I vagabondi – Olga Tokarczuk

 

…Le linee dritte sono così umilianti da distruggere la mente. Una perfida geometria che ci trasforma in idioti – avanti e indietro, una parodia del viaggio. Partire per poi tornare. Accelerare per poi frenare subito.

 

 

I Capezzoli della terra
 

Quei giovani – una ragazza al massimo di diciannove anni, studentessa di letteratura scandinava, e il suo ragazzo, un biondino minuto con i dreadlocks – insistevano che sarebbero andati da Reykjavík a Ísafjörður in autostop. Era una cosa assolutamente sconsigliata per due motivi: per prima cosa, soprattutto nei paesi del Nord, non c’è molto traffico, avrebbero potuto rimanere bloccati in qualche punto lungo la strada; in secondo luogo la temperatura sarebbe potuta precipitare da un momento all’altro. Ma quei giovani non ascoltarono gli avvertimenti. Che, come volevasi dimostrare, si realizzarono alla lettera: rimasero bloccati in una zona deserta dove li aveva scaricati l’ultima auto prima di imboccare la strada per qualche villaggio lontano, e non ne arrivò nessun’altra. Nel giro di un’ora il tempo cambiò radicalmente e cominciò a nevicare. Sempre più preoccupati, rimasero fermi su una strada che attraversava una pianura piena di pietre laviche, e si riscaldarono fumando sigarette sperando nel passaggio di qualche auto. Ma non ne passò nessuna. A quanto pareva, la gente quella sera aveva rinunciato al viaggio verso Ísafjörður.
Non c’era nulla per accendere un fuoco – solo muschio umido e freddo e qualche cespuglio su cui il fuoco non avrebbe attecchito. Si infilarono nei sacchi a pelo tra le pietre sul muschio e quando le nuvole piene di neve scomparvero e scoprirono un gelido cielo stellato, videro che le pietre laviche avevano assunto l’aspetto di visi e tutto cominciò a sussurrare, mormorare e frusciare. Scoprirono anche che bastava infilare la mano sotto il muschio, sotto le pietre, per toccare la terra – era calda. La mano percepiva vibrazioni distanti e delicate, come un movimento in lontananza, un respiro – non c’erano dubbi: la terra era viva.
Poi vennero a sapere da alcuni islandesi che non sarebbe potuto succedergli nulla di male: per le anime perse come loro la terra tira fuori i suoi capezzoli caldi. Bisogna solo succhiare con riconoscenza e bere il suo latte. Ha lo stesso gusto del latte di magnesia – quello che si vende nelle farmacie per l’iperacidità e il bruciore di stomaco.

 

Sono qui
 

Sono una bambina. Sto seduta sul davanzale circondata da giocattoli buttati sul pavimento, torri di cubi crollate, bambole con occhi sbarrati. La casa è in penombra, l’aria nelle stanze pian piano si raffredda e si fa sempre più buio. Qui non c’è più nessuno; sono usciti tutti, spariti, si sentono ancora le loro voci affievolirsi, lo strascichio dei loro piedi, l’eco dei passi e le risate in lontananza. Fuori dalla finestra i cortili sono vuoti. L’oscurità scende con dolcezza adagiandosi su tutto come rugiada nera.
La cosa peggiore è l’immobilità: densa e visibile nell’aria fredda del crepuscolo e nelle luci flebili delle lampade al sodio che, ad appena un metro di distanza, si insabbiano nel buio.
Non succede nulla, la marcia dell’oscurità si ferma davanti alla porta di casa, tutto il frastuono si placa e crea una pellicola spessa come quella sul latte che si raffredda. I contorni degli edifici sullo sfondo del cielo si estendono all’infinito, perdono lentamente gli angoli acuti, le sporgenze, gli spigoli. La luce che svanisce porta via l’aria, non ne rimane più da respirare. L’oscurità ora mi penetra nella pelle. Tutti i suoni si sono ritirati su se stessi, come gli occhi delle lumache; l’orchestra del mondo se n’è andata ed è svanita nel parco.
Quella sera ho scoperto per caso il limite del mondo, giocando, senza volerlo. E l’ho scoperto perché per un attimo mi hanno lasciato sola, incustodita. Naturalmente mi sono ritrovata in trappola, bloccata. Sono una bambina, sto seduta sul davanzale e guardo il cortile freddo. Le luci della mensa scolastica sono già spente, se ne sono andati tutti. Le lastre di cemento del cortile si sono impregnate di oscurità e sono scomparse. Le porte sono tutte chiuse, le serrande abbassate e le tende tirate. Vorrei uscire ma non saprei dove andare. Solo la mia presenza assume contorni netti che tremano e fluttuano, e mi fa male. In un attimo scopro la verità: non c’è più nulla da fare, io sono qui.

 

 

Ovunque e in nessun luogo
 

Ogni volta che parto per un viaggio scompaio dalle mappe. Nessuno sa dove sono. Al punto di partenza o al punto d’arrivo? Esiste un qualcosa che sta in mezzo? Sono come quel giorno perso quando si vola verso est e quella notte in più se si viaggia verso ovest? Riguarda anche me la legge, di cui va tanto orgogliosa la fisica quantistica, secondo la quale una particella può esistere contemporaneamente in due luoghi? O un’altra che ancora non conosciamo e che non è ancora stata dimostrata, secondo la quale si può doppiamente non esistere nello stesso posto?
Penso che siano in molti come me a essere spariti, scomparsi. Si manifestano all’improvviso nei terminal d’arrivo e cominciano a esistere quando i doganieri mettono il timbro sul loro passaporto o quando un receptionist educato di un hotel porge loro la chiave della stanza. Di sicuro hanno già scoperto la loro instabilità e dipendenza dai luoghi, dalle ore del giorno, dalla lingua, dalla città o dal clima. Fluidità, mobilità e illusione: questo vuol dire essere civilizzati. I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie.
Allo stesso modo la pensa la donna che mi offre del tè verde da un termos, mentre entrambi aspettiamo l’autobus che dalla stazione porta all’aeroporto; ha le mani decorate con l’henné, disegni complicati che di giorno in giorno sbiadiscono. Quando saliamo mi espone la sua teoria sul tempo. Dice che le popolazioni stanziali, agricole, preferiscono i piaceri del tempo circolare, nel quale ogni avvenimento deve tornare al proprio inizio, rannicchiarsi in un embrione e ripetere il processo di maturazione e morte. Invece i nomadi e i commercianti, quando si mettevano in cammino, dovevano inventarsi un altro tempo più adatto al viaggio. Si tratta di un tempo lineare, più pratico, una misura per raggiungere l’obiettivo e aumentare la percentuale. Ogni momento è diverso e non si ripete e ciò incrementa di molto il rischio, e ogni attimo è vissuto al massimo. Ma alla fine si fa un’amara scoperta: il cambiamento operato dal tempo è irreversibile, e la perdita e il lutto diventano un affare quotidiano. Per questo motivo dalle loro bocche non escono mai parole del tipo “inutile” ed “esaurito”.
“Sforzo inutile, conti esauriti,” dice quella donna ridendo e mette le mani dipinte dietro la testa. Dice inoltre che l’unico modo per sopravvivere in un tempo così allungato e lineare è mantenere la distanza, come una sorta di ballo il cui passo consiste nell’avvicinarsi e allontanarsi, un passo avanti e uno indietro, uno a sinistra e uno a destra – passi facili da ricordare. E più il mondo diventa grande, più aumenta la distanza e più si può ballare in quel modo – emigrare attraverso sette mari, due lingue e un’unica religione.
Eppure io ho un’altra visione del tempo. Il tempo di tutti i viaggiatori è l’insieme di molti tempi in un’unica, grande molteplicità. È il tempo dell’isola, arcipelago dell’ordine in un oceano di caos; è il tempo generato dagli orologi delle stazioni, diversi ovunque. È il tempo convenzionale, quello medio che quindi nessuno deve prendere troppo sul serio. Le ore scompaiono in un aereo che vola, l’alba arriva veloce con il pomeriggio e la sera alle calcagna. Il tempo frenetico delle grandi città dove ci si ferma solo per un attimo, per farsi imprigionare da una serata qualsiasi, e il tempo pigro delle pianure deserte viste dall’alto.
Penso anche che il mondo si trovi all’interno, nei solchi del cervello, nella ghiandola pineale: potrebbe essere un semplice nodulino in gola, questo globo. Basterebbe un colpo di tosse per sputarlo fuori.

 

Cioran l’indovino
 

Un altro uomo, timido e gentile, portava sempre con sé, nei viaggi di lavoro, un libro di Cioran, uno di quelli con testi molto brevi. Negli hotel lo teneva sul comodino vicino al letto e appena si svegliava lo apriva a caso trovando il principio guida della giornata. Pensava che in Europa gli esemplari della Bibbia che si trovavano negli alberghi andassero al più presto sostituiti con Cioran. Dalla Romania alla Francia. Ai fini della divinazione, la Bibbia ormai era superata. Cosa ricaviamo, per esempio, da questo versetto, quando imprudentemente la si apre in un certo venerdì d’aprile o mercoledì di dicembre? “Tutti gli arredi della Dimora per tutti i suoi servizi e tutti i picchetti come anche i picchetti del recinto saranno di bronzo” (Esodo 27,19). Come dobbiamo intenderlo? Ma poi aggiunse che non doveva essere per forza Cioran. Mi guardò con aria di sfida e mi disse: “Prego, su, proponga qualcos’altro.”
Non mi venne in mente nulla. Allora tirò fuori dal suo zaino un libricino sottile tutto sgualcito, lo aprì a una pagina a caso e il suo viso si illuminò.
“Invece di fare attenzione alla faccia dei passanti, guardavo i loro piedi e tutti quegli agitati si riducevano a passi che si precipitavano – verso che cosa? E mi parve chiaro che la nostra missione era di sfiorare la polvere alla ricerca di un mistero privo di serietà,” lesse con soddisfazione.

 

La mano di Giovanni Battista
 

Ci sono troppe cose al mondo. Bisognerebbe rimpicciolirlo piuttosto che ampliarlo o espanderlo. Bisognerebbe rimetterlo nella sua piccola scatola, in un panottico portatile, e poterci sbirciare dentro soltanto il sabato pomeriggio, quando le faccende quotidiane sono già state sbrigate, il bucato è già stato fatto e le camicie se ne stanno inamidate sulle spalliere delle sedie, i pavimenti sono stati lucidati e sul davanzale c’è una torta fragrante a raffreddare. Si potrebbe guardare all’interno attraverso il buco, come nel Fotoplastikon di Varsavia, e stupirsi di ogni singolo particolare.
Ma temo che ormai sia troppo tardi.
Sembra che non rimanga nulla da fare se non imparare a selezionare di continuo. Essere come quel viaggiatore che ho incontrato una volta in treno. Diceva che di tanto in tanto deve andare a Parigi a visitare Louvre per un’opera che secondo lui vale davvero la pena di vedere. Si piazza davanti al quadro di san Giovanni Battista e concentra lo sguardo sul suo dito alzato.

 

 

Psicologia di viaggio
 

LECTIO BREVIS I Nel corso dell’ultimo anno ho incontrato negli aeroporti alcuni studiosi che, nel brusio del viaggio, tra annunci di partenze e imbarchi, organizzavano piccole conferenze. Uno di loro mi spiegò che si trattava di un progetto informativo globale (o forse soltanto dell’Unione Europea). Così, a un certo punto, alla vista di uno schermo in sala d’attesa e di un piccolo gruppo di curiosi, decisi di fermarmi anch’io ad ascoltare.
“Signore e signori,” cominciò una giovane donna, sistemandosi nervosamente la sciarpa colorata, mentre il suo collega, con una giacca di tweed e toppe di pelle sui gomiti, preparava lo schermo appeso a una parete. “La psicologia di viaggio si occupa dell’uomo che viaggia, dell’uomo in movimento, e in questo modo si contrappone alla psicologia tradizionale che ha sempre analizzato l’essere umano in un contesto fisso, stabile e senza movimento – per esempio attraverso il prisma della sua costituzione biologica, dei suoi legami familiari, delle sue posizioni sociali e così via. Per la psicologia di viaggio questi fattori sono di secondaria importanza e non al centro dei suoi interessi. Volendo descrivere l’uomo in modo convincente, possiamo farlo soltanto collocandolo in un determinato movimento che va da un posto all’altro. La necessità di così tante descrizioni poco convincenti dell’uomo stabile, stanziale, sembra mettere in discussione l’esistenza di un ‘io’ inteso senza relazioni. Questo fa sì che da qualche tempo nella psicologia di viaggio prevalgano idee secondo le quali non può esistere altra psicologia se non la psicologia di viaggio.”
Nel piccolo gruppo di ascoltatori si percepì un po’ di nervosismo. Ci era appena passato accanto un gruppo rumoroso di uomini alti contraddistinti da sciarpe con i colori della loro squadra – erano dei tifosi. Nello stesso istante si erano avvicinate delle persone incuriosite dallo schermo alla parete e dalle due file di sedie. Si sarebbero sedute un attimo durante il cammino verso i gate o il lento trascinarsi tra i negozi dell’aeroporto. Su molti dei loro visi erano dipinti la stanchezza e il disorientamento temporale; era evidente che avrebbero fatto volentieri un pisolino e probabilmente non sapevano che dietro l’angolo c’era una comodissima sala d’attesa con delle poltrone su cui dormire. Una decina di viaggiatori si alzò appena la donna cominciò a parlare. Una coppia di giovanissimi stava abbracciata e ascoltava con molta attenzione accarezzandosi a vicenda la schiena.

Dopo una breve pausa la donna riprese il discorso: “Un concetto fondamentale della psicologia di viaggio è il desiderio, ciò che mette l’essere umano in movimento indicando la direzione e risvegliando in lui l’inclinazione verso qualcosa. Il desiderio in sé è vuoto, cioè indica solo la direzione, ma non la meta; le mete restano sempre fantasmagoriche e poco chiare. Più ci si avvicina e più diventano enigmatiche. In nessun modo si può davvero raggiungere la meta né, così facendo, soddisfare il proprio desiderio. Il processo di questo sforzo è tutto racchiuso nella preposizione verso. Verso cosa?”
A questo punto la donna lanciò, da sopra gli occhiali, uno sguardo attento agli ascoltatori, come alla ricerca di una conferma che si stava rivolgendo al gruppo giusto di persone. Non era piaciuta alla coppia con due bambini nel passeggino che, allontanando da sé il suo sguardo, spinse avanti il bagaglio e andò a guardare il falso Rembrandt.
“La psicologia di viaggio non è del tutto scollegata dalla psicoanalisi…” continuò, e improvvisamente provai un senso di dispiacere per quei giovani oratori. Parlavano a persone che si erano ritrovate qui per caso e non sembravano troppo interessate. Andai alla macchinetta a prendermi un caffè, ci misi dentro qualche zolletta di zucchero per tirarmi su, e quando tornai stava parlando un uomo. […]

 

 

Istruzioni
 

Ho sognato di sfogliare una rivista americana con fotografie di serbatoi d’acqua e piscine. Vedevo tutto in ogni minimo particolare. Le lettere A, B, C descrivevano esattamente ogni componente degli schemi e dei piani. Ho iniziato a leggere con interesse un articolo dal titolo Come costruire un oceano. Istruzioni.

 

Pulizia della mappa
 

Quel che mi fa male lo cancello dalle mie mappe. I luoghi in cui sono inciampata, dove sono caduta, sono stata colpita, toccata sul vivo, dove ho sofferto – questi posti hanno semplicemente smesso di esistere.
In questo modo ho cancellato qualche grande città e un’intera provincia. Forse capiterà un giorno in cui cancellerò un intero paese. Le mappe accettano tutto questo con comprensione; in fondo sentono un po’ la mancanza di quelle macchie bianche che rappresentavano la loro infanzia spensierata.
A volte, quando sono dovuta andare in quei posti inesistenti (mi sforzo di non serbare rancori), mi sono trasformata in un occhio che si muoveva come uno spettro in una città fantasma. Se riuscivo a concentrarmi bene, potevo infilare tranquillamente la mano attraverso il cemento più compatto, potevo attraversare le strade più affollate, passare tra file di automobili, con calma, senza incidenti, silenziosamente.
Ma non lo facevo, accettavo le regole del gioco degli abitanti di quelle città. E mi sforzavo di non far scoprire a quei poveretti la natura illusoria dei luoghi nei quali erano bloccati, tutti cancellati. Sorrido e annuisco ai loro discorsi. Non voglio confonderli dicendo che non esistono.

 

La lingua, il muscolo più forte dell’uomo
 

Esistono paesi in cui le persone parlano in inglese. Ma non come noi, che abbiamo le nostre lingue madri nascoste nei bagagli, nei beauty case, mentre l’inglese viene usato soltanto in viaggio, all’estero e con gli stranieri. È difficile immaginarlo, ma l’inglese è una lingua vera! Spesso l’unica. Queste persone non hanno nulla a cui ricorrere o rivolgersi nei momenti di dubbio.
Come devono sentirsi persi in un mondo dove ogni istruzione, ogni parola delle canzoni più stupide, tutti i menù nei ristoranti, gli insopportabili volantini pubblicitari, i pulsanti nell’ascensore sono scritti nella loro lingua personale. Possono essere capiti da tutti in qualsiasi momento e sono costretti a prendere appunti in codice. Ovunque si trovino sono accessibili a tutto e a tutti senza limitazioni.
Ho sentito che ci sono già dei progetti per proteggerli o forse addirittura assegnare loro una piccola lingua, una di quelle morte, di cui nessuno ha più bisogno, in modo che possano avere qualcosa per sé, di strettamente personale.

 

 

Linee, piani e solidi
 

Ho sognato spesso di guardare senza essere vista, di spiare. Di essere l’osservatore perfetto. Come quella camera oscura che avevo costruito una volta con una scatola da scarpe. Aveva fotografato per me un pezzo di mondo attraverso uno spazio chiuso nero con una pupilla microscopica attraverso la quale la luce filtrava all’interno. Mi stavo allenando.
Il posto migliore per questo allenamento è l’Olanda – dove la gente convinta della propria innocenza assoluta non usa le tende e dopo il tramonto le finestre si trasformano in piccole scene nelle quali gli attori recitano le proprie serate. Una serie di immagini immerse nella gialla luce calda sono atti unici di quella stessa rappresentazione dal titolo Vita. Pittura olandese. Nature vive.
Ecco che sulla porta compare un uomo, in mano ha un vassoio che posa sul tavolo: due bambini e una donna stanno seduti lì vicino. Mangiano senza fretta, in silenzio, perché l’audio in questo teatro non funziona. Poi si spostano sul divano, guardano lo schermo illuminato con attenzione ma, per me che sono in strada, non è chiaro che cosa li attiri così tanto – vedo soltanto delle istantanee, una luce tremolante, immagini troppo brevi e lontane per poterle capire. Il viso di qualcuno con la bocca in movimento, un paesaggio, un altro viso… Alcuni dicono che è uno spettacolo noioso in cui non succede nulla. A me invece piace – per esempio il movimento del piede che fa involontariamente dondolare la pantofola, o il sorprendente atto di sbadigliare. Oppure il palmo della mano che cerca il telecomando sulla superficie morbida del divano e quando lo trova si tranquillizza e appassisce.
Farsi da parte. Vedere il mondo soltanto a frammenti, non ce ne sarà nessun altro. Ci sono momenti, briciole, configurazioni effimere che una volta realizzate si dissolvono in tanti pezzi. La vita? Non esiste; vedo linee, piani e solidi e i loro mutamenti nel tempo. Invece il tempo sembra un semplice strumento per
misurare i piccoli cambiamenti, un righello di scuola con una scala di misura semplificata con tre soli punti: passato, presente, futuro.

 

Irkutsk-Mosca
 

Volo da Irkutsk a Mosca. Si decolla da Irkutsk alle otto del mattino e si atterra a Mosca alla stessa ora – otto del mattino dello stesso giorno. Questo è il momento esatto in cui sorge il sole, quindi si vola per tutto il tempo all’alba. Si rimane in questo singolo istante, grande, tranquillo, espanso come la Siberia. Dovrebbe essere il momento per la confessione di un’intera vita. Il tempo scorre all’interno dell’aereo, ma non fuoriesce all’esterno.

 

 

Cosa diceva la fuggiasca intabarrata
 

Dondola, continua, muoviti. È l’unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte.
Quindi vai, dondola, cammina, corri, scappa perché il momento che ti dimenticherai e ti fermerai, le sue grandi mani ti afferreranno e ti trasformeranno in un burattino, il suo respiro ti avvolgerà con fumo puzzolente di gas di scarico e di discariche dell’immondizia. Lui trasformerà la tua anima scintillante e colorata in una piccola anima piatta, ritagliata dalla carta, dal giornale, e ti minaccerà con il fuoco, con la malattia e la guerra, ti spaventerà fino a quando perderai la pace e smetterai di dormire. Ti contrassegnerà e ti iscriverà nel suo registro, ti darà un documento della tua caduta. Ti occuperà la mente con cose poco importanti, cosa comprare e cosa vendere, dove conviene di più e dov’è più caro. Da questo momento ti preoccuperai di inezie – il prezzo della benzina e quanto inciderà sulla rata del mutuo. Vivrai ogni giorno affranta dal dolore come se stessi espiando una pena, per un reato ignoto che non saprai mai da chi e quando è stato commesso.
Una volta, tanto tempo fa, lo zar provò a riformare il mondo, ma subì una sconfitta e il mondo cadde tra le braccia dell’anticristo. Dio, quello vero, quello buono, venne scacciato dal mondo, le navi con il potere divino vennero distrutte, assorbite dalla terra e scomparvero nelle sue profondità. Ma quando parlò sottovoce dal suo nascondiglio, lo udì un uomo giusto, un soldato di nome Eufemio, che memorizzò quelle parole nella sua mente. Durante la notte buttò via il fucile, si tolse l’uniforme, slegò i lacci e si tolse gli stivali. Stava in piedi sotto il cielo, nudo come Dio l’aveva creato, e poi corse nel bosco e indossato un soprabito cominciò a vagare di villaggio in villaggio, annunciando la terribile notizia. Scappate, fuggite dalle vostre case, andate, pellegrini, perché solo in questo modo si possono evitare le trappole dell’anticristo. Qualsiasi battaglia in campo aperto con lui sarà una sconfitta. Lasciate tutto ciò che possedete, rinunciate alla terra e mettetevi in cammino.
Perché tutto ciò che ha un posto fisso su questa terra, ogni nazione, chiesa, governo umano, tutto ciò che ha conservato una forma in questo inferno si mette al suo servizio. Come tutto ciò che è definito, che va da qui a là, che rientra in uno schema, che è inscritto in un registro, numerato, evidenziato, sottoposto a giuramento; tutto ciò che è raccolto, messo in vista, etichettato. Tutto ciò che blocca: case, poltrone, letti, famiglie, terra, semina, piantagione, l’osservazione della crescita, la pianificazione, l’attesa dei risultati, la cancellazione degli orari, l’esecuzione degli ordini. Cresci i tuoi figli, dal momento che li hai partoriti inavvertitamente, e poi parti; seppellisci i genitori, che ti hanno imprudentemente chiamato a esistere, e vai. Scappa lontano, fuori dalla portata del suo respiro, oltre i suoi cavi e fili, antenne e onde, in modo che i suoi strumenti sensibili non riescano a trovarti.
Chi fa una pausa diventerà di pietra, chi si arresta verrà infilzato come un insetto, il suo cuore sarà trafitto da un ago di legno, le sue mani e i suoi piedi saranno infilzati e fissati alla soglia e al soffitto.
È così che è morto Eufemio quando si è ribellato. È stato catturato e il suo corpo inchiodato alla croce, immobilizzato come un insetto, in mostra agli occhi umani e disumani, ma sono soprattutto quelli disumani che godono maggiormente di questo genere di spettacoli; nulla di strano quindi che lo ripetano ogni anno e festeggino pregando su un cadavere.
Per questo i tiranni di ogni tipo, servitori infernali, hanno nel sangue l’odio per i nomadi – per questo perseguitano i gitani e gli ebrei, per questo costringono a diventare sedentarie tutte le persone libere, marcandole con un indirizzo che diventa la nostra sentenza.
Quello che vogliono è costruire un ordine solido, rendendo il trascorrere del tempo soltanto un’apparenza. Vogliono che i giorni si ripetano tutti uguali e non si distinguano, e costruire una grande macchina nella quale ogni creatura dovrà occupare un proprio posto ed eseguire movimenti apparenti. Istituzioni e uffici, timbri, circolari, una gerarchia e poi lotti, livelli, concessioni e rifiuti, passaporti, numeri, carte, risultati elettorali, promozioni e raccolte punti, collezioni, scambi di cose.
Vogliono bloccare il mondo con l’aiuto di codici a barre, etichettare ogni cosa, che sia chiaro di che prodotto si tratta e quanto costa. Che questa nuova lingua straniera sia illeggibile agli uomini, che la possano leggere soltanto le macchine e i distributori; così che di notte, nei grandi negozi sotterranei, possano organizzare letture delle proprie poesie in codici a barre.
Muoviti, vai. Beato è colui che parte.

 

 

Punto
 

Mentre attraverso queste città so già che a un certo punto mi dovrò fermare più a lungo in una di esse, o forse addirittura mettere radici. Le peso nella testa, le confronto e le valuto e mi sembra sempre che ognuna sia o troppo lontana o troppo vicina.
Sembra proprio che esista un punto fisso attorno al quale continuo a girare. Da cosa troppo lontano e a cosa troppo vicino?

 

Perfino
 

Viaggiando, passo vicino ai cartelloni stradali che nero su bianco annunciano: “Gesù ama perfino te.” Quel sostegno inaspettato mi solleva lo spirito; mi preoccupa soltanto quel “perfino”.

 
Olga Tokarczukp

 

Pieces from cloudland ballroom – Anthony Moore

“Questo brano è un palindromo che richiede quasi 20 minuti per essere completato in base ai numeri dispari 3, 5, 7, 9, 11. Immaginate un valzer, cioè 3/4 di tempo, sovrapposto allo stesso tempo a un pezzo in 5/4. Il minimo comune denominatore di 3 e 5 è 15. Ciò significa che al 16° battito, due pezzi si sincronizzeranno di nuovo, completando un cerchio di partenza e avvicinamento, un’immagine speculare. A questi due, aggiungi gli ulteriori schemi di 7, 9 e 11 battiti e poi ci vorranno le cinque parti di circa 20 minuti per arrivare al punto in cui, per la prima volta dal battito di apertura, atterrano tutti insieme.”

 

 
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ph. Gabriel Isak