“ poi-e-sìa “ – Attila József, e Bela Tarr

*

Senza bussare

Se mi affeziono a te, puoi entrare da me senza bussare,
ma ripensaci bene:
ti faccio dormire sul pagliericcio, polvere è il sospiro della paglia frusciante.

Ti porto acqua fresca nella brocca,
prima che tu te ne vada ti spolvero le scarpe:
qui non ci disturba nessuno;
puoi curvarti a rattoppare in pace i nostri vestiti.

Profondo è il mio silenzio; e parlo anche a te:
se sei stanco, ti porgo la mia unica sedia,
se fa caldo, puoi levarti cravatta e colletto,
se hai fame, ecco un foglio di carta pulito per piatto,
perché ci sia dell’altro, qualche cosa:
e allora, lascia anche per me un avanzo,
perché anch’io ho sempre fame.

Se mi affeziono a te, puoi entrare da me senza bussare,
ma ripensaci bene,
mi sarebbe dolore se poi tu a lungo mi evitassi.

*

Attesa

Sempre ti attendo. L’erba è rugiadosa.
Anche gli alberi grandi dalle chiome
piene di orgoglio aspettano. Io sono
rigido e vacillante a volte. È tetra
la notte per chi è solo.
Se tu venissi, si farebbe il prato
liscio: e silenzio, gran silenzio.
Ma udiremmo una musica notturna
misteriosa; sulle nostre labbra
canterebbero i cuori e lentamente
ci fonderemmo, offerti al rosso ardore
d’un profumato altare,
nell’infinito.

*

Dormi bene

È una bella serata. Dormi bene.
Stan per andare a letto i miei vicini,
già si sono avviati
anche gli scalpellini. Risuonava
lontana, chiara la pietra,
e il martello e la strada.
Ora è sceso il silenzio.
Fu molto tempo fa,
quando ti ho vista.
Le tue braccia operose sono fresche
come questa fiumana di silenzio.
Non mormora, ma scorre lentamente;
così adagio che accanto ad essa gli alberi
i pesci e anche le stelle
si addormentano.
Io resto tutto solo.

Sì, sono stanco, ho lavorato molto;
dormirò anche io alla fine.
Dormi serena.
Certo, anche tu sei triste.
Per questo io sono triste.

C’è silenzio.
Ora i fiori perdonano.

*

Dimmi, che cosa matura la sorte

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo cui non resta un manico di zappa;
che sui baffi non ha una briciola di pane,
che sfaccenda tra oscuri pensieri;
che vorrebbe piantare patate a terzeria,
ma non c’è terra libera nemmeno per una zappata;
e i capelli gli cadono a ciocche,
e ormai nemmeno lui se ne accorge?

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo che produce su cinque iugeri di terra;
e ha galline malaticce che si lagnano sullo stollo
e una fossa per nido ai suoi pensieri;
cui non strepita un carro,
non muggiscono buoi;
e la pentola evapora dal fondo
quando dà alla sua piccola famiglia da mangiare?

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo che vive e lavora da solo;
e mangia zuppe insipide di pepe e di sale,
e non gli fa più credito il droghiere;
che accende il fuoco con la sedia rotta
e ha solo una stufa screpolata dove siede il gatto;
e un ritmo oscilla alla chiave della sua porta,
e guarda e guarda e va a letto solo?

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo che lavora per la propria famiglia;
e litigano di chi sarà il torsolo,
e al cinema va solo la ragazza più grande;
la moglie lava sempre – l’umidità l’uccide –
sa solo di verdura la sua bocca
e, se l’austerità spegne presto la lampada,
presta orecchio al silenzio, fruga il buio?

Dimmi, che cosa matura la sorte
al disoccupato che vagabonda attorno alla fabbrica;
al cui posto una donna afferra al volo i bossoli
e lavorano bambini dal viso sbiadito;
che inutilmente scruta traverso lo steccato,
e inutilmente i cesti trascina,
e la sporta – e se si addormenta lo svegliano
e lo ammanettano se ruba?

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo che misura il sale, le patate e il pane
a occhio sulla carta di giornale,
e poi non pulisce la bilancia;
che a luce bassa, borbottando, fa ordine
– è pesante la tassa, alto l’affitto –
e non guadagna niente – inutilmente
fa pagare di più per il petrolio?

Dimmi, che cosa matura la sorte
all’uomo che è poeta, e ha paura, e canta così;
e che cerca un lavoro di copista
mentre la moglie lava i pavimenti;
e il cui nome, se l’ha, è solo la marca di una merce,
come di qualsiasi polvere per lavare,
e la cui vita, se ancora ne ha una,
appartiene alla prosperità proletaria?

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Metti la mano

Metti la mano
sulla mia fronte
come se fosse
mia la tua mano.

Fammi la guardia
come chi uccide,
come se fosse
tua la mia vita,

Amami, come
se fosse bene,
come il mio cuore
fosse il tuo cuore.

*

Da tanto tempo

Da tanto tempo l’ho scoperto:
come la rana sono anfibio.
Ora mi acquatto sul fondo di cieli
che crepitano, ed è questa poesia
la bolla d’aria dell’anima mia,

Non ho padroni malvagi,
non ho servi che attendano i miei ordini;
come Dio e come i pesci
vivo nel cielo e nel mare.

Il mio mare! Un oscuro mondo, un tiepido
mondo di braccia amorose. Il mio cielo
è la chiarezza dell’umanità
colta colla ragione.

da La grande triade della poesia ungherese
e
Con cuore puro –
Attila József