L’amore assoluto – Alfred Jarry e Victor Brauner

Victor Brauner

Sia fatta la tenebra!

Egli abita uno dei bracci della stella di pietra. La prigione della SANTÉ.
Siccome è condannato a morte, il braccio dove si catalogano i condannati a morte.
L’asteria pietrificata, specchio delle stelle, per schiudersi non ha aspettato che l’ora delle stelle.
Il sole è tramontato regolamentarmente, il pescatore, su ordine della guardia, ritrae i tentacoli; il ciclista e il vetturino di carrozza diventano femminili lampiridi innamorate; l’elettricista dell’asse della stella realizza il gesto del magnetizzatore che, con l’indice tra i sopraccigli, revoca dall’imitazione della morte.
La SANTÉ è simile ad Argo che aveva cento occhi.
Egli abita una piccola stella di uno dei bracci della stella di pietra; l’uomo è uno dei fiori-ventose del braccio dell’asteria. L’ultima vertebra cervicale schiusa − direbbe Haeckel − schiusa per uno degli ultimi giorni, ripete, come è abitudine di ogni fiore, il gesto del girasole.
Verso la lampada.
La cella è assai moderna e arredata con gusto inglese: mobili sobri laccati di bianco, pareti tenere.
Nessun ornamento alle pareti, ma al soffitto è stato appeso il sole.
Sole o luna, un astro: sorge e si spegne a certe ore.
Nessuna osservazione vi scopre un movimento proprio.
È una stella fissa.
È più nobile degli astri del mondo: sta al posto del cielo, di una corona o della mannaia, ultima imposizione del diadema. Si chiama zenit.
Non è nata da una nebulosa.
L’uomo è l’olio di questa lampada.
Se non ci fosse un condannato a morte nel settore dei condannati a morte, ci sarebbe una stella in meno nel cielo di pietra della SANTÉ.
Mosè dichiarava solido il firmamento.
L’uomo che si trova sotto questa stella è, chiunque sia e quali che siano le sue circostanze, un uomo ragguardevole.
Egli ha fatto una stella.
Non è un astronomo: gli astronomi, più tardi, le scoprono.
Un astrologo, piuttosto: questa stella s’illumina a causa del suo avvenire.
È un uomo del tipo di Dio.
Per questa ragione o per un’altra, la migliore essendo che è il suo vero nome, sulla porta sta scritto:
– EMMANUELE DIO
Dio è un po’ abbagliato dal suo astro.
Al Museo della Marina, al Louvre, ci si può rinchiudere in una sala con il fanale girevole di un faro decapitato.
La grande mosca di fuoco o la folgore lanternaia urta a intervalli ostinati contro la vostra cornea trasparente.
Voi battete le palpebre rispondendo al battito di quell’enorme palpebra.
Fortunatamente è troppo intermittente per essere l’occhio di un magnetizzatore, e di una luce troppo brutale per uno specchietto per le allodole.
Dio è un po’ abbagliato dal suo astro perché vorrebbe dormire.
E spegne i due fanali capovolti nel mare dei suoi occhi.
Così il biscione nasconde il suo carbonchio, unico occhio e tesoro del serpente ciclope, per andare a dissetarsi alla fonte.
Emmanuele Dio si serve del sonno, vecchio Lete, come di eternità provvisoria.
L’Eternità è troppo inestesa per stare nella prigione, anche se erompe in stella.
Ecco perché, in certe albe, la si prega di aspettare nel cortile.
Verso di lei, l’Imbarcadero, come le fortificazioni di un estuario, protende, frangiflutti acuti, i piloni dei suoi ponti incontro alla città.
Orfeo si alza da un tappeto di pellicce, la città fa le fusa al piede della lampada, la stella creata dal Dio terrestre sotto al firmamento si protende, penisola della terra nelle acque del di sopra, come l’occhio di una lumaca, verso le stelle firmamentarie.
Stelle militanti verso le trionfanti, la testa tutt’occhio dei lampadari implora che la si liberi del collo ombelicale.
Chissà se le comete, seguite da uno spruzzo di rottura, non siano la polluzione liberatoria delle lampade?
Le comete anuri, per tanti, sono gli angeli.
Emmanuele Dio aspetta l’ora siderale in cui la sua testa se ne andrà.
… Se non ha ucciso, però, o se non si è capito che uccideva, ha come prigione soltanto la scatola del suo cranio, ed è soltanto un uomo che sogna seduto accanto alla sua lampada. [..]

Autrou Doue

Siccome lo trovarono nel doué, specie di lavatoio nel paese gallico, da quello gli fabbricarono un cognome.
E siccome l’avevano patronimicato secondo l’acqua del suo battesimo, lo battezzarono, in lingua più antica, secondo il giorno del suo ritrovamento, che era Natale.
Nédélec (Natale, Emmanuele) Doue.
Loro, il notaio e sua moglie.
Giuseppe il notaio e Maria sua moglie.
Joseb e Varia [Varia è il nome di Maria in lingua bretone, ma designa anche “la donna” come “colei che varia” o “colei che mente] secondo il dialetto del luogo, Lampaul in Bretagna.
Il notaio si chiama Giuseppe perché sua moglie ha nome Maria? o lei Maria perché ha sposato il notaio Joseb?
Questo non ha alcuna importanza.
Non possono chiamarsi altrimenti.
Si chiamavano così dall’eternità, poiché in veste di padrino e madrina dichiarano il bambino che hanno appena adottato Nédélec Doue.
I ragazzi di Lampaul, davanti all’atrio del battesimo, per rispetto verso quell’uomo ricco e cittadino, il notaio, che crea un Signore con una firma, come il popolo fa bambini, ma in modo diverso; e che semina confetti, che è quanto di più chiaro essi vedono nella generazione, già si indicano il Figlio secondo l’Anagrafe:
Aotrou Doue.
È la prima invocazione di ogni litania.
I ragazzi di Lampaul non la sanno così lunga. Dicono, senz’altro:
− SIGNOR DIO.
E la litania continua, profetessa, nelle mani giunte del libro chiuso dove sta scritta:
− Abbiate pietà di noi! Aotrou Doue, o pet truez ouzomp! (“Signore Iddio, abbiate pietà di noi”) [..]

Sigillato su semplice coda di cera gialla

E la sera, cullando il notaio le proprie ore digestive, com’era solito fare nel suo studio appartato, fino all’alba, provvisto di una fiaschetta di biondo alcool, al gorgheggio della sega fra gli arabeschi del bosco di mogano che quello assassina e risuscita, Emmanuele e Varia, senza una parola di transizione né di spiegazione, si rividero.
Se le loro bocche si aggrapparono, come un insetto al proprio simile dall’altra parte di uno specchio, fu per trattenere − verso altrove − la caduta dei corpi in deliquio.
E se le loro braccia li circondarono del periplo delle carezze, fu per stringere l’inverosimiglianza delle loro presenze riunite fino alla condensazione, che non sfugge, del reale.
Verso ciò che non avevano osato, suggerito dal fruscìo del mare tra le due valve del loro letto calcareo, seguirono il capriccio complice delle volute dell’Uccello, dal becco aculeato, del notaio. Sono due agili e freddolose bestie bianche, poiché non vi è niente di più bianco del pelo più invernale degli animali inspogliabili se non la pelle umana, intrecciate insieme nella tana del pizzo d’erica rosa.
Il manto di Varia li avviluppa.
Il che vuol dire che non la veste più, lei.
E che Emmanuele avrebbe freddo, adesso, senza coperta.
Le teste degli ermellini dal muso paglierino d’erica spiano tra i ciuffi, acuti, come zanne.
La prudenza della bestiola sconfiggerebbe perfino l’ira di Joseb, come l’impudicizia di un ragazzino fa voltare i passanti dall’altra parte.
Ve ne sono, a dire il vero, che si voltano a guardare.
Varia è bianca della bianchezza di fuoco delle fanciulle che sono lo sbocciare del Gulf Stream.
I fiori bevono, all’innaffiatoio delle onde calde, l’illusione dei tropici.
Varia è bianca come tutte le pietre colorate che sono pallide.
Topazio bianco, rubino balascio, perla morta, in un’unica polvere.
Frutti del giardino di Aladino che non fossero maturi.
Se sembrano verdi, è perché il cielo è cupo di scarlatto.
La capigliatura è nera fino al viola vescovo.
Ci sono vescovi marini, che lasciano fonde e le loro ametiste nel bacio che cresima le onde.
La pelle sarebbe bruna, nonostante il contrasto, senza la rigorosa assenza di peluria, come i ciottoli lavati e i torsi levigati delle sirene.
Quando abbraccia Emmanuele, alle sue ascelle palpitano piccolissime ciglia, che sembrano provare nell’aria il loro pennello di seppia.
Altrove, ci sono le squame delle bestie marine. Perle morte…
Il Signor Dio rinnova la collana.
Emmanuele ha varcato l’invetriata − con un colpo di testa, un clown in scafandro − dell’acquario della stazione Saint-Lazare.
Il liceale delle visite durante le vacanze è cresciuto, dai tempi del Condorcet.
Ha la statura di Varia, che fa pensare a una bestia agile soprattutto perché è alta.
Lo sembra meno, tuttavia, se non è accanto al notaio nanerottolo.
Quando le loro bocche si sono morse, ed essi si separano momentaneamente per controllare nei loro occhi la loro beatitudine, i seni dell’una sono il calco dei seni dell’altro.
Sono due triangoli esattamente sovrapponibili.
Poiché il Signor Dio ha diritto ereditario al suggello della Trinità.
Si discostano come un libro si apre.
Come i biancchi favoriti del notaio, ma lui non li avvicina.
Si contemplano.
Le dita di Varia si muovono a tentoni dentro le spalle di Emanuele.
Si sforza di decifrare dove si articolino le ali dell’Amore.
Il loro volo è forse così rapido – come delle macroglosse fusiformes e stellatarum, appuntate alle vetrine delle camere, che se ne percepisce soltanto una leggera nebbia.
Ma improvvisamente qualcosa di nero – la banalità o la fatalità del disco d’ombra duopo avere fissato il sole – come da un’ampolla bicipite da cui si versi, cade dalle pupille di Varia.
La feccia dell’Amore, che è la Paura.
Varia trema come sotto una neve, in una notte da neve nera.
– Andatevene! Ve ne supplico! Lasciatemi addormentare sola!
Che cosa vi ho fatto? –
Altrettanto dice un altro Libro quando lo si apre:
Aotrou Doue, o …
Avere pietà, per Dio, sarebbe abdicare alla propria divinità.
Ma si ha una gran paura quando lui c’è.
Dalla Paura si genera, movimento istintivo di difesa, l’avversario più temibile per il Signor Dio.
Quel che può esservi per lui di più sgradevole.
La signora Joseb nel suo assoluto.
– Io sono a casa mia!
E balza verso una delle mura.
È sottinteso che oltre agli uccelli impagliati e ai quadri disseccati d’insetti – pigolii e ronzii vivono, laggiù, nel fogliame imperturbabile che lo Studio ritaglia -, dal notaio vi sono fitte panoplie d’armi esotiche.
Strappa il primo pugnale che trova.
Un khanjar la cui impugnatura non è a croce, ma come la forcella delle antenne di uno scarabeo clavicorno.
– Andatevene, o vi uccido!
Davanti alla bestia che, sotto la corperta dei corpi, depone la morte con la sua tenebra, Emmanuele rivive – in un batter d’occhi – le gioie infantili e divine dei mostri in piedi sul tavolo del notaio.
Egli si prepara ancora a scuotere il tavolo.
Con un piccolissimo soffio.
Con qualcosa che è meno di un soffio.
Con il vento delle ciglia.
Perché percepisce per la prima volta, con straordinaria timidezza, di che cosa ha paura Varia.
Si è cosa forti nudi, senza un gesto, davanti a un pugnale che si libra.
Perchè l’essere che brandisce l’arma si confessa in tal modo molto più debole di voi, se invoca la riscossa del ferro.
Essi sono inoffensivi, poichè sono due.
O si è ubriachi, e si sogna, poiché li si vede doppi. Emmanuele è fiducioso della fiducia formidabile cge si deve, o che egli deve avere, sotto la mannaia di una ghigliottina, nell’inverosimiglianza della sua caduta, anche quando l’istantaneo scatto inizia.
Poiché:
Questo non vi è ancoraa mai accaduto.
Ci sono cose che accadono una sola volta nella vita.
– Siamo proprio sicuri che la legge della caduta opererà ancora per la mannaia della ghigliottina? –
Nudo, con le braccia rigide, Emmanuele si crocifigge sul sudario preparato del letto, ma squinzaglia – oh, così dolcemente, i due Neri Muti del suo sguardo.
– Fa la nanna, bisbiglia.
Varia cade.
Cadendo, colpisce.
Ma il khanjar non obbedisce più all’ipnotico.
È come un cavallo senza briglia.
Non gli piace calpestare i corpi distesi.
Si conficca tra il braccio e il seno sinistro di Emmanuele, nel lenzuolo simile alla carta sugherosa delle vetrine degli altri scarabei, fino all’elsa.
Allora Emmanuele scivola dal letto, e in piedi, appoggiato al capezzale, guarda l’agonia su spillo.
Varia cerca a tentoni, con gesti da sonnambula, il posto.
Tira fuori e lascia cadere il pugnale.
Per sgomberare.
Cerca, così come cercava le ali dell’Amore.
Il posto è vuoto, come il seggio di uno spettro di teatro.
Il trono dove nessuna Persona si è seduta.
Nessuna Persona.
Una delle Persone.
In mezzo alle lenzuola del notaio, risuscitate di fresco da tutte le provinciali lavande dell’erbario degli armadi, il Signor Dio spiaccica il suo sigillo.
P.P.C. [*Per Prendere Congedo]
Il biglietto da visita, con un’orecchia.
La Trinità appone il suo Triangolo. [..]

La Madre di Dio

Taenia solum

Lo Spirito di Dio si muoveva sopra le acque…
Alla finestra della mansarda.
Tutta la notte, la voce degli usignuoli, eredi della trascurata sega del notaio, nei platani a quinconce di Lampaul, portò a spasso le sue carriole che reclamano olio.
Emmanuele Dio non udì altri rimorsi che quell’insopportabile stridore.
Si compiacque di riconoscere in esso l’avvicinarsi sobbalzante della Giustizia.
Ma non spetta a Dio (Emmanuele) di fare alla carriola della Giustizia l’elemosina di una goccia d’olio.
L’altro Dio vi gettò la lacrima gialla e dolce del sole.
Era il giorno dedicatorio.
Emmanuele Dio sapeva benissimo che con l’assassinio di Varia (assassinio più reale della radiazione dell’universo secondo la carne, l’espulsione fuori dell’Assoluto − con tutto il pugnale che è la spada di fuoco dell’Angelo che chiude i Paradisi…) non aveva ucciso Miriam!
AL CONTRARIO.
La vera Miriam era al di fuori di Varia.
Dalla finestra aperta al silenzio giallo, sopra i platani e l’anfiteatro delle case di Lampaul, egli contemplò, sulla collina al di sopra di tutto, la statua dell’Itro-Varia.
La Vergine ha i piedi sotto la veste.
Non si vede se calpesta il drago.
Ha per suola tre gradini e tutto un piedistallo di granito denso.
I piccoli sentieri vi si appiattiscono, serpeggiano intorno alla collina, vanno a bere al ruscello dei mulini.
Emmanuele Dio proprio non vide fin dove arrivavano, poiché si interrompevano davanti alla loro testa.
La ritenne, non senza verosimiglianza, schiacciata sotto il piedistallo.
Poiché da nessuna parte il sentiero si staccava, come il ricciolo dall’angolo di una pergamena, dal suolo.
Il suolo è intessuto di serpenti.
La processione, come tutte le domeniche a quella stessa ora, si snodò, mareggiare di minuziose effigi di navi, ora sui sentieri; ora strisciò sulle coperte di velluto dei prati, attorcigliandosi freddolosa alle sinuosità del terreno.
Anche il grande serpente di mare Leviatano venne a prosternare il cranio a triangolo sotto il piccolo tallone di Miriam, che sollevò senza sforzo lo stivaletto di granito.
E quando i canti sirenici si furono dispersi nel vento, al quale fremevano, retrocedendo nella direzione del sentiero, le piccole navi allo stesso ritmo della pinna dorsale del mostro, dei bambini accorsero per giocare con quello stesso vento. Il loro aquilone innalzò la sua croce, più in alto e più bianca di quella delle processioni (come le croci avvolte da sudari nelle chiese durante il Sepolcro), munita di una coda come un volo di allodole.
Melusina…
A una pioggia improvvisa, come di frequente capita a Lampaul − e bisognava pure che L’ALTRO Dio piangesse, poiché Emmanuele, quanto a lui, non ne aveva voglia, il vento cessò.
Il grande Pitone d’alba si tuffò sotto le nubi, e venne a nascondere la testa orecchiuta, così come le vipere si annodano le une alle altre per dormire, nel rifugio di tutti i serpenti.
Emmanuele discese sul tappeto di rettili e venne a pregare a fianco dell’aquilone, modificando, viste le circostanze, la conclusione del suo Ave:
− … Prega per noi…
Adesso, che è l’ora della nostra morte.

20 febbraio 1899

da L’Amore assoluto di Alfred Jarry

Filangieri e Tirone da Non Piangere o Madonna, un film di D. Ciprì e F. Maresco

* in copertina “Memorie del Surrealismo” di Salvador Dalí
** i dipinti sono di Victor Brauner