Poeta a Poeta: Saffo, Quasimodo, Doolittle

 

Ad Afrodite
Afrodite, trono adorno, immortale,
figlia di Zeus, che le reti intessi, ti prego:
l’animo non piegarmi, o signora,
con tormenti e affanni.
Vieni qui: come altre volte,
udendo la mia voce di lontano,
mi esaudisti; e lasciata la casa d’oro
del padre venisti,
aggiogato il carro. Belli e veloci
passeri ti conducevano, intorno alla terra nera,
con battito fitto di ali, dal cielo
attraverso l’aere.
E presto giunsero. Tu, beata,
sorridevi nel tuo volto immortale
e mi chiedevi del mio nuovo soffrire: perché
di nuovo ti invocavo:
cosa mai desideravo che avvenisse
al mio animo folle. “Chi di nuovo devo persuadere
a rispondere al tuo amore? Chi è ingiusto
verso te, Saffo?
Se ora fugge, presto ti inseguirà:
se non accetta doni, te ne offrirà:
se non ti ama, subito ti amerà
pur se non vuole.”
Vieni da me anche ora: liberami dagli affanni
angosciosi: colma tutti i desideri
dell’animo mio; e proprio tu
sii la mia alleata.

 

 

La saggia Saffo
 

“Pochi fiori ma tutti di rosa”: ecco il verdetto del poeta alessandrino, dal quale, però, sarei portata a dissentire. Non le vorrei offrire delle rose, e neanche la grossa asta del giglio scarlatto. Le offrirei fiori di arancio: fioritura implacabile fatta per sedurre i sensi, quando ogni altro mezzo è fallito; pugnale che brilla, acciaio affilato di fresco: dopo il cuore scarlatto, anche i gigli rossi, le rose appassionate sono morte.
‘Pochi, ma tutti di rosa”… Ci sono, è vero (invariabilmente), tracce di colore intenso: viole, una trama di porpora nel tessuto, abiti scarlatti, la fibbia iridescente di un sandalo, il giacinto livido, pesto, marcito, chiazze su stoffa e carne e pergamena.
C’è anche dell’oro. Era una rosa d’oro che intendeva il poeta? Ma l’oro della testa di una bambina, l’oro dell’orlo ricamato di un indumento, l’oro raro di pranzo d’alga o di legumi non sembra evocare nella nostra mente la visione di rose, pesanti, in un giardino profumato.
‘Pochi, ma tutti di rosa”. Anche se sono profonde le chiazze sui cuscini rossi e scarlatti, sul mantello fiammeggiante dell’amore, penso che non è il caldo che cerchiamo in queste poesie, caldo di fuoco o di sole. Non è il calore nel senso comune della parola, diffuse e confortevoli (e neanche la luce, di giorno, di alba, o di tramonto), ma un altro elemento che tutti li contiene, magnetico e vibrante; non è il fulmine che cade dalle nubi tempestose, eppure, in un certo senso, è fulmine, elemento bianco, inumano, con dentro fuoco e luce e calore, ma essenzialmente diverso da tutte queste cose, come se la fragile mezzaluna ci desse calore o una splendida stella scintillante ci si riscaldasse all’improvviso nella mano come un gioiello inviatoci dall’essere amato.
Immagino le parole di Saffo come questi colori, o stati, piuttosto, che trascendono il colore pur contenendo ogni colore (come il colore bianco include l’intero spettro). E forse la più ovvia è questa tinta rosa che trascolora nelle sfumature più intense dello scarlatto, della porpora o della porpora fenicia. Per l’amante superficiale… certo…rose.
Eppure non tutte rose… anzi, niente affatto rose. E neanche i fiori di arancio, ma, leggendo più in profondità, siamo inclini a visualizzare quelle frasi spezzate e quei ritmi incompiuti come rocce… banchi perfetti di rocce e strati di roccia tra i quali possono sbocciare per caso dei fiori, ma che resistono dopo che i fiori più impavidi sono periti.
Niente affatto dei fiori, ma un’isola con innumerevoli, minuscole baie irregolari e fiordi e piccoli stretti tra i quali il sole si posa chiaro (frammenti staccati da uno specchio perfetto di lucido argento iridescente o di un bronzo che riflette le tinte più intense) o si infrange, onda su onda di rompente passioni.
Non rose, ma un’isola, un paese, un continente, un pianeta, un mondo di emozioni, completamente diverso da qualunque mondo di emozione immaginabile oggi; un mondo di emozione che avrebbero potuto immaginare solo i più grandi dei suoi connazionali, al tempo del più alto splendore della sua civiltà. Ma anche loro la riconoscevano al di là della loro portata, del loro canto: non una donna, e nemmeno una dea, ma un canto, o lo spirito di un canto.
Un canto, uno spirito, una stella bianca che si muove attraverso il cielo per segnare la fine di un’epoca del mondo o per annunciare l’avvento di una gloria.
Eppure, ella è incarnata; un essere terribilmente umano, una donna […]

 

Le stelle intorno alla luna bella/ nascondono di nuovo l’aspetto luminoso/ quando essa, di più risplende/ sulla terra…

 

Il labbro inferiore si sporge nel volto bianco, strizza gli occhi (un po’ irregolari). Le sopracciglia rompono la linea perfetta della fronte bianca, l’espressione non è esattamente severa (né spenta): la scintilla dello scherzo sotto le palpebre semichiuse è piuttosto ironia, dirompente e viva. […]
Aristocratica… Indifferente… piena di capricci… di imperfezioni… Intollerante. […]
La sua amarezza è, tutto sommato, l’amarezza dei sudori di Eros. Se avesse smaniato per distruggere, avrebbe usato il suo terso talento per distruggere con lingua di serpente convenzioni e pregiudizi, prima ancora della grande età ateniese.[…]
Sporge un poco il labbro inferiore, strizza gli occhi, fa uno smorfia esagerata mentre cerca la frase più pregnante; questa ragazza che ti ammalia, amica mia, non sa nemmeno drappeggiarsi la gonna intorno ai piedi.
Scherno sofisticato, ironico, amaro. Né le mani, né i piedi, né i capelli, né i lineamenti somigliano in un alcun modo a quelli di una contadina cresciuta nei boschi; e nemmeno i vestiti sono informi o tagliati male, ma i suoi modi, i suoi gesti, sono netti: le frecciate più taglienti e devastanti che una donna sensibile possa lanciare contro la favorita di un’altra donna, sensibile, elevata ed indipendente come lei.
E’ vero, gli dei – Afrodite, Ermes, Ares, Efesto, Adone…, le Grazie, lo stesso Zeus… sono tutti menzionati più e più volte in queste poesie, ma alla fin fine è per le sue battute strane, quasi petulanti, che apprezziamo questa donna; è per il suo grido di gonne e di caviglie contro questa o quella ragazza qualunque; un grido che potremmo considerare inutile e meschino, ma quale pensiamo con piacere; o forse sono le uscite conto le sue compagne più intime ad avvicinarla alla nostra età super raffinata e nevrotica: “La.gente che aiuto di più, è quella più ingrata”.. “Oh, mi hai dimenticata!”. oppure “Tu ami qualcuno più di me”, “Nom sei niente per me”, tirate nervose, banali. Oppure, in uno stato d’animo addolcito, pronuncia una frase semplice come questa “Io canto” … non per compiacere un dio, una dea, una fede o una sacerdotessa… non canto neanche in uno stato di contemplazione astratta, rapita, lontana dalla vita, per il mio piacere ma (dice questa donna meraviglia e cordiale} “Io canto, e lo faccio in modo così bello, per far piacere i miei amici… alle mie amiche”.

 

E non vi era danza/ né sacra festa…/ da cui noi fossimo assenti/ né bosco sacro…

 

Non c’è rimasto alcun preciso ritratto, tracciato dalle sue mani, di questi giovani donne di Mitilene. Sono lasciate alla nostra immaginazione, anche se solo il cuore più ardente, lo spirito più intenso e l’intelletto più attento e sottile possono sperare, sia pure nei momenti di più esaltata immaginazione, di ricostruire questi distici incompleti. Leggiamo solo questo: “Mia carissima” o ancora “Tu mi bruci” … Parla della luce diffusa su un bel volto, di un indumento avvolto interno a un bel corpo; chiama per nome due di questi giovani donne, lodandole una più dell’altra […]

 

…simile a una dea, che ben si distingue,/ ti (considerava), e godeva molto del tuo canto./ Tra le donne lidie, ora,/ ella spicca, come la luna dita di rosa/ quando il sole è tramontato/ vince tutte le stelle. E la luce si posa/ sul mare salato/ e sui campi pieni di fiori;/ e la rugiada bella è sparsa:/ son germogliate le rose e i cerfogli/ teneri e il meliloto fiorito./ Aggirandosi spesso, e ricordando/ la bella Attis, ella opprime/ per il desiderio l’animo sottile./ E andare li…

 

Un’altra fanciulla ella loda, ma non per la bellezza. Stanno in mezzo ad alti gigli screziati, a coppie di giacinti e iris di Lesbo, ma ella ne magnifica la saggezza oltre Cipro i piedi di Eros. “Ah”, dice di questa fanciulla, amata per una bellezza diversa dalla perfezione della vita e della gola, del casco di capelli strettamente raccolti e delle sopracciglia armoniose: “Io credo che non ci sia e mai potrà esserci sotto il sole fanciulla più saggia di te”.
Saggezza… Questo è tutto ciò che sappiamo di questa ragazza: pur stando nella luce pesante del sole greco-asiatico, il vento che spirava dall’Asia, greve di ardente mirra e di spezie persiane, era però temperata da una brezza occidentale, che portava nella sua forza e nel suo mordente salino, l’immagine di un’altra, soverchiante, con gli occhi ombreggiati dall’orlo dell’elmo, la dea, l’indomita. Questa è la sua forza… Saffo di Mitilene era greca. E con tutte le sue estasi, le accensioni, la profusione asiatica di colore e il grido verso quella divinità fenicia (“Adone Adone”), le sue frasi così semplici, (che però nelle mani di chiunque altro avrebbero rischiato un eccesso di passionalità) i suoi tocchi di realismo orientale, i “teli purpurei” e i “soffici cuscini” sono temperati, moderati da una perizia mai sorpassata in letteratura. La bellezza di Afrodite, è vero, è il tema costante, reiterato, del suo canto. Ma un tardo scoliaste, che sapeva di lei più di quanto noi possiamo sperare di apprendere da questi brevi frammenti, la definisce “la saggia Saffo”.
Non abbiamo bisogno della testimonianza di nessuno scoliaste alessandrino o tardo romano per convincerci della sapienza artistica, della precisione scientifica del metro e della notazione musicale, dell’intelletto finemente temperato di questa donna. Eppure, al di là della sua moderazione artistica, qual è la qualità personale, emotiva, della sua saggezza? Questa donna che era paralizzata dall’amore fino al punto da sentirsi un cadavere, eppure bruciava, come l’erba del deserto è bruciata e sbiancata dal calore del deserto; questa donna che tremava e si sentiva male e sudava alla sola presenza di un altro, dinuna persona di fascino e di grazia, ma prima forse di doti straordinarie di mente o di aspetto… era moderata, era saggia? Circa duemila anni più tardi, Savonarola, ergendosi nel cortile dei Medici di fronte ala gioventù laica e al clero di Firenze, la proclamò apertamente… un demonio.
Se la moderazione è saggezza, se la costanza in amore è saggezza, era saggia Saffo? […]
La saggio Saffo! Era saggia, emotivamente saggia, dotata, pensiamo, della saggezza della semplicità, della cecità del genio.

 

Quale dolce mela che su alto/ ramo rosseggia, alta sul più/ alto; la dimenticarono i coglitori;/ no, non fu dimenticata: invano/ tentarono raggiungerla……

 

Dal semplice gesto di una ragazzina goffa, costruiva un essere, una compagna, un’eguale. Per un momento – mentre, per mantenersi in equilibrio, un uccello bianco si aggrappava con la rugosa zampa rosa al’avorio troppo liscio del polso di quella stessa Attide – immaginava che Attide avesse una mente, che anzi fosse una dea. E poiché il sole creava per un istante un circoletto di capelli di uno strano colore rugginoso, ecco che vedeva Afrodite, in tutta la sua fragranza, coronata di viole, o meglio ancora, una sorella, una musa, una viola in un serto. Poiché le spalle della ragazza apparivano un po’ troppo esili, troppo fragili per sostenere le vesti, che si trascinavano un po’ appesantite dalla fibbia d’oro, immaginava che quelle fossero le spalle di un essere, di uno spirito, quasi disincarnato. E come nei suoi versi scolpiva frasi immortali ricavandoli dal comune dialetto eolico, così costruiva una totalità intatta e perfetta, la perfezione stessa, lo spirito immortale di una dea, di una musa o di un essere sacro, partendo dalla semplice grazia di una spilungona, non ancora completamente sviluppata. I cieli stessi si aprono, sono stati aperti, da queste dita leggere che arruffavano la peluria della gola di una colomba. Poi la saggia Saffo si lamenta forte contro Eros, quella crudele, crudelissima creatura, che ancora una volta la tradita. “Ah, Attide, non sopporti neanche di pensare a me… te ne sei andata da Andromeda”. […]

 

Vorrei veramente essere morta./ Essa lasciandomi piangendo forte,/ mi disse: ” Quanto ci è dato soffrire,/ o Saffo: contro mia voglia/ io devo abbandonarti.”/ “Allontanati felice” risposi/ “ma ricorda che fui di te/ sempre amorosa./ Ma se tu dimenticherai/ (e tu dimentichi) io voglio ricordare/ i nostri celesti patimenti:/ le molte ghirlande di viole e rose/ che a me vicina, sul grembo/ intrecciasti col timo;/ i vezzi di leggiadre corolle/ che mi chiudesti intorno/ al delicato collo;/ e l’olio da re, forte di fiori,/ che la tua mano lisciava/ sulla lucida pelle;/ e i molli letti/ dove alle tenere fanciulle ioniche/ nasceva amore della tua bellezza./ Non un canto di coro,/ né sacro, né inno nuziale/ si levava senza le nostre voci;/ e non il bosco dove a primavera/ il suono……

 

C’è un’altra ragazza, una bambina: il suo nome è Cleide. Si racconta che la madre di Saffo si chiamava Cleide. Si dice che Saffo avesse una figlia alla quale diede il nome Cleide.
Cleide era dorata: certamente Cleide era perfetta. Era una bambina bellissima, esattamente somigliante un fiore giallo (così ci dice la madre). Era così straordinariamente bella che nell’intera Lidia non c’era nulla di altrettanto dolce, altrettanto odoroso;; grandezza, ricchezza, potere, nulla in tutta la Lidia da scambi da scambiare con Cleide.
Così sappiamo che nel mondo degli umani, c’era una Cleide. La vedo mentre raccoglie conchiglie, purpuree e orlate di rosa, screziate qua e là dei colori dello zafferano; ammucchia conchiglie delle acque adriatiche in una piccola conca dipinta, le getta sulla spiaggia e le raccoglie di nuovo, per poi sparpagliarle ancora una volta sulla sabbia. Abbiamo visto un’Attide di tanto tempo fa, Andromeda “dalla bella ricompensa, Mnasidica, provocante per le lunghe membra troppo formose; Girino, amata per qualche suo gesto accattivante o timbro particolare della voce, o destrezza delle dita, anche se carente nella qualità più basilari e comuni della bellezza; Irana le cui labbra si incurvavano sprezzanti sui denti lievemente irregolari, anche se bianchi e perfetti; l’imbronciata Irana che si isolava da tutte le altre e intrecciava viole bianche per poi fissarle nelle treccioline di lisci capelli che si disponeva attorno alla testa con precisione inflessibile e ordine maniacale. Sappiamo di Gorgo, sempre chiassosa, eccessiva, di una dolcezza particolarmente inebriante, ma sfibrante: una ragazza che metteva a dura prova la pazienza; non una compagna; con le curve già pronunciate che facevano presagire lo sviluppo precoce di una pesante femminilità.
Ci sono queste e altre nel mondo delle mortali. […}

 

Tramontata è la luna/ e le Peiadi a mezzo della notte;/ anche la giovinezza già dilegua,/ e ora nel mio letto resto sola./ Scuote l’anima mia Eros,/ come vento sul monte/ che irrompe entro le querce;/ e scioglie le membra e le agita,/ dolce amara indomabile belva/ Ma a me non ape, non miele;/ e soffro e desidero.

 

“Pochi fiori – ma no, non pochi – e tutti, tutti, di rosa”! Così, alla fine dobbiamo accettare per forza lo spesso citato tributo di Meleagro, poeta tardoalessandrino, per metà ebreo, per metà greco. “Pochi fiori, ma tutti di rosa”! È vero, Saffo è diventata per noi un nome, un’astrazione e anche uno pseudonimo per un sentimento umano straziante: ella è in verità rocce incastonate in un mare blu, è il mare stesso, che si frange, che tortura e si tortura, ma non si infrange mai. È l’isola della perfezione artistica, dove l’amante della bellezza antica (naufragata nel mondo moderno) può ancora trovare un punto d’appoggio per riprendere fiato e raccogliere il coraggio per nuove avventure e sognare altri continenti e universi inesplorati di futuri successi artistici. E la saggia Saffo.
Platone […] parla di questa donna come di una dei saggi.
Tu eri la stella del mattino tra i viventi (così il giovane Platone scrisse di un amico perduto), eri la stella del mattino, prima di morire; adesso sei “come Espero, che dà ai morti nuovo splendore”. Anche se la Repubblica non sembrava altro che un tomo ponderso e i misteri dei Dialoghi spesso sconfinano nel didattico e nell’artificioso, Platone vive come un poeta, un innamorato. Così deve vivere Saffo: rose, ma molte rose, perché la tradizione ha deposto fiore su fiore attorno al suo nome e continuerebbe a farlo anche se i suoi versi si fossero perduti tutti fino all’ultimo.
Forse a Meleagro, che aveva accesso agli innumerevoli volumi di Alessandria, sembrava che fossero solo pochi. Ma a noi, in un’epoca tetra e più arida, sembrano molti. Le leggende si sono alimentate l’una dall’altra, aggiungendo documenti singolari ad ogni prezioso frammento; la storia della preservazione di ciascun verso è di per sé un romanzo quanto mai affascinante e stupefacente.
Cortigiane e donne alla moda sono stati accusate una volta di non conoscere “neanche le opere di Saffo”. Di fronte a un distico inimitabile, Sofocle esclamò avvilito “Oh Dei! Quale cuore appassionato, quale desiderio ardente produsse questo ritmo?” Un imperatore romano, stanco della vita, lasciò la sua coppa inghirlandata dicendo “Vale ancora la pena di vivere per ascoltare un altro canto di questa donna”. Catullo, lirico appassionato, smise di ripetere le imperfezioni della sua Lesbia per entrare in un mondo paradisiaco, modellare un latino argentino sul greco imperituro, stupirsi per le lodi di quest’amante perfetta che non aveva bisogno di un intervallo di odio per riappropiarsi dell’’amata. Monaci ed eruditi, grigi reclusi di Bisanzio o dei monasteri romanici omedievali si accendevano a una nuova vita di passione intellettuale alla scoperta di qualche fatale reliquia finché il Vaticano stesso ne fu turbato e giudicò questa donna una degna rivale delle seduzioni di un altro Poeta e distrusse i suoi versi.
Le rose che a Meleagro sembravano poche hanno acquistato un grande potere nella storia non solo della letteratura ma anche delle nazioni (della Grecia, di Roma, dei comuni medievali e della città toscane); rose, ma molte, molte rose: ciascun frammento una testimonianza dell’amore di qualche erudito o di qualche antichista febbrilmente teso a cercare un minuto, prezioso frammento di palinsesto, tra gli splendori funerari dei Faraoni sepolti sotto la sabbia.

 

Ermes, io lungamente ti ho invocato./ In me è solitudine: tu aiutami,/ despota, ché morte da sé non viene;/… nulla m’alletta tanto che consoli./ Io voglio morire:/ voglio vedere la riva d’Acheronte/fiorita di loto fresca di rugiada.

 
da Visioni e proiezioni
H.D. [Hilda Doolittle]

 
Poesie di Saffo tradotte da Salvatore Quasimodo

 

 

 

 
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* in copertina La Vittoria
di Adoldo Wildt

** Sculture di

Antonio Canova
Pietro Tenerani
Giulio Tadolini
Denis Foyatier
James Pradier