Tourbillon

La parola del bosco

Dal chiaro, o dal percorrere la serie di chiari che si vanno ora aprendo ora chiudendo, si riportano alcune parole insieme furtive e indelebili, inafferrabili, che possono per il momento riapparire come un nucleo che chiede di svilupparsi, anche se di poco; di completarsi anzi, è quanto sembrano chiedere e a cui portano.
Poche parole, un batter d’ali del senso, un balbettio anche, o una parola che resta sospesa come chiave da decifrare; una sola che era lì custodita e che si è data, essa sola, a chi distratto sopraggiunge. Una parola vera che proprio perché tale non può essere né interamente compresa né dimenticata.
Una parola fatta per essere consumata senza logorarsi. E che se parte verso l’alto non si perde di vista, e se fugge verso il confine dell’orizzonte non svanisce né fa naufragio. E che se discende fino a nascondersi dentro la terra continua a palpitarvi, come seme.
Posto che ferma, quieta, non resta, ché se restasse così resterebbe muta. Non è parola che si agiti in ciò che dice, dice col suo battito d’ali e tutto ciò che ha ala, ali, se ne va, quantunque non sempre, ché può tornare nello stesso modo o in un altro, senza smettere di essere la stessa.
Cosa che viene ad accadere secondo come si presenta la situazione di chi riceve secondo il suo bisogno e la sua possibilità di accudirla: se è in condizione di potere soltanto percepirla, o disposto a sostenerla, e se, meglio ancora, ha facoltà di accettarla pienamente, e di lasciarla così, dentro di sé, e che lì, a suo modo, il modo della parola, essa si vada facendo indefinitamente, attraversando durate senza numero, riparata nel silenzio, smorzata.
E da essa, dal suo silenzioso palpitare, esce la musica inaspettata, che ce la fa riconoscere; lamento a volte, chiamata, la musica iniziale dell’indicibile che non potrà mai, qui, essere data in parola, ma solo con essa. La musica iniziale che svanisce quando la parola appare o riappare, e che resta nell’aria, come il suo silenzio, modellando il suo silenzio, sostenendolo sopra un abisso.

da Chiari dal bosco
Maria Zambrano

*

Non c’è
nel bambino
parola.
Un silenzio
gli dà la mano.
La stringe.
La sboccia.

*

La bambina.
Ogni anno una nuova cicatrice.
Le parole
nel forno
diventavano piume.
Nel forno
entrava un destino
e usciva uno spartito
musicale.

La bambina è blu.
Come le ombre sulla neve.
Conserva le parole in un sacco
buio
apre le parole al vento.
Come una scolara, non vista,
in cortile
parla con l’aria.

[…] La bambina
non guarda.
Bendata.
Ride verso
la luna
sotto la benda
nera.

La bambina
costruisce
il pane.
Lo fa grande.
Come un duomo.
Da abitare.
Sss sss dormi
piccola bellezza
gli animali di zucchero
cullano il buio
finché diventa un nido.

*

C’era una nave
con un carico così leggero
che non poteva salpare.
Così leggero
che la nave
diventava invisibile.

*

La porta.
Certe volte.
Si ritrae.
Come fuoco
che va verso
la fine.
Poi.
La notte
divampa.
È porta assoluta.
Solo porta.
Tutto
il resto
divorato
dalla presenza
senza segni
senza senso
assoluta
della porta.

*

Allora
il respiro
è pronto
soccorso.
Aria di vette
che incede
nelle vene
come un minuscolo
gigante
sul ghiaccio.

*

La bambina
si aggrappa
scorre
sul respiro
come su un fiume
improvvisato
un guscio
di noce.
Blu.

*

In piccolo pigiama
con piedi di piume
la bambina
raccoglie i rumori
li mette
nel sacco.
La nave
li porta
fino alle cose.
A ogni cosa
il suo rumore.

Cammino con gli stivali di gomma
nel corridoio perché non ho paura
di nessuno Io, perché i calci
fioriscono le viole le viole
delle ossa le ossa nel giardino
dei morti i morti giocano
a pallone si feriscono le ossa
hanno voci di campana si
mettono in fila
rivestono le spalle
degli antichi panni
e danzano, vedi
che faccio bene
a mettere gli stivali
sulle gambe di Io
che presto danzerà
presto sarà anche lei
tra quelli che turbinano
contenti tra le viole
sulle ossa, tra le
betulle delle mani,
fiorite ferite.

Signora del Suono
concedimi un tempo inutile
per imbandire una tavola vuota e servire ai convitati
Questo silenzio, non un altro
attimo, ma la fragorosa apertura
proprio di Questo.

Poesie di Chandra Livia Candiani
tratte dalla raccolta Vista dalla luna

Il punto scuro e la croce

Quando si erge nei suoi assalti e precisamente nella calma, l’Io si fa sentire come un punto oscuro. E la calma si va mutando in semplice immobilità e il tempo si condensa, opprime il cuore. Tra il pensare e il sentire non si stabilisce alcuna comunicazione e i sensi–infallibili indicatori–si ritraggono. La percezione nitida nulla apporta, nulla rivela. Ma poi, in un attimo, il punto oscuro dell’Io si viene a trovare come centro di una croce; allora, senza il minimo sussulto, il cuore occupa il suo posto, si fa centro.
E l’essere si sente steso su una croce formata dal tempo e dall’eternità. E questo che si incrocia con l’eternità non è un semplice tempo successivo; si apre o è in procinto di aprirsi in molteplici dimensioni. Il cuore del tempo raccoglie il palpitare dell’eternità, l’aprirsi dell’eternità. E il tempo fluisce come fiume dell’eternità.
E se fosse sempre così, se l’essere umano si mantenesse sempre steso su questa croce, la sua sarebbe vera vita. Ma non può accadere così da sé. O meglio, al contrario, solo da sé potrebbe essere così sempre. Ma intanto, il cuore ancora oscuro, con la sua passività, un vaso col suo vuoto e nient’altro, dovrebbe essere il centro, senza sottomettersi all’Io che lo soppianta.

da Chiari dal bosco
Maria Zambrano

https://youtu.be/8lcaTvgLrAk

https://youtu.be/aD4yHxngh1s

https://youtu.be/8ZBG2jeD4b4

~~~~~

* in copertina Tourbillon n.3 –
Rene Duvillier