranza». Che vuol dire questa speranza? Qual è il suo rapporto con la poesia, il suo atto, il suo luogo?

La speranza non è una speranza qualsiasi. Come ci sono due poesie «ed una è chimerica, menzognera e fatale» cosí «ci sono due speranze». La speranza poetica è da reinventare, in altre parole spetta alla poesia «fondare una nuova speranza». Pur identificandosi quasi con la poesia – tanto che la realtà della poesia può essere quella di una speranza – la speranza, in quanto viene dopo, viene come un dono che essa ci abbia fatto. La poesia può essere il mezzo di questa nuova speranza. Donde l’affermazione secondo cui la poesia è un mezzo e non un fine.
Occorre reinventare la speranza. Forse nel senso che l’invenzione debba fornirci le cose da sperare, ad esempio un bell’avvenire utopistico, oppure la magnificenza immaginaria che costituiva, a quanto si dice, l’orizzonte di certi romanzieri? Niente affatto. La peggior forma di speranza è quella che passa per l’ideale – il cielo dell’idea, la bellezza dei nomi, l’astratta salvezza del concetto. La speranza è vera speranza in quanto, nell’avvenire di una promessa, aspira a darci ciò che è. Ciò che è, è la presenza. Ma la speranza è soltanto speranza. Essa è veramente tale quando, escludendo ogni forma di possesso attuale ed immediato, si riferisce a ciò che è sempre a venire e che forse non verrà mai, dicendo la venuta sperata di ciò che esiste solo in quanto speranza. [..] La speranza dice la possibilità di ciò che sfugge al possibile; al limite è il rapporto recuperato là dove si è perduto ogni rapporto. La speranza è tanto piú profonda quanto piú, ritraendosi, si spoglia di ogni speranza esplicita. [..] Non sperando il probabile, che non costituisce la misura di ciò che c’è da sperare, né la finzione dell’irreale, la vera speranza – l’insperato di ogni speranza – è affermazione dell’improbabile e attesa di ciò che è.

Nella prima pagina del suo libro, una delle piú belle, Yves Bonnefoy scrive: «Dedico questo libro all’improbabile, ossia a ciò che è. Ad uno spirito vigilante. Alle teologie negative. Ad una poesia desiderata, di piogge, d’attesa e di vento. Ad un grandioso realismo che aggravi invece di risolvere, che indichi l’oscuro, per cui le certezze siano nubi che è sempre possibile lacerare. Che abbia l’ansia di un’alta ed impraticabile certezza». Perché l’improbabile? E come ciò che è può essere improbabile? L’improbabile sfugge alla prova, non già per temporaneo difetto di dimostrazione, ma in quanto non nasce mai nella sfera in cui occorrono prove. L’improbabile è ciò che non sorge dalla approvazione di una prova, ma altrimenti. Non consiste semplicemente in ciò che, circoscritto nell’orizzonte della probabilità e dei suoi calcoli, è definito da una probabilità piú o meno forte. L’improbabile non è poco probabile: è infinitamente di piú della cosa piú probabile: «ossia ciò che è». Eppure ciò che è resta l’improbabile. Che cosa cerca di dirci questa parola? Vorrei chiarirlo traducendo cosí: se tra la possibilità e l’impossibilità esistesse un punto di incontro, quel punto sarebbe l’improbabile. Ma che indicano questi due nuovi nomi?

[…] La possibilità non è semplicemente il possibile che si dovrebbe considerare meno che reale. In questo nuovo senso la possibilità è qualcosa di piú della realtà: è l’essere piú il potere dell’essere. La possibilità stabilisce la realtà e ne è il fondamento: si è ciò che si è solo se si ha il potere di esserlo. A questo punto ci è chiaro che l’uomo non si limita a disporre di alcune possibilità, ma è la sua stessa possibilità; non siamo mai in modo puro e semplice, ma solo partendo dalle nostre possibilità e in riferimento ad esse: è una delle nostre dimensioni essenziali. Dunque (semplificando molto) la parola possibile si chiarisce quando viene messa in rapporto con la parola potere e poi con potenza. In quale misura la potenza è un’alterazione, una definizione della possibilità? Si può dire se non altro che con essa comincia la potenza, si determina l’appropriazione che si risolve in possesso. Anche la morte è potere: non un semplice evento che stia per accadermi, un fatto oggettivo e constatabile; con essa finirà il mio potere d’essere, non potrò piú esserci; tuttavia, in quanto mi appartiene e appartiene solo a me (nessuno infatti può morire in vece mia la mia morte, quest’avvenire imminente di me stesso, questo rapporto con me sempre aperto fino alla fine), la morte trasforma anche questa non possibilità in un potere. Posso ancora, morendo, morire, questo è il nostro segno di uomini. Mi approprio della morte come potere, in quanto sono ancora in rapporto con essa; è questo il punto estremo della mia solitaria risoluzione. E abbiamo visto che la morte recuperata come potere e cominciamento dello spirito è al centro dell’universo dove la verità è l’opera della verità. In questa prospettiva i nostri rapporti nel mondo e col mondo sono in definitiva tutti rapporti di potenza, dove la potenza è in germe nella possibilità. Limitiamoci agli aspetti piú evidenti del nostro linguaggio. Nel parlare esercito sempre un rapporto di potenza, che ne sia o no cosciente; appartengo ad una rete di poteri di cui mi servo, lottando contro la potenza che si afferma contro di me. Ogni parola è violenza, una violenza tanto piú temibile quanto piú è segreta, è il centro segreto della violenza, violenza che si esercita già su ciò che la parola nomina e può nominare solo privandolo della presenza – e ciò, come si è visto, significa che quando parlo parla la morte (questa morte che è potere). D’altra parte si sa che quando si discute non si viene alle mani. Il linguaggio è l’atto con cui la violenza accetta di non essere palese ma segreta, e rinuncia a prodigarsi in una azione brutale per risparmiarsi in vista di una forma superiore di dominio; da quel momento in poi, senza piú affermarsi, è al centro di ogni affermazione. Cosí nasce lo straordinario destino del discorso, in cui la violenza segreta, disarmando la violenza aperta, finisce col diventare la speranza e la garanzia di un mondo liberato dalla violenza (e tuttavia costituito da essa). [..]

da La Conversazione infinita: Scritti sull’ “Insensato gioco di scrivere” –
Maurice Blanchot

C’est en ces termes que se proposerait aujourd’hui la tentation de l’abîme; une pure gratuité sans justification. La condition d’authenticité de «l’expérience intérieure », c’est justement qu’elle ne mène nulle part, qu’elle ne débouche sur aucun salut9. Cet acharnement à rendre un témoignage négatif, explosé, de l’infini absent,
Betty Rojtman

“.. la neve sotto i piedi, girando a vortice. Sempre lo stesso freddo, ma tanta bellezza. .. Forse è qui che sognavo di soggiornare. Ma ho così poco tempo per vedere. Quanto scorre veloce la mia vita. Non posso attardarmi. Peccato. Ma dov’è la gente? Almeno un viso! “ – dal film Elegia di un viaggio di Sokurov

” Non volevo trovarmi in quelle strade. Pare non mi siano state destinate altre vie. Ma cosa dovevo fare? Se la gente vive così, se non vede null’altro e non segue che queste vie, dove arriverà, cosa si aspetta? Cerco di trovare il mio posto in questo fiume. Cerco di trovare perchè..”

“””Elegia del viaggio” di Aleksandr Sokurov – film completo sottotitolato in italiano

“.. Non sono io ad aver dipinto questo quadro? Non sono io ad aver visto tutto ciò davanti a me? Ogni albero, ogni ombra.. Mi ricordo bene di questo cielo. Molto bene. Perchè ho a lungo atteso il momento in cui le nuvole avrebbero cominciato ad allontanarsi e avrei visto l’altra faccia, avrei letto ciò che vi era scritto.. Se la fede esiste, il cielo è vivente. In basso tutto è morto? In alto tutto è vivo.”

“”

* la fotografia in copertina
e la prima del post sono di
Cara Phillips