Amore – Goffredo Parise e Henry James

Amore

 
Un giorno un uomo conobbe una giovane signora in casa di amici ma non la guardò bene, vide che aveva lunghi capelli rossastri, un volto dalle ossa robuste con zigomi sporgenti da contadina slava e mani tozze con unghie molto corte. Gli parve timida e quasi impaurita di parlare e di esprimersi. Il marito, un uomo tarchiato con occhi sottili e diffidenti in un volto rinchiuso pareva respirare con il collo gonfio e gli ricordò i ranocchi cantanti. Aveva però caviglie fragili e senili e le due cose, collo e caviglie, davano al tempo stesso una idea di forza e di debolezza.
L’uomo sapeva che queste prime impressioni, quasi definitive, non potevano esserlo del tutto perché si sentiva distratto e perché non era accaduto niente, infatti quasi non si accorse quando uscirono dalla casa e non ricordò il timbro della voce di nessuno dei due.
Passò del tempo e li rivide in un ristorante. Anzi, vide soltanto la moglie, ritta presso il tavolo e nel gesto di sedersi: in quel gesto lei scostò da un lato, con un lieve scatto della grossa mano ma poi lisciandoli, i capelli del colore delle carote sporche di terra e fece questo inarcando la schiena. Indossava un pigiama nero, una cintura di metallo dorato appoggiata ai fianchi, scarpette di vernice nera con una fibbia e tuttavia, per una fulminea coincidenza di ragioni tanto misteriose quanto casuali, era bellissima. L’uomo che la guardava da un tavolo non vicino sentì aumentare comicamente le pulsazioni del suo cuore perché capì di avere capito tutto di lei. Anche lei capì tutto di lui (anche che lui capiva) perché in quello stesso istante si girò, lo riconobbe e lo salutò con un sorriso esultante che subito (e ingenuamente) cercò di contenere entro i limiti di una buona educazione da adulti. Ma l’impeto di quel sorriso le aveva per terra per sollevarsi. Fu questione di un momento, poi la donna si rivolse ai suoi commensali con volto gentile ma serio, spesso nascosto dai capelli, e le scarpette tornarono tranquille. L’uomo invece seguitò a guardarla fino a quando le pulsazioni del suo cuore si calmarono. Allora la guardò un po’ meno incantato e un po’ più curioso come fosse, e come avrebbe dovuto essere, una estranea: ma anche questo modo di osservarla, che avrebbe voluto tener conto di particolari banali, non fece che confermare la grande e naturale bellezza della presenza femminile al punto che il ristorante gli parve deserto o tutt’al più avvolto in uno sfarfallìo di colori e di suoni come si vedeva in certi vecchi e forse brutti film. L’uomo si sentì improvvisamente debole e riconobbe i segni di una emozione che da quando era bambino e vedeva sua madre salire da un giorno di limpido gelo, il collo sporgente dai renards con le puntine bianche, la bocca rossa e lucida, il neo sulla cipria, erano sempre gli stessi segni. Sollevò gli occhi dal tavolo nello stesso momento in cui anche lei li sollevava obliquamente verso di lui, non più sorridendo ma con il volto percorso da una vampata, ammaccato da un dolore imprevedibile e ingiusto che non capiva. Gli occhi erano mongoli, aperti come se guardasse nel buio.
Una sera, insieme ad amici che nominarono quella coppia, l’uomo si sorprese a dire a se stesso, con voce alta per nascondere l’emozione: «Il destino ci farà incontrare ancora». Gli amici non capirono a cosa si riferisse, ma pochi istanti dopo si udirono alcune automobili e una compagnia rumorosa e allegra, in cui l’allegria non era completa e qualcosa, al contrario, la turbava, entrò nella casa: si guardarono per pochi istanti, anzi si guardarono abbassando lo sguardo. Dopo i primi momenti di timidezza si parlarono. Lei disse che aveva studiato molti anni danza classica ma che aveva abbandonato la danza quando si era sposata, dati gli impegni della famiglia. Ora, ogni tanto, provava una grande malinconia.
«Perché?».
«Mah. non lo so».
«Forse le sarebbe piaciuto diventare ballerina?».
«Mi sarebbe piaciuto, ma sa, pochi riescono, e poi mi sono sposata. Non capisco perché ogni tanto ho una grande malinconia. Eppure sono felice, amo molto mio marito e i miei figli, la nostra famiglia è perfetta ed è, per me, la cosa più importante di tutte. È strano. Mio marito dice che è un po’ di esaurimento nervoso».
L’uomo sapeva che non era strano ma, per rispetto e delicatezza, non lo disse. Volse gli occhi verso il marito, che aveva visto così poco. Stava immerso in una poltrona e avvolto con atteggiamento autoritario e ottocentesco nel suo collo che respirava. Anche quello che diceva era autoritario ma le caviglie deboli toglievano ogni autorità al modo di dire le cose (e anche alle cose) e queste parevano uscire dal largo taglio della bocca con soffi lievi e regolari che si perdevano nella stanza. Egli lo capì e fece pressione dentro se stesso e nella poltrona, evitò di parlare e cominciò in quel modo e da quel momento a gonfiare dentro di sé pazienza e astuzia.
L’uomo osservò che la donna fumava e beveva molto. La sua voce, lentissima e infantile, che esprimeva concetti elementari, era un po’ rauca, di tanto in tanto tossiva. Eppure la sua bellezza era limpida e intoccata come non avesse avuto marito, figli e famiglia e non avesse mai fumato né bevuto.
L’uomo passava molto di rado per la città dove abitavano i due coniugi ma la rivide ancora, tra due finestrini, mentre le auto correvano in direzioni opposte, e lei lo salutò con lo stesso sorriso impetuoso di quella prima sera al ristorante. Ognuno guidava solo nella sua automobile (erano due automobili della stessa marca e dello stesso tipo) e tutti e due frenarono bruscamente. L’uomo aspettò che la strada fosse libera, girò l’automobile e si avvicinò a quella di lei ferma sul lato opposto ma appena giunse vicino la signora riprese a correre ed egli la vide per pochi secondi nello specchietto, con un volto gonfio come di ragazzo che ha preso un pugno molto forte; per questo la lasciò andare.
Un giorno la donna gli telefonò da molto lontano per invitarlo a cena, una domenica. Lui dapprima non capì di chi si trattava, poi fu preso insieme dalla sorpresa e dall’emozione. Le disse che avrebbe fatto centinaia di chilometri, molte volte, soltanto per vederla, e farfugliò un po’. Lei rispose che doveva «mettere giù» il telefono.
Si rividero a una grande festa, il volto di lei, nella grossa testa rotonda era bellissimo, impaurito e infelice ma c’era anche in quel volto, purtroppo, un’ottusa superbia che lo ferì e soprattutto ferì i battiti del cuore che rallentarono e diventarono normali. Quando ebbero occasione di parlarsi (ma lei lo sfuggiva e lui ballò tutto il tempo con una donna bella che rideva rovesciando la testa) gli disse che era offesa e disgustata per quanto le aveva detto al telefono. Era felice, molto felice e innamorata del marito, il loro matrimonio era «una cosa superiore, eccezionale». Gli disse che aveva raccontato al marito di quella telefonata perché non c’erano segreti tra loro due. Nel dir questo sorrise con fierezza ma il suo volto era tumefatto dal dolore e dalla vergogna e due solchi erano apparsi agli angoli della bocca fin quasi al mento. L’uomo guardò il marito che li aveva osservati di sottecchi e ora si aggirava, un po’ curvo e ondulante, perdendo e conservando autorità. A un certo punto si sedette su un gradino fingendo di seguire la musica dell’orchestrina lì accanto, e con la gola e gli occhi rivolti all’insù mandò un urlo acido, raspante, che nella confusione della serata nessuno udì.
Improvvisamente la donna disse: «Mi lasci stare», si scostò dall’uomo inarcando la schiena e con passi dolorosi e danzanti andò a posare la fronte contro i vetri di una finestra con il bicchiere di whisky in mano. Più tardi qualcuno disse che aveva pianto e fatto anche una scenata, forse perché aveva bevuto.
Nonostante tutto l’uomo fu invitato da loro a una grande cena ed egli non volle rifiutare, per educazione e perché desiderava vederla ancora. Sedette alla destra di lei che manteneva i solchi ai lati della bocca, gli parlava con sfida contadina e non sorrise mai, se non in modo sprezzante e senza mai distendere il volto qua e là sconvolto da quei gonfiori. In due o tre occasioni accadde che le mani o le spalle dei due si toccassero ma lei si ritrasse, offesa. L’uomo stette bene attento che non accadesse mai più un simile caso e allontanò la sedia, poi addirittura si alzò e girovagò un poco per la casa. Passando per un corridoio semibuio, ad ora inoltrata, incontrò una bambina in camicia da notte, sperduta, rossastra come la madre, che egli carezzò sulla testa; la bambina gli prese subito la mano, se la posò sul petto, gliela strinse come accade nel sonno guardando davanti a sé il corridoio con lunghi ciuffi di capelli addormentati in aria. Poi si staccò dalla mano di lui e andò chissà dove. L’uomo tornò nella grande sala da pranzo dove il marito distribuiva champagne: lei stava sempre seduta a capotavola, forte e severa; il marito sorrideva ed era buono e servizievole.
L’uomo tornò sempre più di rado in quella città. Non vide più la coppia degli sposi, pensò a lei e sempre gli parve che fosse passato molto tempo. Invece erano passati solo pochi mesi ma il sentimento che lui e la giovane signora avevano provato (e qui descritto) era tale che essi, senza volerlo e senza saperlo, avevano vissuto e disperso nell’aria in così poco tempo alcuni anni della loro vita.

 

da Sillabari
Goffredo Parise

 

The Beast in the jungle – Clara van Gool

 

La bestia nella giungla

 

Poco importa sapere come nacque, durante il loro incontro, il discorso che tanto l’aveva turbato; bastarono, probabilmente, poche parole dette da lui, senza una precisa intenzione, così… mentre si attardavano e poi lentamente s’incamminavano insieme dopo aver rifatto conoscenza. Era arrivato una o due ore prima, con altri amici, nella casa dove lei si trovava ospite e, come parte di quel gruppo di visitatori che si era formato nell’altra casa-e grazie al quale, come sempre, aveva potuto attuare la sua teoria di confondersi tra la folla-era stato invitato a colazione.
[…] durante quel pomeriggio d’ottobre, una sua più intima conoscenza con May Bartram, il cui viso-una vaga reminiscenza più che un vero e proprio ricordo-aveva cominciato a turbarlo piuttosto piacevolmente quando sedevano, anche se molto distanti l’uno dall’altra, a una lunghissima tavola. Quel volto lo aveva attratto come la continuazione di qualcosa di cui aveva perduto la prima parte. Lo riconosceva, e per il momento lo accolse di buon grado, come un seguito, di cosa però, non riusciva a capire; e questo non fece che aumentare la curiosità o il divertimento, tanto più che Marcher era in qualche modo sicuro-pur senz’alcun cenno diretto da parte di lei-che lei la giovane donna, il filo non l’avesse perduto affatto. Non l’aveva perduto, ma non glielo avrebbe restituito, Marcher capì, se non fosse stato lui a tendere la mano in qualche modo per prenderlo; e non si rese conto soltanto di questo, ma di molte cose ancora, tutte abbastanza curiose si pensava che, nel momento in cui l’occasionale formarsi dei gruppi li portò faccia a faccia, stava ancora lambiccandosi con l’idea che qualsiasi rapporto fosse intercorso fra loro nel passato non doveva aver avuto alcuna importanza; e se era davvero così, a maggior ragione Marcher si stupiva che ora ne avesse tanta; ma forse, finì per rispondersi, date le circostanze, non restava altro da fare che prendere le cose così come venivano. […]
Si sarebbero separati, e questa volta senza la possibilità di altri incontri, se anche quel tentativo si fosse concluso senza successo. E fu proprio allora, quando una svolta s’imponeva, come egli comprese più tardi, che, venendo meno ogni altro mezzo, lei si decise a prendere l’iniziativa e, di fatto, a salvare la situazione. Non appena May cominciò a parlare, Marcher sentì che ella aveva deliberatamente deliberatamente taciuto ciò che ora stava per dire sperando di poterne fare a meno; […]
«Un giorno, sapete, mi diceste una cosa che non ho mai dimenticato e che da allora mi ha fatto pensare a voi più volte; era un giorno caldissimo e stavamo attraversando il golfo per andare a Sorrento in cerca di un po’ di refrigerio. Fu mentre tornavamo, godendoci il fresco sotto la tenda della barca, che mi diceste appunto… proprio non ricordate?»
Marcher aveva dimenticato, e ne fu più sorpreso che vergognoso. Ma il bello fu che non colse in quelle parole nessun richiamo volgare a qualche «tenero» discorso. La vanità delle donne ha la memoria lunga, ma in quel caso non sembrava proprio che May stesse vantandosi con lui di un complimento o di un malinteso. Con un’altra donna, una donna totalmente diversa, avrebbe magari potuto temere la rievocazione di qualche avventata «profferta». Così, costretto ad ammettere d’aver veramente dimenticato, ebbe l’impressione che si trattasse di una perdita piuttosto che di un guadagno; gli sarebbe stato utile ricordare la cosa menzionata da May. «Ci sto pensando, ma… no, ci rinuncio. Eppure ricordo quel giorno di Sorrento.»
«A questo punto, non credo che voi possiate ricordare,» disse dopo un attimo May Bartram; «e non sono neppure sicura se io debba desiderarlo. È terribile riportare una persona indietro a ciò che era dieci anni prima. Se avete vissuto finora prescindendo da quella cosa,» accennò con un sorriso, «tanto meglio.»
[…] Si trattava di voi.» S’interruppe, quasi volesse dargli il tempo di ritrovarla da solo; ma siccome, limitandosi a incrociare lo sguardo di lei con aria sempre più stupita, Marcher non accennava risposta, May a un tratto si decise: «È mai successa?»
Fu allora che, continuando a fissarla, una luce gli balenò dentro e il sangue lentamente gli affluì al volto che prese a bruciargli man mano che il ricordo si chiariva. «Volete dire che vi confidai…?» Ma si trattenne, per paura di tradirsi, o che la sua supposizione potesse essere errata.
«Era una cosa che vi riguardava personalmente, che era difficile dimenticare… beninteso sempre che ci si ricordasse di voi. Ecco perché vi chiedo,» May sorrise, «se la cosa che mi diceste, è poi avvenuta»
Ora sì che capiva Marcher, ma venne sopraffatto dallo stupore e dall’imbarazzo e May, aveva capito anche questo, ne fu dispiaciuta per lui come se la sua allusione fosse stata un errore. Gli bastò un attimo per avvertire che non a un errore era dovuto il suo imbarazzo, bensì alla sorpresa. Anzi, dopo lo shock iniziale, il fatto che lei sapesse cominciò, per quanto abbastanza stranamente, a prendere per lui un dolce sapore. May era dunque la sola persona al mondo che sapesse, e l’aveva continuato a sapere per tutti quegli anni, mentre la circostanza di averle sussurrato un segreto così gli era inspiegabilmente svanita dalla mente. Nessuna meraviglia, quindi, se non era stato possibile che si incontrassero come se nulla fosse accaduto. «Credo, di sapere,» disse alla fine Marcher, «di sapere a cosa alludete. Solo, è curioso, ma avevo perduto perfino la sensazione di avervi introdotto a tal punto nella mia intimità.»
«Forse perché l’avete fatto con molte altre persone?»
«Al contrario. Nessun altro da allora.»
«Così, io sarei l’unica persona a sapere?» «
«L’unica al mondo.»
«Bene,» continuò lei in fretta, «in quanto a me non ne ho mai fatto parola. Mai, mai ho riferito, parlando di voi, quanto mi diceste allora.» Lo guardò in un modo tale che lui le credette completamente. I loro occhi s’incontrarono e a Marcher non restò più alcun dubbio. «Né mai lo farò.»
C’era nella sua voce una serietà tale, eccessiva perfino, che tolse a Marcher qualunque sospetto d’ironia da parte di lei. In qualche modo considerò l’intera faccenda come un nuovo tesoro per il fatto stesso che lei fosse già in possesso del segreto… E se May non aveva preso un atteggiamento sarcastico, evidentemente simpatizzava con lui, e questo a Marcher, in tutti quegli anni, non era capitato con nessuno. Sentiva che adesso mai e poi mai avrebbe potuto anche solo accennare a quelle confidenze, ma nondimeno si poteva tranquillamente permettere il lusso di approfittare dell’incidente di averlo già fatto a suo tempo. «Per favore, allora, non fatelo. Lasciamo le cose come stanno.»
«Oh, per me va bene,» rise lei, «se per voi è lo stesso!» Al che aggiunse: «Ma… avete sempre quel vostro presentimento?»
Era impossibile per lui non rendersi conto che May era realmente interessata, anche se la cosa non finiva di stupirlo. Aveva sempre pensato di essere terribilmente solo, ed ecco che solo non era affatto. Né lo era mai stato – così sembrava – neppure per un’ora… a partire da quel pomeriggio sulla barca, a Sorrento. Lei sì che era stata sola, gli parve di intuire osservandola, sola per la imperdonabile circostanza della sua mancanza di fedeltà. Dirle quello che le aveva detto… cos’altro era stato se non chiederle qualcosa? Qualcosa che ella aveva concesso in tutta generosità, senza che lui, non foss’altro che con un ricordo o un pensiero gentile, dato che non c’era stato un altro incontro, si fosse mostrato riconoscente. In sostanza egli, all’inizio, le aveva chiesto semplicemente che non ridesse di lui ed ella se ne era meravigliosamente astenuta per dieci anni, e continuava ad astenersene. Infinita era dunque la gratitudine che Marcher le doveva. Tanto più che ora voleva sapere con esattezza in che modo lo avesse giudicato allora. «Come vi ho detto esattamente…?»
«Circa la natura di quel vostro presentimento? Ma, nel modo più semplice. Diceste che sin dalla primissima infanzia avevate avuto, nel più profondo di voi, come la sensazione di essere destinato a qualcosa di raro e di strano, prodigioso forse e terribile; qualcosa che vi avrebbe colpito, e magari sopraffatto, presto o tardi, e di cui avevate il presentimento e la certezza fin nelle ossa.»
«E a voi questo sembra tanto semplice?» chiese John Marcher.
May rifletté un momento. «Chissà, forse perché mentre parlavate mi sembrava di capirvi così bene.»
«Davvero mi capite?» chiese lui avidamente.
Lo sguardo benevolo di May tornò a fissarsi su di lui. «E avete ancora quella convinzione?» «Oh!» esclamò Marcher in segno d’impotenza. Aveva troppe cose da dire.
«Di qualsiasi cosa si tratti,» concluse lei con decisione, «non è ancora capitata.»
Marcher scosse la testa arrendendosi completamente. «Non è ancora capitata. Solo, vedete, non si tratta di una cosa che io debba fare, ch’io debba compiere nel mondo, per distinguermi e farmi ammirare. Non sono somaro a tal punto. Sarebbe senza dubbio molto meglio che lo fossi.»
«Si tratta allora di qualcosa che dovrete semplicemente subire?»
«Beh, diciamo attendere… qualcosa che devo incontrare, affrontare, che eploderà all’improvviso nella mia vita; forse distruggendo ogni ulteriore consapevolezza, forse distruggendomi; a meno che non si accontenti di alterare ogni equilibrio, colpendo alle radici tutto il mio mondo e abbandonandomi alle conseguenze, quali che siano.»
May sembrò afferrare il concetto, ma la luce dei suoi occhi continuò per lui a non essere derisoria. «Ciò che mi state descrivendo non è forse l’attesa o la sensazione di pericolo-familiare a tanti-di innamorarsi?»
John Marcher rifletté. «Mi chiedeste la stessa cosa allora?»
«No… non ero così disinvolta. È un’idea che mi viene adesso.»
«Certo,» disse lui dopo un istante, «certo che vi viene adesso. E anche a me. E non è escluso che sia proprio questo ciò che mi aspetta. Soltanto,» proseguì, «ritengo che se di questo si fosse trattato, me ne sarei accorto.»
«Volete dire che siete già stato innamorato?»
E poiché Marcher si limitava a guardarla in silenzio: «Siete stato innamorato, e la cosa non ha rappresentato poi questo grande cataclisma, non s’è rivelata la prova capitale… non è così?»
«Sono ancora qui, come vedete. Non sono stato sopraffatto.»
«Allora non è stato amore,» disse May Bartram.
«In ogni modo almeno pensavo che lo fosse. Per tale l’ho preso… e l’ho creduto sino ad ora. È stata una cosa piacevole, una cosa deliziosa, una cosa disperante,» spiegò. «Ma tutt’altro che strana. Non era come dovrebbe essere la mia cosa.»
«Volete forse una cosa che sia solo vostra… qualcosa che nessun altro possa provare o abbia mai provato?»
«Non è questione di ciò che io ‹voglio›… Dio sa che non voglio proprio nulla. Si tratta soltanto dell’angoscia che mi assilla… con cui mi tocca vivere giorno dopo giorno.»
Marcher parlò con tanta lucidità e tale coerenza da sentirsene ulteriormente impegnato. Ammesso che prima lei non fosse stata interessata ora non poteva non esserlo. «È come una sensazione di violenza incombente?»
A Marcher ormai piaceva sicuramente l’idea di riparlarne. «Non sono affatto sicuro che – quando realmente capiterà – sarà necessariamente una cosa violenta. Penso, anzi, che sarà naturale e soprattutto, inequivocabile. Per me è, semplicemente, la cosa. La cosa apparirà del tutto naturale.»
«Ma allora come potrà sembrarvi strana?»
Marcher rifletté. «Non lo sarà… per me.»
«Per chi dunque?»
«Beh,» rispose lui, finalmente sorridendo, «diciamo per voi.»
«Dovrò allora esserci anch’io?»
«Ma voi ci siete già… dal momento che sapete.»
«Capisco,» disse May pensierosa. «Ma io voglio dire presente alla catastrofe.»
Per un lungo minuto, il tono leggero della loro conversazione cedette il posto a una certa gravità; come se il profondo sguardo che si scambiarono in qualche modo li legasse. «Dipenderà soltanto da voi… se vorrete vegliare con me.»
«Avete paura?» chiese May.
«Non lasciatemi ora,» riprese lui.
«Avete paura?» ripeté lei.
«Credete che io sia semplicemente uscito di senno?» insisté lui invece di rispondere. «Vi faccio soltanto pena come un innocuo lunatico?»
«No,» disse May. «Credo di capirvi. E vi credo.»
«Intendete dire che sentite quanto la mia ossessione – povera vecchia ossessione! – possa corrispondere a qualche possibile realtà?»
«A qualche possibile realtà.»
«Allora mi farete compagnia nell’attesa?»
May esitò, poi per la terza volta pose la sua domanda. «Avete paura?»
Vi ho forse detto questo… a Napoli?»
«No, niente di simile.»
«Allora, non so. E mi piacerebbe saperlo,» disse John Marcher. «Sarete voi stessa a dirmi cosa ne pensate. Se veglierete con me non potrete non accorgervene.»
«Benissimo, allora.»
Intanto avevano attraversato la sala, e una volta giunti alla porta, prima di uscirne, si fermarono, quasi volessero passare in rassegna i termini della loro intesa.
«Vi farò compagnia,» disse May Bartram. […]

 

da La bestia nella giungla
Henry James

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* in copertina
ph. Saul Leiter