Dal mare – Marina Cvetaeva

Vengo con vento Nord-Sud
(lo so che non esiste,
ma se serve – esiste!),
con panni da viaggio,

– per-aere-vorticando,
scheggia a rotta di collo! –
Il sogno tre minuti
dura. Mi affretto.

Con chi tu sia a letto
– non bado! – Tre minuti.
Da Oceano – ben piu a lungo
viaggerei – fino a Mosca!

Tragitto – di fortuna,
veloce, saettante:
dal mio nel tuo sogno
salto precipitando.

Ti appaio in sogno. Nitida?
Levigata? Più netta
che da sotto le maglie
del timbro? Valgo –

la carta da lettera? Valgo –
il francobollo? Ti piaccio?
Io – non missiva,
parola d’onore!

Tempra da libera cesura.
Un solo balzo e sbarco!
Niente censura, e –
bollo – neanche!

Ognuno gabolando,
– stenografia del sogno! –
in luogo di missiva,
eccomi a te dal mare.

In luogo di dispaccio.
Il peso? Fa’ il piacere!
Che peserò tutta intera,
– compresa la lira,

col cuore di tutti i Cenci,
con l’aldilà, integrale.
Un sogno non assomma
neanche a un decagrammo.

Tre istanti a testa, per due –
fanno sei (mutuo è il sogno).
Se guardi, vedi a puntino:
non anonimo è il naso,

duro grafema antico
è la fronte, e le labbra
siglano la lettera regina:
la jat, senza resto.

Io – senza refusi,
Io – senza ritocchi.
Un pugno di rose alpestri
ti darei, e una bicocca

a picco sul mare,
con onde di bonaccia.
Dall’Oceano, ecco per te
una manciata di gioco.

Grado a grado prendi, come fu raccolto.
Il mare gioca. Chi gioca – è buono.
Il mare gioca, e io prendo,
Il mare lascia, e io ripongo

in scollo e guancia – salmastra, marina!
Palmi occupati: la bocca è tiretto.
Lode, risuona al flutto!
La Musa lascia, l’onda prende.

Coralli di granchi, leggi: gusci.
Gioca il mare, chi gioca – è grullo.
Chi pensa – ciocca ingrigita! –
è saggio. Giochiamo, allora,

a conchiglie. Ritmo: Un petit navire.
Una sembra un cuore, un’altra – una lira.

Del vaglio di tre dune frutto, questa:
chiave di violino dell’infanzia.

Vicino al gozzo ne ho fatto incetta.
Di nostalgia famelica briciolo:

una pietra – te risparmiando, –
meglio che onda sbranerò,

su erta deserta assatanata.
E questa? D’un certo amore relitto:

a riesumarlo non mi affanno:
poco incisivo fu il morso.

Per sempre escluso dal catalogo.
Questa – non già d’amore – torsolo:
di coscienza. Più che irrorarla
di lacrime – la mordo,

non mi rimorde punto. Questa
del nostro gioco solo moccolo

sarà domani. Non vederla.
Fa pena, sai. Spartiamocele.

Non è a piacimento: io, pesco.
(Sul nostro letto il tuo figlioletto
per terzo arriva – giocherà?)
Io per prima – prendo.

Solo sabbia tra le dita, che goccia.
Aspetta: di strofa un minuzzolo:
“della gloria sommerso tempio”.
Bene. Sarai tu a finirla.

Solo sabbia tra le dita, che scroscia.
Aspetta: di serpe a sonagli
muta: di gelosia! Orgoglio
scelgo per nome io, rinverdita.

E striscio via, nel mio pieno diritto.
Non Napostovcy siamo, a guardia
di granchi scartati. Non granchio:
della gloria murati segno.

Umile uzzolo:
pietruzza. Pomice.
Come critico porosa.
Come censore incolore,

sulla rivelazione.
– Ronfano, i censori! –
Del nostro poema
censore sarà l’aurora.

(Aurore – più perspicaci
di Fonte Castalia
alleate. A scialo di penne
– chiudendo un occhio…

“Verseggi, tesoro?
È un bel po’ di nero!”
Senza guardare:
Autorizzato!)

Mare smeriglio, mola di mare!
Mammuth, farfalla – tutto tritura.
Non spetta a noi, scoria di spoglie –
riguardo al mare – mulinare!

Mi sfogo solo – poi resto muta.
Mare! Bella Mugnaia, riva
su cui si arena ogni rigo
– noi pure verremmo molati!

Docenti! Sproloquianti!
Tettonica: secca di mare,
tutta. Venere al mondo (scopo –
moltiplicarsi!) vale arenarsi.

Secca propizia, con torba e nafta.
Vita che tira in secca –
l’immortalità. Orgoglio a vanvera!
Vita? D’acqua supraoceanica

penuria.
Fin d’ora mi scuso:
io di lordura t’ho inondato
d’oltremarine mirabilia
da alta marea depositate.

Solo lascia, non vuol essere presa.
Questo invece – lo porta il riflusso,
detrito in palmo, come un dono.
Le note a noi lasciate, due o tre

ciascuno, le riconosci quando
il dio che le recò – si ritrae,
si fugge… Orfeo, l’Arpista…
secca, fondale – spartito mostro!

– Solo un istante, per prepararsi!
Io di ciarpame t’ho inondato:
quanto la lingua ne mulina, .
di quanto ne trabocca il mare!

(o orlo di gonna di pescatrice).
Ma per finire t’ho riservato
un dono su cui istruire un regime:
dono che a Mosca il mare apparenta,

Sovietorussia a Oceano, – per mano
di chouan – al repubblicano
il Grande Oceano in persona
spedisce. Appuntare al berretto.

E ai muziki nei campi di spighe
di’ che la stella sul berretto
è piu bella di quella rossa –
non odio di classe – Stella Maris!

A capomastri e forestieri: se l’astro
di Betlemme non più è in vista,
e se divelta è la sesta punta,
siete votati – alla stella marina.

da Ubr-bogatyr, da bylina primeva.
(Mi effondo, ma fa altrettanto
il mare – coi suoi marini meandri).
Di’ allora a costoro, ai potenti,

– ne ignoro ranghi e nomi –
che la cosa a cinque punte
sulla chiglia della Russia
farà colare la nave a picco.

Nudi scogli, costole d’elefante…
Il mare è stanco, chi è stanco e buono.
Eternità, mulina il tuo remo!
Attiraci. Ci assopiremo.

Compatti, ma non stretti,
fuoco, ma senza fumo.
Non congiunto infatti
è il sogno, ma mutuo:

in Dio, l’uno nell’altro.
Naso, credevi? È crinale!
Sopracciglio? No, inarcata
via d’uscita da ogni –

visibilità.

da Sette Poemi
Marina Cvetaeva

* in copertina
Seven Seas –
Bill Culbert