«Le plus grand art: rester soi-même»

 

«La suprema felicità del pensatore è aver esplorato l’esplorabile e venerare serenamente l’inesplorabile»
Goethe

 

 

In quelle epoche in cui i nobili valori della vita, tutto ciò che rende la nostra esistenza più pura e bella, che la legittima e la riempie di significato, la nostra pace, la nostra indipendenza, il nostro diritto innato, in quelle epoche in cui tutto questo è vittima della follia di una dozzina di fanatici e di ideologie, tutti i problemi degli uomini che non vogliono perdere la loro umanità e non la vogliono sacrificare al tempo si riducono a uno solo: come posso rimanere libero? Come posso preservare, malgrado tutte le minacce e i pericoli, nel pieno della furia delle bande, l’incorruttibile chiarezza di spirito, come conservare illesa l’umanità del cuore tra le bestialità? Come sottrarmi alle pretese tiranniche che lo Stato, la Chiesa o la politica vogliono impormi contro la mia volontà?Come difendermi per non andare con le mie parole e le mie azioni oltre il limite che il mio Io interiore desidera? Come proteggere questa particella unica e particolare del mio Io, che in un cantuccio mi riflette l’universo, dalla sottomissione alla misura regolamentata e decretata dall’esterno? Come preservare la mia stessa anima e la sua materia, che solo a me appartiene, come sottrarre il mio corpo, la mia salute, i miei nervi, i miei pensieri, i miei sentimenti, al pericolo di cadere vittima della follia e degli interessi alieni?
A questa domanda e ad essa sola Montaigne ha dedicato la sua vita, tutte le energie e il coraggio e l’arte e la conoscenza. Per amore di questa libertà osservava se stesso, vigilava, esaminava e censurava ogni sua azione e sentimento. E questa sua ricerca e sforzo di tendere alla purezza di spirito, alla salvaguardia della libertà in un’epoca di servilismo generalizzato verso ideologie e fazioni lo rendono per noi oggi, più di ogni altro, un fratello; se lo amiamo e soprattutto lo onoriamo come artista è perché nessuno come lui si dedicò all’arte più sublime della vita: «Le plus grand art: rester soi-même» [La più grande arte: restare se stessi]. Altri tempi, più pacifici e tranquilli, hanno trattato da altri punti di vista l’eredità spirituale, letteraria, morale e psicologica di Montaigne; hanno discusso dottamente per decidere se fosse scettico, cristiano, epicureo o stoico, filosofo o buffone, scrittore o semplice dilettante geniale. Le sue opinioni sull’educazione e la religione sono discusse e analizzate in tesi di dottorato e trattati. Ma quel che oggi mi interessa di Montaigne è come in un’epoca simile alla nostra seppe rimanere interiormente libero e come, leggendolo, possiamo sentirci più forti grazie al suo pensiero. Lo vedo come un patriarca, patrono e amico di ogni homme libre [uomo libero] sulla terra, come il miglior maestro di questa nuova e allo stesso tempo eterna scienza del continuare ad essere se stesso di fronte a tutto e a tutti. Pochi uomini sulla terra hanno lottato con maggiore forza e onestà per mantenere puro e imperturbabile il proprio Io interiore, la propria essence, proteggendola dalla torbida e velenosa spuma dell’inquietudine dell’epoca, e di rado questo Io interiore è stato salvato con successo dal proprio tempo a favore di tutti i tempi. Questa lotta di Montaigne per la salvezza della libertà interiore, forse la lotta più consapevole e tenace che l’uomo abbia mai condotto, non ha esternamente nulla di drammatico o eroico. Risulterebbe artificioso catalogare Montaigne tra i poeti e i pensatori che hanno lottato con la loro parola per la «libertà dell’umanità». Egli non ha nulla della rutilante eloquenza e del bel brio di uno Schiller o un Lord Byron, nulla dell’aggressività di un Voltaire. Avrebbe sorriso all’idea di pretendere di comunicare agli altri, e men che meno alla massa, qualcosa di così personale come la libertà interiore, e odiava dal profondo della sua anima i riformatori del mondo professionisti, i teorici e i dispensatori di ideologie. Sapeva fin troppo bene che era già un compito arduo conservare la propria indipendenza interiore. Cosicché restringe la sua lotta alla sola azione difensiva, alla difesa di quel fortino più recondito che Goethe chiama la «cittadella» e al quale nessun uomo permette a un altro di accedere. La sua tattica e la sua tecnica consistevano nel mantenersi esteriormente il più possibile discreto e invisibile, attraversando il mondo con una specie di mantello magico per trovare da sé il cammino.
In effetti Montaigne non ha quella che potremmo chiamare una biografia. Non ha mai provocato clamore, in quanto non si dava particolare importanza nella vita né cercava uditorio o applausi per le sue idee. All’esterno appariva come un cittadino, un funzionario, un nobile, un cattolico, l’uomo che compiva i suoi doveri senza richiamare l’attenzione, che adottava verso il mondo esterno il mimetismo della discrezione, per poter dispiegare e osservare interiormente lo spettro cromatico della sua anima in tutte le sfumature. Era sempre disposto a prestarsi, mai a darsi. In ogni circostanza della vita si riservava il meglio di sé, la propria essenza. Lasciava che gli altri parlassero, che si riunissero in branco, si infuriassero, predicassero e ciarlassero; lasciava che il mondo seguisse i suoi percorsi insensati e folli e si preoccupava di un’unica cosa: essere saggio per se stesso, essere umano in un’epoca disumana, libero nella follia generale. Lasciava che si prendessero gioco di lui, che lo chiamassero insensibile, indeciso e codardo, permetteva che gli altri si meravigliassero poiché non ambiva a incarichi e onorificenze; anche chi gli era più vicino, chi lo conosceva, ignorava con che costanza, tenacia, saggezza, versatilità lavorasse all’ombra del mondo con un unico obiettivo che si era prefisso: vivere la propria vita, invece di una vita qualsiasi.
Così, l’uomo apparentemente inoperoso condusse un’azione incomparabile: conservando e descrivendo se stesso, conservò a sua volta l’uomo in nuce, l’uomo nudo e atemporale. E mentre tutto il resto, i trattati teologici e le digressioni filosofiche del suo secolo ci sembrano estranei e obsoleti, lui è un nostro contemporaneo, l’uomo di oggi e di sempre, e la sua battaglia è la più attuale sulla terra.
Cento volte, leggendo Montaigne, pagina dopo pagina, si ha la sensazione che nostra res agitur [l’assunto ci riguarda], la sensazione che in esse sia espresso, meglio e più chiaramente di quanto io possa pensare, quelle che sono le preoccupazioni più profonde della mia anima in questo tempo. Non ho con me un libro, della letteratura o della filosofia, ma un uomo a cui sono fratello, un uomo che mi consiglia, che mi consola e mi mostra amicizia, un uomo che mi capisce e che capisco. Prendo in mano i Saggi e la carta stampata scompare nella penombra della stanza. Qualcuno respira, qualcuno vive con me, un estraneo è entrato a casa mia e già non è un estraneo ma qualcuno che sento amico. Quattrocento anni svaniscono come fumo: non è il seigneur de Montaigne, il gentilhomme de la chambre [il gentiluomo della camera] di un dimenticato re di Francia, non il signore del castello di Périgord che mi parla: egli ha tolto la gorgiera bianca plissettata, il cappello a punta e lo spadino, si è tolto la gloriosa catena dell’Ordine di San Michele dal collo. Non è più il sindaco di Bordeaux che mi viene a visitare, non il gentiluomo e non lo scrittore. È arrivato un amico, per consigliarmi e parlarmi di sé. Talvolta nella sua voce c’è un’ombra di tristezza per la fragilità della nostra natura umana, per l’insufficienza del nostro intelletto, per il campanilismo dei nostri leader, per la barbarie e l’assurdità della nostra epoca: è quella nobile tristezza di cui Shakespeare, suo discepolo, dotò in modo indimenticabile i suoi personaggi preferiti, Amleto, Bruto e Prospero. Ma poi scorgo il suo sorriso: perché te la prendi tanto? Perché ti lasci provocare e umiliare dalla follia di quest’epoca? Tutto ciò tocca in fondo solo la tua pelle, la tua vita esteriore, non la tua essenza. Ciò che è esterno non può prenderti nulla né turbarti, finché tu stesso non ti lasci turbare. «L’homme d’entendement n’a rien à perdre» [L’uomo saggio non ha niente da perdere]. Gli eventi temporali non hanno alcun potere su di te finché te ne tieni distante, la follia dell’epoca non è una vera calamità finché conservi la tua limpidezza. E anche le peggiori esperienze, le apparenti umiliazioni, i colpi del destino li vivi solo finché ti mostri debole davanti ad essi: chi infatti, se non tu, gli attribuisce valore e importanza, piacere o dolore? Niente può elevare o denigrare il tuo Io interiore se non tu stesso, né la pressione più forte può neutralizzare dall’esterno chi resta fermo e libero dentro di sé. Sempre, e in special modo quando l’individuo è minacciato nella sua pace spirituale e nella sua libertà, la parola e il sapiente consiglio di Montaigne saranno un sollievo, perché nulla ci protegge maggiormente in un tempo di confusione e di fazioni opposte che la lealtà e l’umanità. È sufficiente un’ora o anche mezz’ora con il suo libro per incontrare una parola giusta e leale. Sempre e ogni volta, ciò che ha detto secoli fa è ancora valido e vero per chi lotta per la propria indipendenza. La nostra più alta gratitudine deve essere rivolta a coloro i quali, in un’epoca così inumana come la nostra, fortificano l’umanità che è in noi, a chi ci esorta a non rinunciare a ciò che di unico e irrinunciabile possediamo, il nostro Io interiore, e a non dare valore alle pressioni e agli obblighi esterni, siano essi temporali, statali o politici. Perché solo chi rimane libero, contro tutto e tutti, incrementa e protegge la libertà sulla terra.
 

da Montaigne
Stefan Zweig

 

 

Di un detto di Cesare
 

Se ci soffermassimo qualche volta a considerarci, e se il tempo che impieghiamo a osservare gli altri e a conoscere le cose che sono al di fuori di noi, lo spendessimo a sondare noi stessi, vedremmo facilmente come tutto questo nostro edificio sia costruito di parti deboli e difettose. Non è forse una singolare prova d’imperfezione non poter trovare soddisfazione in alcuna cosa, e che neppure col desiderio e con l’immaginazione sia in nostro potere scegliere quello che ci occorre? Di ciò fornisce buona prova la gran disputa che c’è sempre stata fra i filosofi per trovare il bene supremo dell’uomo, disputa che dura ancora e durerà eternamente, senza soluzione e senza accordo:
dum abest quod avemus, id exuperare videtur
Cætera; post aliud cum contigit illud avemus,
Et sitis æqua tenet.

[finché ciò che desideriamo ci sfugge, ci sembra che valga più di ogni altra cosa; se lo otteniamo desideriamo qualcos’altro e un’eguale sete ci possiede]
Qualsiasi cosa ci capiti di conoscere e di godere, sentiamo che non ci soddisfa, e andiamo anelando dietro alle cose future e sconosciute, giacché le presenti non ci saziano: non perché non abbiano, a mio parere, abbastanza di che saziarci, ma perché le percepiamo in maniera malsana e sregolata,
Nam, cum vidit hic, ad usum quæ flagitat usus,
Omnia iam ferme mortalibus esse parata,
Divitiis homines et honore et laude potentes
Affluere, atque bona natorum excellere fama,
Nec minus esse domi cuiquam tamen anxia corda,
Atque animum infestis cogi servire querelis:
Intellexit ibi vitium vas efficere ipsum,
Omniaque illius vitio corrumpier intus,
Quæ collata foris et commoda quæque venirent.

[Di fatto, quando vide che i mortali avevano quasi tutte le cose necessarie alla vita e che uomini abbondantemente forniti di ricchezze e di onore e di fama si distinguevano anche per la buona reputazione dei figli, e tuttavia nell’intimo nessuno era libero dall’inquietudine e l’animo era costretto sotto il peso di dolorosi lamenti, comprese che il vizio era nel vaso medesimo e che all’interno era corrotta dal vizio di esso qualsiasi cosa potesse venirvi dall’esterno, anche le migliori.]
Il nostro appetito è irresoluto e incerto; non sa possedere nulla né godere nulla per bene. L’uomo, ritenendo che il vizio sia nelle cose, si riempie e si pasce di altre che non sa e che non conosce, nelle quali ripone i suoi desideri e le sue speranze, e le onora e le rispetta: come dice Cesare, Communi fit vitio naturæ ut invisis, latitantibus atque incognitis rebus magis confidamus, vehementiusque exterreamur. [Accade, per un vizio comune della natura, che concepiamo una maggior fiducia o un più forte terrore per le cose che non abbiamo visto e che sono nascoste e sconosciute.
 

dai Saggi, Libro primo –
Michel de Montaigne, 1580

 

 

Per un pelo
 

Non ricordo più tutte le impressioni riportate dalla mia prima lettura di Montaigne. In ogni caso, mancò la meraviglia. Per me era naturale che un’opera simile esistesse e continuasse a parlare con voce sempre viva. Che sciocchezza. Oggi l’esistenza di qualsiasi cosa buona mi riempie di stupore. E dal momento che i Saggi sono davvero una cosa buona (addirittura una delle migliori che lo spirito umano sia riuscito a creare), tutto in essi mi sorprende, e in primo luogo l’intreccio di circostanze, eccezionalmente propizio, che ne rese possibile la stesura. Poco mancò che un bimbetto, battezzato col nome di Michel, morisse subito dopo il parto. A quel tempo l’alta mortalità tra i neonati era un fenomeno così comune che non se ne indagavano nemmeno le molteplici cause. Dio ce l’ha dato, Dio se l’è ripreso, e il fatto che il minuscolo defunto avesse ricevuto in dono un talento straordinario sarebbe per sempre rimasto un mistero insoluto. Il bambino, comunque, sopravvisse; benché in qualunque momento, ora, settimana, anno potesse cadere vittima dei più svariati morbi letali il cui elenco occuperebbe diverse pagine dattiloscritte. E che dire poi degli incidenti? Montaigne avrebbe potuto cadere da un albero, da cavallo, dalle scale, ustionarsi con l’acqua bollente, rimanere soffocato da una lisca di pesce o annegare mentre faceva il bagno in un fiume. Del resto queste sono tutte cose che avrebbero potuto capitargli quand’anche fosse cresciuto. Sul Montaigne adulto sarebbero gravate ulteriori insidie: duelli, una rissa casuale all’osteria, il pernottamento in una locanda che poteva andare a fuoco per una semplice disattenzione. Il motivo principale per cui avremmo potuto benissimo non leggere i Saggi è comunque la guerra di religione che allora imperversava in Francia. Non c’era posto per posizioni neutrali, né vi erano anfratti in cui aspettare, come i topi, che passasse la bufera. La tempesta infuriava da troppo tempo ormai, e aveva già spazzato il Paese in lungo e in largo più volte. Montaigne si schierò dalla parte dei cattolici e partecipò addirittura ad alcune spedizioni armate contro gli ugonotti. Non si sa, però, se lo fece con lo zelo necessario. La sua intelligenza critica non avrebbe potuto trovare asilo in nessuna delle due fazioni in lotta. Non per questo i pericoli cui andava incontro furono minori. Al contrario, la minaccia poteva venire da entrambe le parti. Del resto, in un simile fortunale non si moriva soltanto per le proprie idee. Diamo un’occhiata. Ecco, sta volgendo al termine una giornata autunnale, il sole è già calato. Lungo un sentiero che si snoda nella foresta tornano a casa due cavalieri, un viaggiatore e il suo valletto. Non li si distingue bene, c’è nebbia e veloci stanno calando le tenebre. All’improvviso dai cespugli risuonano degli spari, si odono un grido, il nitrire dei cavalli impauriti, lo spezzarsi di un ramo e lo scalpiccio degli aggressori che si dileguano nel folto del bosco. Il cavallo s’impenna, il viaggiatore spalanca le braccia e stramazza esanime al suolo. Ebbene, uno stupido errore; qualcun altro sarebbe dovuto passare proprio per quella stessa strada e a quell’ora, non l’ottimo signor Michel de Montaigne che ora il valletto terrorizzato sta scrollando, nel vano tentativo di riportarlo in vita. La vittima aveva passato la trentina da un pezzo, era ormai prossimo ai quaranta e aveva appena iniziato a progettare la sua opera maggiore. Un foglio bianco e un calamaio con una penna d’oca appuntita lo attendevano sul tavolo, nella torre di un piccolo castello. Forse su qualcuna di quelle carte già campeggiavano in nero le prime frasi… Come non meravigliarsi, dunque, del fatto che nonostante tutto i Saggi siano stati scritti? Che siano comparsi nella loro stesura originaria quando ancora era in vita l’autore? E che, soprattutto, l’edizione non sia andata bruciata insieme con il suo stampatore? Non c’è niente di più facile, infatti, che trovare migliaia di opinioni poco ortodosse in uno scrittore che la pensava a modo suo. E, infine, come non meravigliarsi che le numerose integrazioni all’opera ormai pubblicata – tali da restituirci i Saggi nella forma definitiva che conosciamo oggi –, non solo non siano state dimenticate, perdute o magari rubate, ma al contrario si siano preservate per essere inserite nell’edizione successiva, tre anni dopo la morte dell’autore? Propongo dunque di leggere i Saggi con meraviglia. Se il destino avesse vanificato la loro creazione, di certo sarebbe toccato a qualche altra opera o a più opere insieme rappresentare la suprema misura intellettuale del XVI secolo. E non avremmo neppure sospettato che quel prestigioso piazzamento fosse dovuto a un banale forfait. Nella fitta trama della storia difatti non esistono buchi. O, meglio, ci sono, ma non c’è modo di dimostrarne l’esistenza.
 

da Letture facoltative –
Wisława Szymborska

 

 

 
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* in copertina e nel post
la “Cosmographia
di Sebastian Münster, 1544
** la citazione è di Stefan Zweig