Javier, torna!

 

Pensavo, vedevo, sentivo, dunque esistevo, dunque vivevo, e il giorno dopo mi avrebbero sepolto. Lottai per muovermi, ma non potei. Allora mi resi conto che ero morto, che dopo la morte non c’era nulla, e l’unica cosa che mi restava era di restare chiuso nella mia tomba per sempre, senza respirare, però vivendo; senza occhi, però vedendo; senza orecchie, però sentendo.

 

Double Shape – James Brown, Atelier Bordas

 

Quando ero mortale
 

Spesso ho finto di credere ai fantasmi e ho finto di crederlo festosamente, e adesso che sono uno di loro capisco perché le tradizioni li rappresentano dolenti e ostinati nel voler tornare nei luoghi che hanno conosciuto quand’erano mortali. La verità è che tornano. Poche volte vengono o veniamo percepiti, le case che abbiamo abitato sono cambiate e in esse vi sono inquilini che non sanno neppure della nostra esistenza passata, nemmeno ne hanno idea: allo stesso modo dei bambini, quegli uomini e quelle donne credono che il mondo sia cominciato con la loro nascita, e non si interrogano se sul pavimento per il quale passano non vi siano stati in un altro tempo passi piú lievi o passi avvelenati, se tra i muri che li accolgono altri hanno ascoltato sussurri o risate, o se qualcuno ha letto ad alta voce una lettera, o ha stretto il collo di chi piú amava. È assurdo che permanga lo spazio e il tempo si cancelli per i vivi, o in realtà è che lo spazio è depositario del tempo, ma poi è silenzioso e non racconta nulla. È assurdo che cosí sia per i vivi, perché quel che viene dopo è il suo contrario, e per quello manchiamo di allenamento. Vale a dire, adesso il tempo non passa, non trascorre, non fluisce, ma si perpetua simultaneamente e con ogni dettaglio, e dire «adesso» è forse un inganno. Questa è la seconda delle cose peggiori, i dettagli, perché la rappresentazione di quel che abbiamo vissuto e a malapena ha lasciato in noi traccia quando eravamo mortali si presenta adesso con l’elemento orrendo secondo cui tutto ha significato e peso: le parole dette alla leggera e i gesti meccanici, i pomeriggi dell’infanzia che vedevamo accumulati sfilano ora uno dopo l’altro singolarmente, lo sforzo di tutta una vita – ottenere routine che livellino i giorni e anche le notti – risulta vano, e ogni giorno e notte sono ricordati con nitidezza e singolarità eccessive e con un grado di realtà incongruente con il nostro stato che non conosce piú ciò che è tangibile. Tutto è concreto ed è eccessivo, ed è un tormento soffrire la lama tagliente delle ripetizioni, perché la maledizione consiste nel ricordare tutto, i minuti di ogni ora di ogni giorno vissuto, quelli di tedio e quelli di fatica e quelli di allegria, quelli di studio e d’incubo e di abiezione e di sonno, e anche quelli di attesa, che sono stati la maggior parte.
Ma ho già detto che questa è soltanto la seconda delle cose peggiori, c’è qualcosa di piú lacerante, ed è che adesso non soltanto ricordo quel che ho visto e sentito e saputo quand’ero mortale, ma che lo ricordo per intero, cioè anche con quello che allora non vedevo né sapevo né sentivo né era alla mia portata, ma riguardava me o coloro che mi stavano a cuore e forse mi formavano. Si scopre adesso la dimensione di ciò che si va intuendo man mano che si vive, sempre di piú quanto piú si è adulti, non posso dire piú vecchi perché non sono arrivato a esserlo: si conosce soltanto un frammento di ciò che ci succede, e quando si crede di potersi spiegare o raccontare quel che ci è successo fino a un determinato giorno, mancano troppi dati, mancano le intenzioni altrui e i motivi degli impulsi, manca quel che è nascosto: vediamo apparire gli esseri a noi piú vicini come se fossero attori che vengono fuori all’improvviso davanti al sipario di un teatro, senza che sappiamo che cosa facessero fino a un secondo prima, quando non erano di fronte a noi. Forse si presentano mascherati da Otello o da Amleto e solo un istante fa fumavano un’anacronistica sigaretta impossibile tra le quinte, e guardavano impazienti un orologio che ormai si sono tolti per fingere di essere qualcun altro. Ci mancano anche i fatti cui non assistiamo e le conversazioni che non ascoltiamo, quelle che si svolgono alle nostre spalle e ci tirano in ballo o ci criticano o ci giudicano e ci condannano. La vita è pietosa, lo sono tutte le vite o quella è la norma, e per questo consideriamo malvagi coloro che non occultano né tengono nascosto né mentono, coloro che raccontano quel che sanno e ascoltano, anche quello che fanno e quello che pensano. Diciamo che sono crudeli. Ed è nello stato della crudeltà in cui mi trovo adesso.
Mi vedo ad esempio bambino sul punto di addormentarmi nel mio letto durante tante notti di un’infanzia senza infamia e senza lode, con la porta della mia camera socchiusa per vedere la luce fino a quando il sonno non mi avesse vinto e fossi caduto in letargo con le conversazioni di mio padre e mia madre e di qualche invitato per la cena o per il dopo cena, nel secondo caso si trattava quasi sempre del dottor Arranz, un uomo gradevole che sorrideva sempre e parlava tra i denti e che per mia soddisfazione arrivava proprio prima che mi addormentassi in tempo per entrare in camera mia e vedere come stavo, il privilegio di un controllo quasi quotidiano e la mano del medico che tranquillizza e fa una palpazione sotto il pigiama, una mano lieve e irripetibile che tocca come poi non sa toccare nessun’altra nel corso delle nostre vite, e il bambino apprensivo sente che qualsiasi anomalia o pericolo saranno scoperti da quella mano e perciò affrontati, è la mano che mette in salvo; e sospeso alle orecchie lo stetoscopio con il suo contatto salutare e freddo sul petto contratto, e a volte anche l’ereditato cucchiaio d’argento con le iniziali rovesciato sulla lingua, il manico che per un momento sembrava andarsi a conficcare nella nostra gola per cedere il passo al sollievo di ricordare dopo il primo contatto che era Arranz che lo impugnava, la sua mano rassicurante e ferma e padrona di oggetti metallici, non poteva succedere nulla finché lui avrebbe auscultato o guardato con la sua lampada sulla fronte. Dopo la sua rapida visita e le sue due o tre spiritosaggini – a volte lo aspettava mia madre appoggiata contro lo stipite mentre lui mi esaminava e mi faceva ridere con facilità, si divertiva anche lei – io rimanevo ancora piú calmo e cominciavo a sonnecchiare mentre sentivo i loro discorsi nel salotto non distante, o che ascoltavano per un momento la radio o giocavano un po’ a carte, in un tempo in cui il tempo appena scorreva, non sembra vero perché non è tanto tempo fa, anche se da allora c’è stato il tempo per me di vivere e morire. Sento le risate di coloro che erano ancora giovani anche se io non potevo vederli come tali allora e invece adesso sí: mio padre quello che rideva meno, un uomo taciturno e di bell’aspetto con un po’ di malinconia permanente negli occhi, forse perché era stato repubblicano e aveva perduto la guerra, e questo dev’essere qualcosa da cui non ci si riprende mai, perdere una guerra contro i compatrioti e i vicini. Era un uomo mite che non ci rimproverava mai, né me né mia madre, e passava molto tempo in casa scrivendo articoli e critiche di libri che la maggior parte delle volte firmava per i giornali con nomi di fantasia perché era meglio che non usasse il suo; oppure leggendo, un afrancesado, romanzi di Camus e di Simenon è ciò che piú ricordo. Il dottor Arranz era piú gioviale, un burlone con il suo parlare trascinato, pieno di inventiva e di modi di dire, quel genere d’uomo che è l’idolo dei bambini perché con le carte sa fare giochi d’abilità e li fa divertire con rime inattese e parla loro di calcio – Kopa, Rial, Di Stéfano, Puskás e Gento allora –, e gli vengono in mente giochi con cui li tenta e risveglia la loro fantasia, dato che in realtà non ha mai il tempo per fermarsi a farli davvero. E mia madre, sempre ben vestita sebbene non dovesse esserci molto denaro in casa di uno che aveva perduto la guerra – non ce n’era –, vestita meglio di mio padre perché aveva ancora suo padre che la vestiva, mio nonno, sottile e sorridente e guardando il marito a volte con pena, guardando me sempre con entusiasmo, non ci sono nemmeno molti altri sguardi cosí piú tardi, man mano che si cresce. Vedo adesso tutto questo ma lo vedo per intero, vedo che le risate del salotto non erano mai di mio padre mentre io mi andavo immergendo nel sonno, e invece sí era suo e soltanto suo l’ascolto della radio, un’immagine impossibile fino a poco fa e che adesso è tanto nitida come quelle vecchie che mentre ero mortale si andavano comprimendo e sfumando, sempre di piú quanto piú vivevo. Vedo che certe sere il dottor Arranz e mia madre uscivano, e adesso capisco tante allusioni ai bei biglietti, che nella mia immaginazione di allora io vedevo sempre strappati da un controllore dello stadio o della plaza de toros – quei posti in cui io non andavo – e sui quali io non mi domandavo nient’altro. Altre sere non c’erano dei bei biglietti o non se ne parlava, o erano sere di pioggia che non invogliavano a fare una passeggiata né ad andare a una festa di strada, e adesso so che allora mia madre e il dottor Arranz entravano in camera da letto quand’era certo che io mi fossi addormentato dopo essere stato toccato sul petto e sullo stomaco dalle stesse mani che dopo avrebbero toccato lei non piú lievi e con piú urgenza, la mano del medico che tranquillizza e indaga e persuade e pretende; e dopo essere stato anche baciato sulla guancia o sulla fronte dalle stesse labbra che poi avrebbero baciato – e avrebbero fatto tacere – quella parlata tra i denti e sfacciata. E sia che uscissero per andare a teatro o al cinema o alla sala delle feste sia che si limitassero ad andare nella stanza accanto, mio padre accendeva la radio da solo mentre aspettava, per non sentire niente, ma anche con il passare del tempo e con la routine – con il livellamento delle sere che sempre arriva quando le sere insistono a ripetersi – per distrarsi mezz’ora o tre quarti d’ora (i medici vanno sempre di fretta), perché finiva per distrarsi con quello che ascoltava. Il dottore andava via senza salutarlo e mia madre non usciva piú dalla camera, rimaneva lí ad aspettare mio padre, si metteva una camicia da notte e cambiava le lenzuola, lui non la trovava mai con le sue belle gonne e calze. E vedo adesso la conversazione che istituí questo stato che per me non era quello della crudeltà ma uno stato pietoso che è durato per tutta la mia vita, e in quella conversazione il dottor Arranz porta i baffetti taglienti che io ho potuto vedere nei procuradores en Cortes fino alla morte di Franco, e non soltanto in loro, ma anche nei militari e nei notai, nei banchieri e nei cattedratici, negli scrittori e in molti medici, non in lui tuttavia, fu un precorritore nel toglierseli. Mio padre e mia madre sono seduti in sala da pranzo e io non ho ancora coscienza e nemmeno memoria, sono un bambino che non cammina e non parla e che sta nella culla e che mai avrebbe dovuto venire a sapere: lei tiene per tutto il tempo lo sguardo volto a terra e non dice una sola parola, lui ha gli occhi dapprima increduli e poi inorriditi: inorriditi e pavidi, piú che indignati. E una delle cose che Arranz dice è questa:
– Senti, León, io passo molte informazioni alla polizia e le mie non si discutono, non hanno mai sbagliato. Ce ne ho messo per beccarti ma so bene quello che hai fatto durante la guerra, e ne hai avuto a noia di avvisare i miliziani perché mettessero al muro la povera gente. Magari non è stato proprio cosí. Nel tuo caso non mi devo inventare molto, mi basta esagerare, dire che hai mandato nella fossa metà del nostro vicinato non sarebbe troppo lontano dalla verità, ci avresti mandato anche me se avessi potuto. Sono passati piú di dieci anni, ma a te ti aspetta una fucilazione se io faccio questa parte, e non ho ragione per starmene zitto. Perciò sarai tu a dire quello che vuoi: o te la passerai un po’ male con le mie condizioni o smetterai di passartela del tutto, né bene né male e nemmeno cosí cosí. –
– E quali sarebbero queste condizioni?
Vedo il dottor Arranz fare un gesto in direzione di mia madre che continua a tacere – un gesto che la fa diventare una cosa –, che conosceva dai tempi della guerra e anche prima, anche lei di quel vicinato che aveva perduto tanti vicini.
– Scoparmela. Una sera sí e un’altra pure, fino a che non sarò stanco.
Arranz si stancò come ci stanchiamo tutti di tutto, se ce ne lasciano il tempo. Si stancò quando io avevo ancora un’età in cui quel verbo cosí centrale non figura nel vocabolario, né se ne concepisce il contenuto. L’età di mia madre, invece, fu l’età in cui cominciò ad avvizzire e a non ridere, e mio padre a godere di una certa prosperità e a vestire meglio, e a firmare con il suo nome gli articoli e le critiche – il suo nome che non era León – e a perdere un po’ di malinconia nei suoi occhi intorbiditi; e a uscire la sera con qualche bel biglietto mentre mia madre rimaneva in casa a fare solitari o ad ascoltare la radio, o poco dopo a guardare la televisione, piú adatta.
Quelli che hanno filosofato sull’oltretomba o sul perdurare della coscienza al di là della morte – se è questo che siamo, coscienza – non hanno tenuto in conto il pericolo o piuttosto l’orrore di ricordare tutto, anche quello che non sapevamo: di sapere tutto, quel che ci riguarda o in cui siamo stati al centro, o soltanto al margine. Vedo con chiarezza assoluta visi che ho incrociato una volta sola per la strada, un uomo cui ho dato l’elemosina senza guardarlo in faccia, una donna che ho osservato sul metrò e di cui non mi ero piú ricordato, le fattezze di un postino che mi consegnò un telegramma senza importanza, la figura di una bambina che ho visto su una spiaggia, quando anch’io ero bambino. Si ripetono i lunghi minuti che ho passato in attesa negli aeroporti o facendo la coda in un museo o guardando l’acqua in quella spiaggia lontana, o facendo una valigia e poi disfacendola, le cose piú noiose, quelle che non contano mai e siamo soliti chiamare tempi morti. Mi vedo in città in cui sono stato molto tempo fa e di passaggio, con ore libere per passeggiarvi e poi cancellarle dalla mia memoria: mi vedo ad Amburgo e a Manchester, a Basilea e a Austin, in posti dove non sarei andato se non mi ci avesse portato il mio lavoro. Mi vedo anche a Venezia tanto tempo fa, in viaggio di nozze con mia moglie Luisa, con cui ho trascorso questi ultimi anni di tranquillità e di appagamento, mi vedo in essi, nella mia vita piú recente, sebbene ormai remota. Torno da un viaggio e lei mi aspetta all’aeroporto, non c’è stata una sola volta nel nostro matrimonio in cui lei non sia venuta fin lí a prendermi anche se mi ero assentato soltanto per un paio di giorni, nonostante il traffico abominevole e le trascurabili faccende, che sono quelle che piú opprimono. Di solito ero cosí stanco che avevo soltanto la forza per cambiare i canali della televisione identica di tutti i nostri paesi, mentre lei mi preparava un po’ di cena e mi teneva compagnia con un’espressione annoiata ma paziente, ben sapendo che avrei avuto bisogno soltanto del sopore e del riposo della notte imminente per riprendermi e il giorno dopo essere quello di sempre, un tipo attivo e scherzoso che parlava un po’ tra i denti, un modo studiato di accentuare l’ironia che piace a tutte le donne, hanno la risata nel sangue e non possono evitare di mettersi a ridere anche se detestano quello che dice la battuta, se la battuta è piacevole. E il pomeriggio dopo, ormai ripreso, ero solito andare a trovare María, la mia amante, che rideva ancora di piú perché con lei le mie trovate non erano sprecate.
Ho sempre prestato molta attenzione a non tradirmi, a non ferire e a essere pietoso, María la vedevo soltanto a casa sua affinché nessuno potesse mai incontrarmi da nessuna parte insieme a lei e fare domande allora, o essere crudele e raccontare piú tardi, o semplicemente sperare di essere presentato. Casa sua era vicina e molti pomeriggi passavo da lei rientrando verso la mia, non tutti, pensavo di ritardare soltanto mezz’ora o tre quarti, a volte qualcosa di piú, a volte mi trattenevo a guardare dalla sua finestra, la finestra dell’amante ha un interesse che mai potrà avere la nostra. Non ho mai commesso un errore, perché gli errori in queste questioni sono forme di sconsideratezza, o ancora peggio sono malvagità. Una volta ho incontrato María mentre ero con Luisa, in un cinema affollato la sera di una prima, e la mia amante approfittò della confusione per avvicinarsi a noi e prendermi la mano un istante, passando senza guardarmi accanto a me, mi sfiorò con la coscia che ben conoscevo e mi prese e mi carezzò la mano. Luisa non avrebbe mai potuto vedere né accorgersi né sospettare per nulla quel minimo contatto tenue ed effimero e clandestino, ma comunque decisi di non vedere María per alcune settimane, dopo le quali e dopo non averle risposto al telefono del mio ufficio mi chiamò una sera a casa, per fortuna mia moglie non c’era.
– Che cosa succede? – mi disse.
– Che non mi devi mai chiamare qui, lo sai bene.
– Non ti chiamerei lí se mi rispondessi in ufficio. Ho aspettato quindici giorni, – disse lei.
E allora le risposi facendo uno sforzo per riacquistare la rabbia che avevo provato quindici giorni prima.
– E non ti risponderò mai piú se mi toccherai di nuovo con Luisa presente. Non ti venga nemmeno in mente.
Lei rimase in silenzio.
Quasi tutto si dimentica nella vita e tutto si ricorda nella morte, o in quello stato di crudeltà in cui consiste essere un fantasma. Ma nella vita dimenticai e la rividi un giorno e poi ancora, in quel modo in cui tutto si rinvia indefinitamente a poco dopo e crediamo sempre che continui a esserci un domani in cui sarà possibile arrestare quel che oggi e ieri passa e scorre e fluisce, quel che insensibilmente si va trasformando in un’altra routine che a suo modo livella anche i nostri giorni e le nostre notti fino a quando questi finiscono per non poter essere concepiti senza nessuno degli elementi che si sono insediati in essi, e le notti e i giorni devono essere identici nell’essenziale almeno, perché non vi sia rinuncia né sacrificio, chi li vuole e chi li subisce. Tutto si ricorda adesso e perciò ricordo perfettamente la mia morte, cioè quel che ho saputo della mia morte quando si verificò, che era poco ed era niente se lo paragono alla totalità della mia conoscenza adesso, e con la lama tagliente delle ripetizioni.
Tornai da uno dei miei viaggi estenuanti e Luisa non mancò, venne a prendermi. Non parlammo molto in auto, e neppure mentre disfacevo la valigia meccanicamente e guardavo la posta molto superficialmente, e ascoltavo i messaggi della segreteria telefonica conservati fino al mio ritorno. Mi allarmai nel sentire uno di essi, perché riconobbi subito la voce di María, che diceva il mio nome una volta, poi si interrompeva, e questo fece sí che il mio allarme scemasse all’istante, una voce di donna che diceva il mio nome e s’interrompeva non significava niente, non c’era ragione che facesse inquietare Luisa nel caso l’avesse sentito. Mi stesi sul letto di fronte alla televisione e rimasi a scorrere i programmi, Luisa mi portò fiambres con huevo hilado comprati già fatti, non doveva aver avuto voglia o tempo di prepararmi neppure una frittata. Era ancora presto, ma lei mi spense la luce della stanza per invitarmi al sonno, e cosí rimasi, assopito e calmo al ricordo vago delle sue carezze, la mano che tranquillizza sebbene tocchi il petto distrattamente e forse con impazienza. Poi uscí dalla camera da letto e io finii per addormentarmi davanti alle immagini dello schermo, ci fu un momento in cui smisi di cambiare canale.
Non so quanto tempo sia passato, o mento dato che lo so adesso con precisione, furono settantatre minuti di profondo sonno e di sogni che si svolgevano ancora all’estero, da dove ero tornato ancora una volta sano e salvo. Allora mi svegliai e vidi la luce azzurrina del televisore accesa, la sua luce che illuminava i piedi del letto piú che qualunque altra delle sue immagini, perché per quello non ebbi il tempo. Vidi e vedo precipitare sopra di me qualcosa di nero, un oggetto pesante e senza dubbio freddo come lo stetoscopio, ma non era salutare bensí violento. Cadde una volta e si sollevò di nuovo, e in quelle frazioni di secondo prima che tornasse ad abbattersi già schizzato di sangue pensai che Luisa mi stava ammazzando per colpa di quella telefonata che diceva soltanto il mio nome e s’interrompeva e forse aveva detto molte piú cose che lei doveva aver cancellato dopo averle ascoltate tutte, lasciando per me da ascoltare al mio ritorno l’inizio soltanto, soltanto l’annuncio di ciò che mi stava ammazzando. La cosa nera cadde di nuovo e uccise questa volta, e la mia ultima coscienza in vita mi fece non opporre resistenza, non cercare di fermarla perché non mi sembrò una brutta morte morire per mano della persona insieme alla quale avevo vissuto con tranquillità e appagamento, e senza farci del male fino a quando non ce ne facemmo. La parola è difficile e si presta a equivoci, ma forse arrivai fino a sentire che quella era una morte giusta.
Vedo tutto questo adesso e lo vedo per intero, con un dopo e un prima, anche se il dopo non mi riguarda in senso stretto e non risulta per questo tanto doloroso. Invece mi riguarda il prima, o la negazione di ciò che intravidi e tentai di pensare tra la discesa e la risalita e la nuova discesa della cosa nera che la fece finita con me. Vedo adesso Luisa parlare con un uomo che non conosco e che a sua volta ha i baffi come il dottor Arranz li aveva ai suoi tempi, anche se non pungenti ma morbidi e folti e un po’ canuti. È un uomo di mezza età, come lo fu la mia e forse anche quella di Luisa, anche se io l’ho vista sempre come una giovane allo stesso modo in cui non ho mai potuto vedere i miei genitori e Arranz come tali. Se ne stanno insieme nel salotto di una casa che neppure conosco e che è la casa di lui, un posto molto eterogeneo, pieno di libri e quadri e oggetti decorativi, una casa studiata. L’uomo si chiama Manolo Reyna e ha abbastanza denaro per non doversi mai sporcare le mani. Parlano sussurrando seduti su un divano, è pomeriggio e io sto in quel momento facendo visita a María, due settimane addietro, due prima della mia morte al ritorno da un viaggio, e quel viaggio ancora non è cominciato, si stanno ancora facendo i preparativi. I sussurri sono adesso nitidi, hanno un grado di realtà incongruente non piú con il mio stato che non conosce ciò che è tangibile, ma con la stessa vita, nulla in essa è mai tanto concreto, nulla respira tanto. Ma c’è un momento in cui Luisa alza la voce, come la si alza per difendersi o per difendere qualcuno, e quel che dice è questo:
– Ma lui si è sempre comportato molto bene con me, non ho niente da rimproverargli, e quindi è molto difficile.
E Manolo Reyna risponde trascinando le parole:
– Non sarebbe piú facile né ti costerebbe meno se ti avesse reso la vita impossibile. Al momento di ammazzare qualcuno quel che può aver fatto non conta, sembra sempre un’azione eccessiva rispetto a qualsiasi comportamento.
Vedo Luisa portarsi il pollice alla bocca e mordicchiarlo un po’, un gesto che le ho visto fare tante volte quando esita, o piuttosto prima di decidersi a fare qualcosa. È un gesto normale, ed è cruento che appaia anche nel corso della conversazione cui non abbiamo assistito, quella che si svolge alle nostre spalle e non ci nomina o critica o addirittura ci difende, o ci giudica e ci condanna a morte. –
– Allora ammazzalo tu, non vorrai che commetta io quest’azione eccessiva.
Vedo adesso anche che chi impugna la cosa nera accanto al mio televisore acceso non è Luisa, e neppure Manolo Reyna con il suo nome folcloristico, ma qualcuno ingaggiato e pagato perché la faccia abbattere due volte sulla mia fronte, la parola è un sicario, nella guerra molti miliziani furono usati cosí. Il mio sicario colpisce due volte e colpisce spassionatamente, e quella morte non mi sembra piú giusta, né adeguata, né tanto meno pietosa, come è di solito la vita e lo è stata la mia. La cosa nera è un martello con il manico di legno e testa di ferro, un martello semplice e comune. È quello di casa mia, lo riconosco.
Lí dove il tempo trascorre e fluisce ormai è passato molto tempo, tanto che non rimane nessuno di coloro che ho conosciuto o ho frequentato, o ho subito o ho amato. Ognuno di loro, immagino, tornerà senza essere percepito in quello spazio dove si accumulano dimenticati i tempi e non vedrà lí altro che estranei, uomini e donne nuovi che credono, come i bambini, che il mondo è cominciato con la loro nascita e per i quali non ha alcun senso interrogarsi sulla nostra esistenza passata e spazzata via. Adesso Luisa ricorderà e saprà quanto non ha saputo in vita e neppure nella mia morte. Io non posso parlare adesso di notte o di giorno, tutto è livellato senza bisogno di sforzi né di routine, nelle quali posso dire che ho conosciuto soprattutto la tranquillità e la soddisfazione: quand’ero mortale, ormai tanto tempo fa, lí dove c’è ancora tempo.
 

da Tutti i racconti –
Javier Marias