L’ultimo dispaccio – Cees Nooteboom

“Questo si chiedeva l’uomo nel giardino d’inverno, / la fine della fine, cosa poteva essere?

*



Il poeta dorme. Questa è l’ora del giardiniere.
Foglie morte, il terreno umido e nero, il cactus
cullato nelle sue spine, figlio
della tempesta. Tra un anno arriverà il fiore

atteso dai mesi, generato
da una sola ora e dal colore che l’accompagna,
il viola della nascita e del lutto. In questo giardino
la durata non ha voce, il tempo non ha comando.

Questa è la sua famiglia, verde e ostinata,
mai timorosa della fine, il silenzio
la poesia in cui si rispecchia il suo esssere.
Al cancello del giardino piagnucola il mondo, il

rumore di un giornale.
*



Cosa volevo dire con quei versi pietrosi,
in rime che cozzavano con le loro simili,
la metrica dell’olio, il breve trionfo
della musica? Chi danzerebbe

a questo ritmo? Figure chiuse nate da una
profezia, una verità in forma d’arte.
Provaci di fronte alle stelle che
contemplano il peggio,

la nota di un dolore infinito
che sale dalle vittime.
La visione venale dei molti
immagine corrotta di un recitativo

l’abito della notizia.
*


Ora i miei piedi contano il cammino, lo so,
voltarsi è proibito. I miei passi misurano il tempo
una poesia oscura senza pari, un ritmo
che più lento non si può. Provo

a vedere di tutto come ho sempre
fatto. Lassù ancora quell’uccello
che fingeva di seguirmi, un ultimo
compagno di viaggio che sapeva
dov’ero diretto,

conosceva la mia strada. Tante strade
ho percorso, sempre in cerca di qualcosa
che doveva trovarsi più lontano, che quando
infine scorgevo svaniva come un miraggio

o appariva come poesia.
*


Sento la musica ma non ho parole,
movimento di danza, senza lì nessuno.
Poesia, ma senza un lettore.
Tempo, ma senza i numeri.

Quanti enigmi si possono sopportare?
L’amico morto senza poter più parlare,
l’altro amico che sull’ultimo letto
tracciava con le mani un cerchio,

e voleva dire viaggio. Era
un addio, e io l’ho compreso, dovevo
viaggiare ancora e più lontano, cerchi
sul mondo fino a tornare da lui,

o lui da me, una promessa vana.
*


Qui non c’è amore, solo violenza,
solitudine, malinconia, il profilo di
una bestia, un uomo in compagnia della sua
ghigliottina, un bambino senza bocca.

Chi sono questi esseri, abbrutiti,
malvagi, spaventati, visione di un
mondo pericoloso, sospeso tra il
bianco e il nero della notte

in cammino tra destino e sorte
in una terra che nessuno conosce
tranne il solitario artefice
con cui non parlano

perché nessuno lo conosce.
*


Volevi vivere, no? E allora volevi
solo l’oro, l’azzurro
del cielo, l’amore, il sole?
Niente qui è gratis, raccogli

il morire in tutte le sue forme,
il dolore, l’urlo, il malefico
abbraccio, il bacio del tradimento
calcolato.

La vita un cantico dei cantici? Certo,
ma al di sotto quest’altra verità,
della notte e della nebbia,
la prova del nove che dura

fino alla fine.
*


Ho percorso la strada più lunga, la strada
senza un arrivo. Spelonche, un paesaggio vuoto
con i colori della sabbia e della paglia.
Altri camminavano
insieme a me, amici, fratelli, amanti,

e tutti mi hanno detto addio, svoltando a sinistra
o a destra, sono scomparsi come spettri,
ognuno solo con se stesso. Senza voltarsi,
conoscevano la loro metà, tracciavano linee rette

nel vuoto. Le ho visto andarsene, le persone
della mia vita, uscire lentamente dalla mia
e dalla loro esistenza. Le ho immaginate finché
ancora le vedevo, sentivo le loro voci lontane,

suoni d’aria.
*


Il dolore ha una sola dimensione
in cui tutto è nascosto, uno sguardo
mai scordato, pena ed estasi, istanti
di amore e amicizia, una biglia
variopinta che rotola lenta
fino al bordo dello spazio giochi
dove niente si conserva, tutto
quello che è stato una vita. Cosa volevi

conservare? Il suono di una voce,
il ricordo di una spalla, di una
mano, il colore dei suoi occhi, l’odore
di un corpo, per sempre

svanito?
*


Il silenzio è come un inno, così non ho
mai ascoltato il nulla, la contraddizione
mi avvolge, un organo,
niente tasti, un canto

il cui suono è sigillato,
le città, i deserti della mia
vita si consumano in questa musica
senza note, quasi sono già

assente, il mio essere indugia ancora,
vorrebbe tornare indietro, ma lo sa,
lì non c’è più nessuno, mi resta solo
la luce che accanto a me

si muove.
*


Ora scompare anche l’uccello con lenti 
battiti d’ali, li sento, un andante 
senza fine. Vola sopra quel che 
è ancora visibile della strada, 

una traccia ormai di ghiaia, di sabbia e 
conchiglie in frantumi. Un ultimo 
ricordo del mare e dell’
acqua, mia casa di un tempo. 

La mia specie è nata nell’acqua, 
essere acquatici, questo eravamo, 
semente di stelle sparsa 
per divenire la forma in cui ci 

conosciamo 
Come nasce una raccolta di poesie? Hai cominciato in un giardino, descrivendo piante mediterranee, ma a emergere sono pensieri sulla guerra, immagini di un lontano passato, mai svanito.
Poi la poesia prende una piega imprevista: compare qualcuno o, meglio, qualcuno tutt’a un tratto si interpone e ti mette tra le mani una cartella con dei disegni che, in maniera strana e forse solo per te, richiamano un testo presocratico, di Empedocle, che avevi annotato prima ancora di iniziare la raccolta, ma che ora, per via della pandemia, ti è diventato inaccessibile, e siccome la poesia agisce a volte in modo arbitrario, le teste rappresentate in quei disegni si legano misteriosamente ai versi di Empedocle nella quarta poesia della prima serie, interrompono la meditazione e nella poesia n. 11 della stessa serie spingono la composizione in una direzione diversa. Intanto anche tu sei arrivato in un altro paese, ma il virus misterioso che all’improvviso domina il mondo ha cambiato la vita anche qui, sarebbe strano se la poesia non se ne curasse, nella grande città in cui ti sei fermato per un breve tempo le larghe strade sono d’un tratto deserte, su un cartellone leggi «È qui che comincia l’aldilà?», e sembra che la realtà stessa voglia collaborare a scrivere la poesia, tu ti ritrai in un ambiente di silenzio e paesaggi nordici, la poesia ti prende di nuovo per mano e ti riporta ai mesi passati, al primo verso scritto in un altro luogo, in un giardino d’inverno, la fine della fine, cosa poteva essere?


Cees Nooteboom
Hofgut Missen, 12.5.2020
*


Ora è silenzio
il resto della distanza
senza ricordo
niente vita.

Non sento più
i miei passi,
quel che mi circonda
è nascosto.

Avanzo cieco, pallido cane
nel freddo. Deve accadere qui,
qui dico addio al mio sé
e lentamente divento

nessuno.

da Addio: 
Poesia al tempo del virus -
Cees Nooteboom