Lasciami il sogno – Anna De Simone e Biagio Marin

 

Milano, 19 Agosto 1983

Carissimo Maestro,

ho ricevuto solo ieri la sua cara lettera del 6 Agosto (le Poste, purtroppo, non funzionano) con i preziosi suggerimenti che essa contiene. Spero che Lei nel frattempo abbia ricevuto la mia risposta a quel meraviglioso “canto” di cui ha voluto farmi dono e che leggo e rileggo: mi dà forza, coraggio e ali nel momento in cui mi accingo a un lavoro,certamente superiore alle mie capacità, ma stupendo: una straordinaria “aventura” nella quale vorrei vivere a lungo.

Leggo i versi che ancora non conoscevo: sempre più ammirata e incantata, sempre più consapevole dei valori altissimi che essi contengono. Farò poi quello che mi chiede: segnerò su un foglio le liriche di El vento de l’eterno da antologizzare: ma il mio parere vale molto poco.
Intanto comincio a stendere qualche appunto: leggo e scrivo in questo caldo agosto milanese, in giornate calme di cui durante l’anno, con la scuola, è difficile godere. Vorrei per pochi momenti la sua grandezza, per riuscire a dire, a cantare proprio la sua vita-poesia, in maniera adeguata. Poi penso che sono solo un’insegnante che vuole, desidera fortemente far conoscere bene, e quindi far amare, Biagio Marin ai suoi allievi più sensibili alla poesia. E allora mi immagino di parlare a loro e mi faccio coraggio.
La “Storia di una vita letta nella poesia” dovrebbe essere il mio lavoro: la sua “grande avventura”, quella che Lei ci ha raccontato in più di tremila liriche nelle quali gli uomini si riconoscono. Leggo in La ghirlanda de gno suore:

Gera una volta….tante robe gera,
Co ‘l mondo gera luse e zoventù
E drento ai cuori feva sempre alba
E drento ai vogi gera ‘l sielo blu.

Ecco, da quel “gera una volta” vorrei avesse inizio la favola intensa, profonda, drammatica, mossa e luminosa di quella grande avventura che è stata, con la sua vita, la sua poesia, dono divino nel quale noi povere creature ci rispecchiamo e ci ritroviamo. Una tela azzurra (“Me sono un mar seleste”): si tratta di ricamare su quella tela luminosa, con mano leggerissima (averla!) momenti, temi, situazioni, tempeste e avventure celesti, voli di gabbiani, nuvole tempestose. Un mondo, il suo e il nostro mondo, quello nel quale il lettore scopre o riscopre se stesso, e la realtà e la natura. E il divino.
Così, mentre leggo e scrivo, il quotidiano sparisce, e io sono a Grado, la Grado della sua poesia e muovo i primi passi dalle origini, dalla casa- osteria vicino alla chiesa, in cui cerco di immaginare, guidata da Lei, suo padre, la parola poetica di suo padre che Lei evoca in una poesia meravigliosa e importantissima, credo. Perché nella parola di suo padre Lei afferma di aver conosciuto la parola di un poeta e ci parla di una parola-dono che è anche la sua parola, quella della sua opera: poesia come dono, come offerta di sé, poesia come scoperta e come creazione, come rivelazione e come fiaba della vita. Mi permetta di trascrivergliela tutta qui di seguito. E’ troppo bella:

GNO PARE

Gno pare gera solo un osto;
el vendeva el so vin
puro, de tin,
apena fato, quasi mosto.

El porteva seren i quarti in tola,
co’ l’aria suridente:
a duta quela zente
‘i deva in don la so parola.


Che gera d’un poeta,
vogioso de cantâ novele
e de cundî el boreto de sardele,
co’ una fiaba discreta.

I beveva quel vin
– de l’Istria el bon teran –
savorando el destin
co’ la fiaba, lontan.

Rare volte ho provato emozioni tanto intense nel leggere una poesia. In essa un frammento prezioso della sua anima di poeta e della sua vita, della sua fanciullezza, di quel momento dell’esistenza in cui immagini e parole s’imprimono indelebilmente nel nostro cuore e nella nostra memoria. Lei è poeta e sa far rivivere tutto questo mondo sepolto, questa miniera di pietre preziose, di dolori e di nostalgie brucianti che ci portiamo dentro.
Poi la figura della Nonna, di cui lei mi ha parlato, di cui ricordo il ritratto, figura che grandeggia nella sua vita e nella sua opera, dalle prime liriche fino alle ultime da me lette:

Nona camina camina camina…
La stra xe longa, ma xe sempre quela:
In fondo xe ‘na casa piciulina,
Dentro me speta ‘l cuor de nona bela..
.

Chi mi darà le ali candide necessarie a restituire tanta bellezza e profondità, tanto mistero e tanta verità – la vita stessa colta nella sua essenza – ai miei allievi? Scrivere di Biagio Marin è scrivere del mare e del cielo, del segreto stesso della vita e della natura, del mistero divino che la anima. Le mani e il cuore tremano.E’ così.
Ho voluto parlare col Lei, oggi, non solo per rispondere alla sua ultima lettera, ma anche perché il farlo mi aiuta e mi dà coraggio. Del resto, le mie letture nascono, sono nate da un amore profondissimo per la sua opera di poeta. Di là dalla mia capacità di comprensione o di scrittura. Quel poco che riesco o riuscirò a fare, vuole essere sostanzialmente, un “atto d’amore” verso Biagio Marin. Per questa ragione dovrebbe essere adeguato a tanto poeta. Dovrebbe…
Quando verrò a Grado, in ottobre, credo, vorrei riuscire a dirLe che la sua stima e i suoi suggerimenti preziosi, il suo affetto e le ore da Lei dedicate a me e ai miei allievi hanno fruttificato. Che Lei non ha speso il suo tempo inutilmente. Comunque venire a Grado sarà per me fonte di grande gioia.
Per adesso le mando un affettuosissimo saluto. Tante care cose anche alle sue figlie e alla signora Carmela a cui la Prego di ricordarmi.
Caramente

Anna De Simone

 

Grado, 24 agosto 1983

Cara Anna,

ho avuto questa mattina la tua del 19 di questo mese e te ne ringrazio. Direi così, è semplicemente un cavarsela di fronte alla propria impotenza di dire quello che si dovrebbe o che almeno si vorrebbe poter dire. Nella mia vita le lettere che ho ricevuto, sono state tante e alcune molto belle e in qualche modo anche decisive per la mia vita. Ma vedi allora ero ancora un uomo con tutte le sue forze di difesa e di riduzione della vita a un’armonia che non turbasse sostanzialmente l’anima mia. Ora sono tanto vecchio e perciò tanto debole di fronte a una semplice ventata di vita. Che cosa dire poi di una venuta a me di una creatura a tutta fiamma e capace quindi di resuscitare i morti e a me tra essi? Tu non puoi immaginare come mi turbi questo fenomeno di essere richiamato alla vita essendo in realtà già estinto già un lontano lontano che della vita non ha più nozione. E tu vieni e non vieni con parole sia pur alate, ma con tutta te stessa e anzi con una persona cui non posso dare dimensioni, cui non posso dare un nome e che mi invade tutto e circola in me come una grande fiumana, anzi come una grande marea.

Certamente tu non puoi avere consapevolezza di quello che mi fai di quello che mi sei; né io posso darti un nome e non posso neanche afferrarti e non so che viso tu abbia e da dove tu venga e che lingua tu parli. Tutto avviene nell’atmosfera del miracolo. Ed ecco che io vivo ormai sul margine della dissoluzione assoluta avverto la meraviglia della creatura viva della creatura che è morbida e ha il profumo del fiore di magnolia e dice parole che mi meravigliano e mi ridanno la vita e mi rivelano una nuova atmosfera vitale. Tu dici che è la poesia che fa così a te e a me. E in realtà ci fonde e confonde. E a me viene il bisogno di dirti: creatura mia, da dove sei venuta e chi ti ha portata a me e cosa potrò darti io in compenso della tua tanta grazia?
Vedi, una disperazione grande mi prende e ho voglia di piangere nell’avvertire la mia nullità, la mia impotenza a semplicemente dirti adeguatamente grazie. In che linguaggio potrei dirtelo?
Per quale strada potrai arrivare alla meta? E quanto tempo ti ci vorrà e quanto patimento per giungere alla pace?
Io non sarò più presente; il mio enfisema giorno per giorno mi riduce e vuole che io rinunci a ogni vita possibile. E proprio in questo momento di mia grande agonia, tu vieni con tanto giubilo di canto, con tanta luce di giornata nuova. Dimmi tu come posso riceverti, come posso dirti che mi doni ancora la vita, che si leva ancora il sole in ogni tua parola perché anche la morte difficilmente resiste all’amore.
Per quale mistero la mia parola è diventata in te fatto di vita e sole che splende a gioia di tutta la terra?
Non so come col continuare a leggere le mie tante poesie, potrai ridurle a una semplice sonata, come potrai ridurle ad una divina novella.
Non vorrei che tu ti ammalassi di quella poesia che tu dici mia e che io non so da dove e da chi sia venuta.
Come potrai dominare e ridurre a nota musicale e a parola dicevole il mistero di quella poesia che tanto ti prende, che tanto ti esalta, che tanto ti turba?
Tu ti rendi ben conto, che ciò che avviene in te non può lasciarmi indifferente, e non può essere per me mero spettacolo. Tu ti accendi tutta, sei tutta fiamma e anche la mia vecchia carcassa va in fiamme. Siamo chiamati a vivere e a patire un grande mistero; giustamente tu lo chiami della poesia.
Dicevo ora al mio amico Franco Lauto che sta battendo questa lettera, che ero mortificato del fatto che in tutta Grado non c’era un’anima che si rendesse conto del miracolo che è avvenuto nell’ambito della mia casa: l’accensione della grande fiamma della poesia. Quando verrai a ottobre, ti sarò grato se verrai senza scolari perché si possa dialogare tra maggiorenni.
Intanto ti auguro buon lavoro e soprattutto la forza necessaria per ridurre tanti miei versi alla tua amorosa persona.
Con tutta l’anima ti abbraccia il tuo

Biagio Marin

 

 

La mia fantasia turbinava fino a stancarmi. Irrompere nella coscienza di cose infinite e tutte meravigliose, e ognuna ti voleva tutto e ti ingombrava l’anima fino a sfinirti. Sofferenza acuta dell’essere preda di una continua violenza…
da Gorizia, Gita di Maggio, pag.28

 

4 settembre ’83

Caro Maestro,

Lei non lo sa ancora, ma in questi giorni io vivo nei giardini bellissimi che Lei mi ha regalato; uno, in particolare mi affascina: quello in cui tanti e tanti anni fa un bambino – o un bambino poeta? – nei suoi momenti di libertà imparava “ a distinguere le ore, e a capire cosa significasse mattino e ciò che fosse sera… e scoprì le perplessità vesperali e i cieli in cammino e anche la romba del fiume nella notte e il vario cantare degli uccelli…”.

Ecco, io qualche giorno fa sono entrata in questo magnifico giardino goriziano: ci sto tanto bene che non ne uscirei forse più. E mentre ripercorro con l’aiuto delle sue splendide prose su “Gorizia” la sua fanciullezza, i suoi anni di ginnasio, ho la sensazione indicibile – tanto è bella – di risalire alle sorgenti di un grande maestoso fiume, quello di un’esistenza tutta immersa nella poesia, fin dai primi chiarori azzurrini dell’alba. Mi sembra di essere – e me lo sono annotato – alle sorgenti del Danubio, in quella cittadina della Foresta nera., Donaueschingen, in cui esse ci compaiono davanti all’improvviso. seminascoste in un grande parco. E noi le conserviamo, anzi le contempliamo assorti, con stupore e con venerazione: perché sappiamo che proprio di lì, da quella fonte nasce la dirompente impetuosa vena azzurra destinata a percorrere tanti paesi dell’Europa. E non si arresterà finché non avrà trovato il mare: sua meta e sua pace. Ecco, guidata da Lei, dalle sue prose, dalle sue liriche, io mi trovo in una disposizione di spirito di questo tipo. E più leggo, più leggerei, e più difficile, complesso, appassionante diventa il mio tentativo di ripercorrere il cammino del grande “fiume” della sua “grande avventura“.
La sua ultima lettera, dono del cielo, è di una profondità sconvolgente e mi dà forza e coraggio e voglia di fare. Vorrei essere Claudio Magris o Carlo Bo insieme per ripagarla con parole degne della sua grandezza, di tanta stima, di tanto affetto,di tanta poetica, musicale disposizione a comprendere la mia anima.
Non lo sono, purtroppo. E soffro della mia limitatezza che mi impedisce e mi impedirà di restituire sulla carta la figura e l’opera di Biagio Marin così come le sento io dentro di me e come le vivo quotidianamente. Ma Lei mi aiuta tanto, con la sua poesia, fin dal primo in cui ho letto El basigò de mama, e mi aiuta con le sue prose e con le lettere meravigliose che mi regala e che mi portano tanta gioia, tanti colori, tanta festa spirituale.
Sono cibo che mi dà luce e entusiasmo. Ma Lei non deve abbattersi, non lo faccia: le sue parole, il suo pensiero, il suo affetto sono vita ricca e piena che Lei trasmette a che è più giovane d’anni ma tanto più debole e fragile e povero dentro. Questo colloquio epistolare corre parallelo al colloquio che io ho intrecciato da tempo con la sua opera e che ora cercherò di tradurre pienamente in parole per i miei allievi-lettori innamorati della poesia di Biagio Marin. Tutte le sue opere dovrebbero essere pubblicate in un’edizione critica degna di Lei: le Prose, gli articoli, i saggi e, naturalmente, le poesie. Intanto lasci che Le dica che certi suoi ricordi goriziani (1990-1909?) sono struggenti e ci restituiscono intatti gli incantesimi della fanciullezza. Io vedo ancora un bambino piccolo e semiaddormentato in una camerata di collegio, sento con lui, ai primi chiarori dell’alba, il “chiocciolío” dei merli e poi lo seguo con lo sguardo mentre salta dal suo letto al davanzale…; fuori, la via Ponte Isonzo: “una via da fiaba che fluiva verso il fiume…”.
Lei prende mano il lettore che voglia conoscere momenti e luoghi della sua vita, e lo conduce nel suo mondo incantato. Povertà, stanzìni grigi, minestre riscaldate, tutto scompare nella luce degli occhi di quel bambino che guardava il mondo con stupore: “Meraviglia dei miei risvegli di bimbo nella camerata di via Ponte Isonzo!”. E quella “meraviglia” io l’ho ritrovata nelle sue liriche, dalle più antiche fino alle ultime, cristalli trasparenti e immateriali.
Adesso scrivo alla biblioteca di Trieste per chiedere le fotocopie di alcuni suoi articoli sui tempi di Pisino d’Istria, dove Lei frequentò, mi pare, gli ultimi tre anni del liceo. Quegli anni devono rivivere solo attraverso i suoi ricordi, le sue parole. Non contano tanto i dati biografici in sé e per sé, quanto il loro calarsi e perdersi in Lei, nella sua opera tutta. E dopo cercherò di sapere qualcosa di più su Firenze e su Vienna.
Ma intanto verrò a Grado, certamente sola… e studierò qualche ora in biblioteca, ma soprattutto spero di poter parlare ancora con Lei. Si riguardi, caro Maestro, la sua presenza nel mondo è un dono divino di cui Lei non ci deve privare. Anche l’affetto profondo di chi legge e ama le sue poesie. La deve sostenere e aiutare: Lei ha tanto ancora da dare e insegnare e da trasmettere: la sua è una fiamma viva che nessuno potrà mai spegnere…
Per adesso la saluto con grandissimo affetto e con devota ammirazione.
A presto.

Anna De Simone

 

 

Grado, 24 settembre 1983

Cara Anna,

per un uomo della mia età, che ha fatto tanta strada avendo così rari e così pochi riconoscimenti le tue parole così pregne e della tua anima e del tuo sangue, naturalmente non solo mi sorprendono ma mi sbalordiscono, ma mi incantano.
E non basta: tu puoi ben immaginare quanto dubbio sulla mia realtà debba sollevare la tua appassionata, amorosa parola.
Se tu ti ingannassi, anche la mia anima sarebbe inesorabilmente perduta: e per questa ragione mi avviene di prendere la tua testina fra le mani e dirti: Anna, misura la tua parola, non lasciarti portar via dalla gioia che ti dà la poesia quasi liberandoti di un involucro che ti ha serrato per tanti anni senza che tu potessi in realtà rivelarti tutta al sole di Dio, e alla gioia della luce. Il dramma che tu vivi, naturalmente lo patisco anch’io e non credere che io mi possa abbandonare perché sono troppo vecchio e so troppe cose e soprattutto so di essere un dappoco, un assai piccolo poeta. Credo di averti già detto che nessun poeta può ritenere di essere lui il facitore delle poesie che scrive; e l’uomo che dimenticasse la parola di Omero, di Platone, la parola dello stesso Dante che attribuivano agli dei l’origine della poesia, sarebbe uno stolto.
Quando tu ti esalti nella lettura dei versi che portano il mio nome, in realtà tu ti esalti dello spirito di Dio. Non sono io che posso fare di te una creatura in volo verso il sole, verso il cielo, verso una specie di paradiso. E tu fai bene a volare; ma non puoi e non devi attribuire a me la realtà di quel tuo volo. Tu, come me, devi ringraziare lo Spirito Santo, lo Spirito Creatore che ti pervade e ti rende tutta armoniosa e sonora e ti fa cantare e volare.
Così stando le cose, tu capisci che io devo tremare per le responsabilità che tu mi addossi dicendomi che sono io a metterti in quello stato. Devi assolutamente aprire gli occhi e distinguere me dalla realtà di poesia che ti commuove.
Certo, tu sei la prova, la più grande che io conosca, che la poesia può trasmutare una creatura.
E devo anche dirti che rappresenti per me una grande tentazione, della mia gratitudine per la tua opera.
Si potrebbe considerarla una semplice operazione filologica; mentre è una profonda azione d’amore. E nessun figliolo vivo potrebbe equivalere a questo dono meraviglioso che tu vuoi costruire e quasi infuturare con la tua opera.
Ho tanta paura che quanto c’è di misterioso in me o meglio nella mia poesia possa farti ammalare. Certo è che la vita quella più alta conosce anche il pericolo delle precipitazioni. E io tremo per te per l’anima tua per la tua salute.
Mi rendo chiaro conto del significato sacrificale del tuo impegno e perciò ne sono turbato e non so dove trovare una parola che possa sostenerti.
Si tratta effettivamente della più grande avventura della tua vita; e io ti auguro e io mi auguro che tu possa salvare assieme alla mia poesia l’anima tua.
Mi rendo conto che la strada sarà molto lunga. La lettura di tutte le mie poesie (oltre le quasi tremila già pubblicate ce ne sono qui un altro migliaio), la lettura delle mie prose e poi delle lettere che ho dettato in questi ultimi anni implica un lungo paziente lavoro e una devozione che potrà pesarti troppo.
Vedi, tu hai suscitato in me questa fede questo bisogno questo amore e adesso che sono appena in partenza già ho delle vertigini. E mi dico: creatura mia, dove andrai a prendere la tanta vita necessaria, tu così piccola e minuta, che è necessaria per costruire l’edificio che ti proponi?
Ti faccio quindi e mi faccio contemporaneamente i migliori auguri perché lo Spirito Santo ti assista e ti possa veramente portare alla fine del tuo voto.
Con tanto affetto ti abbraccio e ti dico grazie. […]

Biagio Marin

 
da Lasciami il sogno
Anna De Simone e Biagio Marin
Carteggio (1982-1985)

 

” Dal dolor me xe nati ‘sti cristali “

 

[…] Quanto amore, Claudio, nella mia vita! Amore prima di tutto per il mondo in cui sono nato e cresciuto, amore per le lontananze che costituivano gli orizzonti sereni della mia isola; amore per il sole e gli stellati; amore per quel mare melodioso e fresco che bacia con tanta soavità le spiagge e i dossi intorno alla mia isola; amore per la terra ferma al di là delle acque, la terra ferma dalle tante strade e tutta verde e calda e carnale. Amore mai saziato per le donne che la vita mi ha donate; amore per gli amici con i quali ho potuto comunicare e dialogare; amore per il pensare limpido, creativo; amore per il cantare sapientemente modulato. Amore di verità, amore di bellezza. E tutta la vita mia è stata in questo senso un’orgia di bene. Non so come mai, ma sono vissuto in uno stato di continua ebbrietà. Forse anche perché bastava un oro serotino di sole su una casa per incantarmi; o un profumo di calicanto sotto Natale, per portarmi via; o un flautare di merlo a primavera, per rendermi beato. Tutte le altre cose della vita, quelle che sono serie, che contano, per me erano sempre marginali, secondarie, anche quando mi battevo e ricevevo colpi e pagavo la mia inconsistenza con il dolore.
Anche il dolore ha fatto parte del mio bene. Ora la vita volge alla fine, e anche questo suo crepuscolo è meraviglioso. Non so come sia, ma questa vita ha ancora sapore di sole, e penso che chiuderò gli occhi piangendo di tenerezza e benedicendola tutta. Come ciò sia avvenuto, mentre da tante parti mi si è predicato il dolore, la vanità, la tragedia, la desolazione della vita, e io stesso via via ho sofferto questi stati d’animo, io non lo so. Penso che ognuno di noi ha una sua economia vitale, un suo modo di transustanziare la vita e che non possa uscire dalla propria legge. Chi è nato musico, riduce tutta la vita in suoni; e il pittore in altri suoni e il poeta inin altri ancora. E chi è nato filosofo traduce la vita in concetti. E c’è chi costruisce navi, e chi case, e chi strade, e chi soltanto versi. Meravigliosa sorgente di bene è la vita per chi è vivo. Ché la premes sa è che si sia vivi. Ogni cibo diventa sangue buono, vivo creatore in un uomo sano. Ciò che conta è la forza di assimilazione. Mio assai caro figliolo e amico, questa mia tiritera ti scandolezzerà, ma che devo fare se non dar voce al demone che oggi canta in me in questo modo? Socrate avrebbe detto che coribanteggio… E tu perdona a questo tuo vecchio amico, questa sua incapacità di essere assennato e saggio. […]
 

da Ti devo tanto di ciò che sono
Claudio Magris
Carteggio Magris-Biagio Marin

 

 

 

 

 

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ph. Dennis Stock