DER ZOO, o lettere non d’amore, oppure La terza Eloisa – Victor Sklovskij

Non stupirti, Alja, tutti noi possiamo delirare. Tutti coloro che vivono seriamente.

Lettera Terza

È la seconda lettera di Alja, in cui chiede di non scriverle d’amore.
Una lettera stanca.

Mio caro, mio amato. Non sta bene. Sono molto stanca. Come hai detto tu, ho il garrese a pezzi. Io e te siamo separati dalla vita. Io non ti amo e non ti amerò. Ho paura del tuo amore, prima o poi tu mi insulterai per il fatto che adesso mi ami così. Non lamentarti così esageratamente, sei già caro per me. Mi conosci così bene, ma fai di tutto per terrorizzarmi, per allontanarmi da te.
Forse il tuo amore è grande, ma non è felice,
Tu mi sei necessario, riesci a farmi uscire da me stessa.
Non scrivermi solo del tuo amore. Non metter su scenate selvagge al telefono. Non ti inferocire.
Tu sai avvelenare i miei giorni. Io ho bisogno della libertà, che nessuno osi chiedermi niente.
Ma tu esigi da me tutto il mio tempo. Sii leggero, o affogherai nell’amore. Diventi ogni giorno più triste. Dovrai andare a curarti, mio caro.
Ti scrivo a letto, ieri sera sono andata a ballare.
Adesso farò un bagno. Forse oggi ci vedremo.

5 febbraio, Alja

Lettera Quarta

Sul freddo, sul tradimento di Pietro,
su Velemir Chlebnikov e la sua morte.
Sulla scritta sulla sua croce.
Poi dell’amore di Chlebnikov, della crudeltà
di chi non ama, dei chiodi, del calice e di tutta
la cultura umana, costruita sulla via dell’amore.

Non scriverò d’amore, scriverò solo del tempo. Il tempo è bello oggi a Berlino.
Cielo blu e sole più alto delle case. Il sole guarda dritto sulla pensione Marzahn, nella camera di Ajchenval’d.
Io vivo dall’altra parte della casa.
Per strada è bello e fa fresco.
Quest’anno a Berlino quasi non c’è stata neve.
Vado in giro con indosso un cappotto autunnale, ma se arrivasse il gelo questo stesso cappotto toccherebbe chiamarlo invernale.
Non mi piace il gelo e nemmeno il freddo.
Per via del freddo l’apostolo Pietro ha ripudiato Cristo. Era una notte fresca, lui si avvicinò a un falò e presso il falò c’era l’opinione comune, i servi chiesero a Pietro di Cristo e Pietro lo ripudiò.
Il gallo cantò.
In Palestina i freddi non sono rigidi. È sicuramente meno freddo che a Berlino. Se quella notte fosse stata calda Pietro sarebbe rimasto nel buio, il canto avrebbe cantato invano, come tutti i galli, e nel Vangelo non ci sarebbe stata ironia.
È un bene che Cristo non sia stato crocefisso in Russia, da noi il clima è continentale, con gelo e tormente; in folla sarebbero arrivati i discepoli di Cristo e agli incroci presso i falò avrebbero fatto la fila per rinnegarlo.
Perdonami, Velemir Chlebnikov, perché mi riscaldo al fuoco di redazioni straniere. Perché pubblico il mio, e non il tuo libro. Noi, maestro, abbiamo un clima continentale.
Le volpi hanno le loro tane, al carcerato danno una branda, il coltello riposa nella guaina, e tu non avevi dove appoggiare la testa.
Nell’utopia che hai scritto per l’almanacco futurista vzjal tra le tante fantasie ce n’è una: ogni uomo ha diritto a una stanza in qualunque città.
Certo, nell’utopia si dice che ogni uomo deve avere una stanza di vetro, ma credo che Velemir ne avrebbe accettata anche una semplice.
È morto Chlebnikov, e qualche uomo polveroso sulla rivista Literaturnye zapiski ha detto qualcosa con voce decrepita a proposito di un “fallito”.
Nel cimitero sulla croce tombale il pittore Mituricˇ ha scritto: «Velemir Chlebnikov–Presidente del globo terrestre».
Così si è trovato un posto per il pellegrino, non di vetro, certo.
È difficile, Velemir, che tu voglia resuscitare, per tornare a vagabondare.
E sopra un’altra croce era scritto: «Gesù Cristo, re giudeo».
È stato difficile per te andare per le steppe, fare il soldato, fare la guardia di notte ai magazzini, e ancora, semiprigioniero a Char’kov, partecipare a una rumorosa esibizione degli immaginisti.
Perdonaci per te e per gli altri, che uccideremo.
Perché ci riscaldiamo a fuochi stranieri.
Lo stato non risponde della morte degli uomini, ai tempi di Cristo non capiva l’aramaico e in generale non capisce mai la lingua umana.
I soldati romani che hanno inchiodato le mani di Cristo non sono più colpevoli dei chiodi.
Nondimeno coloro che vengono crocefissi soffrono molto.
Prima si pensava che Chlebnikov stesso non si rendesse conto di come viveva, che le maniche della sua camicia erano strappate fino alle spalle, che la rete del letto non era coperta da un materasso, che andavano persi i manoscritti con cui riempiva la federa. Ma prima di morire Chlebnikov si ricordò dei suoi manoscritti.
Morì in modo tremendo. Per un’infezione del sangue.
Circondarono di fiori il suo letto.
Non c’era un dottore a portata di mano, c’era solo una dottoressa, ma lui non permise a una donna di avvicinarglisi.
Ricordo il passato.
È avvenuto a Kuokkala, d’autunno, quando le notti sono buie.
D’inverno ho incontrato Chlebnikov a casa di un architetto.
Una casa ricca, coi mobili di betulla di Carelia, un padrone di casa bianco con la barba nera e intelligente. Aveva delle figlie.
Là andava Chlebnikov. Il padrone di casa leggeva i suoi versi e capiva. Chlebnikov era simile a un grosso uccello, scontento di essere osservato.
Come un uccello sedeva con le ali piegate, indosso un vecchio soprabito col doppiopetto, e guardava la figlia del proprietario.
Le portava dei fiori e le leggeva i propri versi.
Li ha ripudiati tutti, tranne Il Dio delle Vergini.
Chiedeva a lei come scrivere.
È avvenuto a Kuokkala, d’autunno.
Chlebnikov viveva laggiù, vicino a Kul’bin e Ivan Puni.
Ero andato là, cercai Chlebnikov e gli dissi che la ragazza si era sposata con un architetto, assistente del padre.
Era una cosa così semplice.
Molti cadono in questa disperazione. La vita è un gioco di incastri, come un nécessaire, ma non tutti riusciamo a trovare in essa il nostro posto. La vita ci mette a confronto gli uni con gli altri e se la ride, quando siamo attratti da qualcuno che non ci ama.
Tutto ciò è semplice come i francobolli.
Anche le onde del golfo erano semplici, kuokkalesche. E lo sono ancora. Le onde erano come lamiera ondulata. Nuvole di lana. Chlebnikov mi disse: «Sapete che mi avete ferito?». Lo sapevo.
«Ditemi, di cosa hanno bisogno? Di cosa hanno bisogno le donne da noi? Cosa vogliono? Io avrei fatto qualsiasi cosa. Avrei scritto in un altro modo. Forse, hanno bisogno della gloria?»
Il mare era semplice. Nelle dacie la gente dormiva.
Cosa avrei potuto rispondere a questa Preghiera nel Getsemani?
Bevete amici, bevete, grandi e piccini, l’amaro calice dell’amore! Qui nessuno ha bisogno di niente. L’entrata è solo su invito. Ed è facile essere crudeli, bisogna solo non amare. Neanche l’amore parla aramaico, né russo. È come i chiodi con cui si crocifigge.
Le corna del cervo servono per la lotta, non senza scopo canta l’usignolo, ma i nostri libri non ci saranno utili. L’offesa è insanabile.
Invece ci restano i gialli muri delle case illuminati dal sole, i nostri libri e tutta la cultura umana, costruita nel nostro viaggio sulla via dell’amore.
E il precetto di essere leggeri.
Ma se fa molto male?
Traduci tutto su scala cosmica, prendi il cuore tra i denti, scrivi un libro.
Ma dov’è colei che mi ama?
La vedo in sogno, la prendo per mano, la chiamo col nome di Ljusja, occhiazzurrato capitano della mia vita, e crollo svenuto ai suoi piedi, e mi scrollo dal sonno.
O, distacco, o corpo amato, sangue scorrevole!

Lettera Quinta

Che contiene la descrizione di Remizov, Alekseej Michailovic,
e del suo metodo per portare
al quarto piano con le bottiglie.
Inoltre si descrivono gli usi e i costumi
del Grande ordine delle scimmie.
Ho inserito anche delle riflessioni teoretiche
sul ruolo dell’elememto personale come
materiale nell’arte.

Lo sai, il re delle scimoe Azyka – Aleksej Remizov – ha di nuovo delle noie: lo sfrattano.
Non permettono a un uomo di vivere tranquillamente come vuole.
Nell’inverno del 1919 Remizov viveva a Pietroburgo, e all’improvviso in casa sua scoppiarono i tubi dell’acqua.
Chiunque si sarebbe perso. Remizov invece si mise a raccogliere bottiglie da tutti i suoi conoscenti, boccete da farmacia, bottiglie di vino e di qualsiasi altro tipo, quelle che capitavano. Ne dispose uno schieramento in camera sul suo tappeto, poi ne prendeva a due a due e correva giù per la scala a prendere l’acqua. Con questo metodo, per portare l’acqua per ogni giorno ci voleva una settimana.
Molto scomodo, ma divertente!
La vita di Remizov se l’è costruita lui stesso, liberamente (n.r. Remizov indossava un abito da cui usciva fuori una coda di scimmia), molto scomoda ma divertente. […]
Già prima che scoppiassero i tubi dell’acqua Remizov si era allontanato dagli uomini – sapeva da tempo che tipi fossero – e si era volto al grande popolo delle scimmie.
L’ordine delle scimmie è stato ideato da Remizov sul modello della massoneria russa. Di esso fece parte Blok, Kuzmin è attualmente membro musicista della Grande e libera Camera dei primati, mentre Grzebin è il compare delle scimmie e in questo ordine ha il grado e il titolo di principe-surrogato, per il periodo di guerra e di fame.
Anche io sono stato accolto in questa congiura scimmiesca, io stesso mi sono dato il grado di “scimmietta codacorta”. Mi sono rasato via la coda da solo prima di entrare nell’Armata Rossa, a Cherson. Poiché tu sei una straniera-surrogata e le tue valigie non sanno che la loro proprietaria è stata allevata da una siberiana, la rossa Stesa, bisogna dirti anche che il nostro popolo scimmiesco, un popolo di disertori della vita, ha un vero re. Emerito.
Remizov … Una volta mi disse: – Non posso piu iniziare un romanzo cosi: “Ivan Ivanovic era seduto a un tavolo”.
Poiché ti rispetto, eccoti la spiegazione di un mistero.
Come la mucca ingoia l’erba, così si ingoiano i temi letterari, si assimilano e si triturano i procedimenti.
Lo scrittore non può essere un dissodatore del terreno: è un nomade e con il suo gregge e la moglie passa a nuova erba.
Il nostro grande esercito scimmiesco vive come il gatto di Kipling sui tetti, “che se ne va da solo”.
Voi indossate abiti e per voi a un giorno segue un altro giorno; nell’assassinio, e ancora di piu nell’amore, siete tradizionali. L’esercito scimmiesco non passa la notte dove ha pranzato, e non beve il tè della mattina dove ha dormito. È sempre senza casa.
Il nostro compito è la creazione di cose nuove.
Remizov adesso vuole creare un libro senza intreccio, senza il destino di un uomo alla base della composizione. Scrive ora un libro composto di pezzi, la Russia nei documenti, un libro fatto di frammenti di libri, ora un libro che si sviluppa dalle lettere di Rozanov.
Non si può scrivere un libro nel vecchio modo. Lo sai Belyi, lo sai bene Rozanov, lo sai Gor’kij, quando non pensa alla sintesi e a Eugen Steinach, e lo so io, scimmietta codacorta.
Abbiamo introdotto nelle nostre opere l’elemento intimo, chiamato per nome e cognome, proprio per questa necessità di materiale nuovo nell’arte. Solomon Kaplun nel nuovo racconto di Remizov, Marija Fedorovna Andreeva nel suo lamento du Blok, sono necessità della forma letteraria.
L’esercito delle scimmie svolge il proprio servizio. Come il cavallo degli scacchi, in diagonale, ho incrociato la tua vita: come è stato e come è, tu lo sai; ma Alìk, tu vieni a trovarti nel mio libro come Isacco sul fuoco preparato da Abramo. E lo sai, Alìk, che la “a” in più nel nome di Abramo Dio gliel’ha data per il grande amore. Un suono in più sembrava un bel dono anche a Dio.
Lo sai questo, Alìk?
Comunque tu non sarai la vittima, sono io la vittima sostitutiva, l’agnello, mi sono impigliato con le corna in un cespiglio.
La stanza di Remizov è tutta piena di bamboline e diaoletti, Remizov sta seduto e borbotta su tutti: “Silenzio! La padrona”, e alza il dito. Non ha paura della padrona – gioca.
È penoso per le scimmie camminare sui marciapiedi, è una vita estranea. Le donne umane sono incomprensibili. La vita umana è terribile, ottusa, retrograda, non flessibile.
Noi nel mondo facciamo i folli in cristo per essere liberi.
Trasformiamo la vita in una barzelletta.
Costruiamo tra noi e il mondo piccoli mondi-serragli personali.
Vogliamo la libertà.
Remizov vive nella vita con i metodi dell’arte.
Finisco di scrivere, devo correre alla pasticceria Mierike a prendere una torta. Verrà qualcuno da me, poi devo portare la torta, poi ancora andare a trovare qualcuno, poi devo procurarmi dei soldi, vendere un libro, incontrarmi coi giovani scrittori. Mica male, nell’economia scimmiesca fa comodo tutto. Per noi la torre di Babele è piu comprensibile del parlamento, abbiamo dove annotare le offese, gelo e asfodelo per noi vanno in coppia, perché fanno rima. Non cederò il mio mestiere di scrittore, la mia strada, libera, per i tetti, per un abito europeo, per degli stivali puliti, per della valuta pregiata, neppure per Alja.

Lettera Settima

[…]

Di cosa scrivere! Tutta la mia via è una lettera per te.
Sempre più rari gli incontri. Quante semplici espressioni ho compreso: mi struggo, ardo, sono perduto, ma mi struggo è l’espressione che mi è più chiara.
D’amore non si può scrivere. Scriverò di Zinovij Gržebin, l’editore. Mi pare un argomento abbastanza lontano. […]

Lettera nona

[…]

Mi hai dato due incarichi:
1) Non telefonarti. 2) Non vederti.
E adesso sono un uomo occupato.
C’è ancora il terzo incarico: non pensarti. Ma questo non me l’hai affidato tu.
Tu stessa a volte mi chiedi: «Mi ami?».
Allora so che è il momento della verifica dei posti di guardia. Rispondo con la diligenza di un soldato delle truppe del genio, che mal conosce il regolamento della guarnigione:
«Posto di guardia numero tre, non sono sicuro del numero; luogo: al telefono e nelle vie dal Gedächnitskirche ai ponti sulla Yorckstrasse, non oltre. Mansioni: amare, non incontrare, non scrivere lettere. E ricordare come è fatto il Don Chisciotte». […]

Lettera Diciottesima

Sull’ineluttabilità e prevedibilità dell’epilogo.
Nell’attesa il corrispondente scrive
prima di Amburgo, poi della grigia Dresda a strisce e infine della città dalle case in serie, Berlino;
poi parla dell’anello attraverso cui passano tutti i pensieri dell’autore,
di un suo viaggio notturno sotto i dodici ponti
di ferro e di un incontro.
E ancora, del fatto che le parole sono inutili.

Sono completamente confuso, Alja! Vedi di cosa si tratta: contemporaneamente alle lettere a te, sto scrivendo un libro. E il contenuto del libro e il contenuto della vita si sono completamente confusi. Ricordi, ti ho scritto di Andrej Belyj e del metodo. L’amore ha i suoi metodi, la sua logica nelle mosse, stabilita senza di me e senza noi. Ho pronunciato la parola amore e ho fatto la mossa. È iniziato il gioco. Dov’è l’amore e dov’è il libro, non lo so più. Il gioco va avanti. Al terzo o quarto foglio di stampa riceverò il mio scacco matto. Le prime mosse sono fatte. Nessuno può cambiare il finale.
I finali tragici – come minimo un cuore spezzato – sono preannunciati in un romanzo epistolare.
E allora nel frattempo racconterò, soltanto per me stesso, del luogo dove avviene l’azione.
È difficile descrivere Berlino.
Se dovessi descrivere Amburgo potrei parlare dei gabbiani sui canali, dei magazzini, delle case che si sporgono sui canali, di tutto ciò che si dipinge di solito.
Quando entri nel porto franco della città di Amburgo, le chiuse si aprono come un sipario. Un effetto teatrale. Un immensa distesa di acqua, le gru che si inchinano a salutare, le cucchiaie nere che raccolgono il carbone dalle navi e lo ingoiano. Le loro mascelle si spalancano da tutte e due le parti, come nei coccodrilli. Gli alti montacarichi a portale con la griglia, dell’altezza di uno sparo di pistola a tamburo. Gli elevatori galleggianti, che in un giorno possono pompare fino a 35.000 pud di grano.
Nuotare fin sotto a una di queste pompe e dire: “Caro compagno, aspira via da me, ti prego, i 35.000 diavoli d’amore che mi si sono annidati nell’anima”.
Oppure chiedere alla gru più gigantesca di sollevarmi per il colletto e mostrarmi l’Elba sbarrata dalle chiuse, il molto ferro, le navi, davanti alle quali le automobili sono solo pulci. E la gru a vapore mi direbbe: “Guarda, pivello sentimentale, guarda il ferro che si erge in alto. Non è bello piangere e lamentarsi, e se non sai vivere, ficca la testa nella cucchiaia di ferro da carbone, perché te la tronchi”. È giusto! Amburgo si può descrivere. […]
Ma è difficile descrivere Berlino. È inafferrabile. I russi a Berlino, come è noto, vivono nella zona dello Zoo. La notorietà di questo fatto non dà allegria. In tempo di guerra si diceva: «Come è noto, i tedeschi avanzano d’abitudine a primavera». Come se i tedeschi avanzassero come la primavera.
I russi a Berlino passeggiano attorno alla Gedächtniskirche, come le mosche volano attorno ai lampadari. E come sul lampadario si appende una sfera di carta per le mosche, così su questa chiesa, sopra la croce, è fissata una strana noce spinosa.
Le strade, osservate dall’alto di questa noce, sono larghe. Le case sono tutte uguali, come valigie. Per le strade camminano signore in cappotti di foca orsina con pesanti soprascarpe di pelle, e tra loro tu, con il cappotto grigio topo rifinito di foca orsina.
Per le strade camminano speculatori del mercato nero con ruvidi cappotti e professori russi in coppia, con le mani dietro la schiena che reggono l’ombrello. Ci sono molti tranvai, ma non ha senso prenderli per andare in giro per la città, perché la città è tutta uguale. I palazzi sono usciti da un negozio di palazzi confezionati. I monumenti sono come servizi da tè. Noi non andiamo da nessuna parte, viviamo ammassati in mezzo ai tedeschi, come un lago tra le rive.
Non c’è inverno. La neve cade, e subito si scioglie.
Nell’umidità e nella sconfitta si arrugginisce la Germania di ferro, e noi che non siamo di ferro ci saldiamo con la ruggine, arrugginiamo insieme a lei.
Sulla Kleistrasse, davanti alla casa dove vive Ivan Puni, c’è la casa di Elena Ferrari.
Ha un viso di porcellana, con lunghe ciglia che appesantiscono le palpebre.
Riesce a sbatterle come sportelli di casseforti.
In mezzo a queste due celebri case spunta da sotto terra l’Untergrund e con un grido si arrampica sulla piattaforma.
Il treno corre dalla stazione in Wittenbergplatz, simile a una grossa tana di talpa, ululando come un pesante proiettile in ascesa fino alla piattaforma in Nollendorfplatz.
Più oltre il treno passa dietro una chiesa rossa, le chiese a Berlino si somigliano talmente che le distinguiamo solo per la strada su cui si trovano.
Passa il treno dietro la chiesa rossa attraverso lo squarcio di una casa come attraverso un arco trionfale.
Più avanti c’è il forum di tutti i treni di Berlino, il Gleisdreieck. Per i russi che vivono fra i tedeschi come tra le rive, il Gleisdreieck è il trasbordo.
Da qui il treno corre verso Leipzigerplatz e altre piazze dove i poveracci vendono fiammiferi e i cani-guida per i ciechi, coperti di stracci, stanno sdraiati tranquilli.
Singhiozzano gli organetti, non suonano né Ach, mein lieber Augustin né Deutschland, Deutschland über alles, semplicemente si lamentano. È il lamento meccanico di Berlino.
Se non vai verso le piazze ma esci dalle porte deserte della stazione Gleisdreieck, non vedrai tedeschi, né professori, né speculatori.
Tutto intorno, sopra i tetti dei lunghi edifici gialli, corrono strade, strade corrono sulla terra, lungo alte piattaforme di ferro, incrociano le piattaforme di ferro passando per altre piattaforme, ancora più alte.
Migliaia di fuochi, fanali, frecce, globi di ferro su tre gambe, semafori, tutto intorno semafori.
L’angoscia, l’amore dell’emigrante e il tranvai n. 164 mi hanno condotto qua, ho camminato a lungo per i cavalcavia sulle rotaie che qui si intrecciano come si intrecciano i fili di uno scialle fatto passare attraverso un anello.
Questo anello è Berlino.
Questo anello, per i miei pensieri, è il nome tuo.
Sono tornato spesso di notte da casa tua e sono passato sotto i dodici ponti di ferro.
Cammini, canti. Pensi, perché la vita dà solo cose confezionate al cuore di ferro della Germania, il Gleisdreieck, e case come valigie alle porte di ferro di Amburgo, tranvai sui quali non c’è dove andare. Cammino, tornando.
Vado per la via sotto i dodici ponti di ferro.
La strada è lunga. Sull’angolo di Potsdamerplatz ogni notte vedo sempre la stessa prostituta con un cappello rosso.
Canticchia qualcosa vedendomi, poi parla in una lingua che non capisco.
Passo oltre, devo andare lontano.
Che fare, compagna dal rosso cappello!
Al mondo ci sono tante bestie diverse e tutte a loro modo glorificano e bestemmiano Dio.
Senza parole ti tuffi in fondo al mare e riporti solo sabbia, che scorre come fango.
Io possiedo molte parole e ho la forza, ma colei a cui dico tutte le parole è straniera.

da DER ZOO, o Lettere non d’amore, oppure La terza Eloisa
Viktor Sklovskij, 1923

* L’Alja (Alja Kagan) destinataria delle lettere è la famosa scrittrice Elsa Triolet, futura moglie di Louis Aragon.

** le immagini del post sono tratte dal film muto Letto e sofà di Abram Matveevič Room (del 1927), la cui sceneggiatura fu scritta da Viktor Sklovskij.

*** nella foto di copertina è Lee Miller, fotografata da Man Ray