Hilarotragoedia – G. Manganelli

Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L’UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l’omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disama e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.

Discendere, è da notare in primo luogo, è operazione agevole; ad eseguirla, non temerai di intopparti in impacci, preclusioni, dinieghi, ripulse gravitazionali: né dovrai ammusarti la strada con le vibratili froge cerebrali; ché l’intero universo è così callidamente strutturato da fare di tutti i possibili movimenti questo solo sollecitante ed aperto, cattivante, anzi allegrante, naturale, naturalmente rapido di sempre più rapidissima rapidità. [..]
Si noti come questa vocazione discenditiva si essempla nel nostro corpo, fusiforme verso i piedi, come si addice a ordigni di scavo, quali sono le talpe dei talloni, con che a noi medesimi scaviamo la tomba in amica argilla; a trivella ci attorcigliamo dall’ombelico in giù, con quel breve e autonomo cavicchio del membro e, oltre, l’alluce da trifola tenta la terra terragna cui inabita il tartufo del diavolo, e vi apre unghiata di abisso. Dalla guglia, dalla garguglia della tua testa d’osso, amico, mia comproprietaria di genitali, mio complice in distillazione d’orina, fratello in escremento; e tu anche, preventivo cui faticosamente mi adeguo, modello di teschio, mio niente scricchiolante ed ottuso, mio conaborto, conaborto, conversevole litopedio; dalla infima cima sporgiti, abbandónati al tuo precipizio. Sii fedele alla tua discesa, homo. Amico.

Chiosa al concetto di discesa

Non pur naturale è questa vocazione dell’andare all’ingiù, ma pacifica ed amica: sebbene di gaudio allegante, asprigno, astratto; ma ridevole anche: [..]
Io considero: stanno i beati nell’altissimo dell’empireo, e spingon piede avanti a piede su per quel vitreo, arcaico parquet periclitante; ed è certo gran distinzione. Ma pensatelo, l’abisso che gli s’apre sotto! Quale oneroso compenso, ad una vita castigata, di economizzati genitali, stomachi piluccanti, storielle scipite, librarsi per nuvole uranie che ad uno sbuffo di vento si astringono a quattro scacchi di fazzoletto da priore, mentre, al ruotare degli ingranaggi serafineschi, alle madonne alabastrine e senza mestrui venta su per le gonne il fiato delle bestie zodiacali; e si consideri insieme quale pace, pace naturale e imperfettibile, tocchi ai non più speranti spiriti perduti, situati nel profondo dello sprofondo, incapaci di ulteriore caduta, non più memori di altezza, ché tutta l’hanno incenerita nel loro infinito tuffo; né amorosi di essa, ché la nozione stessa di alto è negata alla loro perfettissima bassura; si consideri come insolenti costoro delibino la propria orizzontale sinecura; come sia loro estranea ogni invidia degli altissimi –coloro che non hanno eseguito la caduta, che ignorano la salvezza dell’abisso, che hanno mortificato la naturale vocazione discenditiva delle membra umane –i beati vertiginanti, che lassù tralucono, ciambreri del divino, indaffarati, officiosi, sempre labili a travalicare, a rovesciar champagne o pitale, ove incespichino in manto di cometa, o diano di alluce depilato e scallito in sampietrino di asteroide. Dunque: ciò sia satis a dirti che la tua vocazione al precipizio non è rinunciante o censurabile: ma riposata, saggia, onestissima; solenne anche, giacché tutta una vita occorre alla consumazione della gran caduta; et anche: rationalissima.

Nota sui «verba descendendi

Che del discendere si diano modi, o guise, variati, è cosa pacifica ed ovvia: come si proverbia siano quelli del morire, dell’uccidere, dell’amare.

Di per sé, discendere pare verbo disadorno, povero e frusto: sa di cosa opacata dall’uso, o vestito affranto e liso. I lessici concordamente affermano designi «trapassare da luogo più ad altro meno alto»: che è cosa quasi frivola. Chi lo usi a designare gesti corporali e quotidiani ha in mente, oggi, trite scarpe e ghette narcisiste per scalinate istituzionali, fuoriuscenti da scatolame di treni o tranvai, o sotterranee paranoiche: ma ventò, forse, un tempo di mongolfiere a mezz’aria, carnose nuvole in calzamaglia.

Ma ecco l’incoativo chinare, di cosa che abbia in animo il proprio crollo, e l’abbia caro, ed a quello intimamente inchini e punti, ma ancora traccheggi: come sarà di giovane femmina, atta a querele di colti monologhi, vogliosa di fendere la tenera gola, cui infreni (come in retorica stampa neoclassica) cura di figli, o divertissement d’amante, pedanterie di peccato, sofismi carnali, svagatezza di films suburbani, o il sacramento dell’alcool. [..]  È verbo, dunque, di consenso, di collaborazione: e si applichi a chi buona non giudichi morte che non gli sia propria, scelta, lavorata, eseguita con competenza, tecnica concentrazione da idraulico dabbene; ché gli altri tutti si fanno ammazzare a furia di coltelli, manrovesci di germi, ingrumo iracondo di sangue; e buttare nella negra ventraia della terra, indispettita alla bisogna vile; malmorti che di lì rigallano a balbuzie di ripetitive rinascite, insapore pasta di uno scotto, decotto e raffermo univero.

Altri calano: bel verbo, di buon nerbo,
ma più ancora bell’agio, pivialesco, presuppone latitudine di deretani, tuniche, gonne o guardinfanti; vuole in ogni caso corpaccioni, ma non tracotanti: come dovettero essere i corpi enfi ma ormai smagati dei draghi estremi, gli spiralanti ecatodentati; védili i verdi, squamati di nero comatoso, irti del vanissimo, malinconioso fasto di remeggi ed ali, tutti imbustati di sproni ed artigli, come una decidua sciantosa, tremule le già tremende mandibole, védili morire pei caldi mercoledì dell’aprile del trentamillanta, deliquescenti a mezz’aria, [..]; essi calano; né un che di sacerdotale, e tuttavia civilissimo, è assente dagli occhi dei discendevoli mostri: umidi, educati; memori, sullo strapiombo dell’agonia, di disperse ecolalie d’infanzia.

Digradano i sassi, i monumenti, i templi; una chiesa, anche. Ché non di rado nelle chiese, queste dialettali conche mediocre mattone, funzionari subordinati ed infimi –ove non abbiano conseguito la ambigua fortuna terrena della beltà delle forme –non di rado, dunque, in esse si concepisce, s’ammorula, e concresce, e infine spunta, e si dibatte, e cozza a voler luce, una smania di diniego, e fuga, e rifiuto, una nausea torva e vana; pii e dissacrati corpi. Si schermiscono dalle reliquie; fan contrasto a sagrestani e priori; e, rancorose, principiano a meditare la propria fine. Così perirono le religioni vere dell’antico, e vanno perendo le attuali verissime; giacché gli si rivoltano contro i mattoni, le negano e scelgono di morire, per non farsi complici della acclarata menzogna del vero. Non è agevole, per una chiesa siffatta, attendere oggi alla propria morte; ché gli arguti ecclesiastici van ponendo in atto certe loro cautele e repressive e preventive, come usano; giacché il tumulto dei mattoni li sputtana e inquieta grandemente. Dunque, qui si ammonisce la chiesa rivoltosa di tener accorto: duplice, anche, e sleale; ché non si dà propriamente slealtà ove si fa discorso delle cose ultime. In primo luogo, attendendo con ostentato fervore ai propri compiti di hostess, manutengola o scherana della divinità, farà ciera cordialissima agli ospiti devoti, agli infedeli ringhierà simulati rimbrotti; offrirà con losca grazia matto barbaglio di ori, e malsano pallore di longilinee, prepuberi candele; porgerà orecchio, sollecito sindacalista delle umane angustie, a rivendicazioni e lagnanze; le sentenzierà giustificate e ragionevoli; e, dal lato burocratico, provvederà al loro sollecito inoltro, su moduli ben compilati, completi in ogni loro parte, chiaramente leggibili, non senza quella dovizia di informazioni pettegole e riservate che qualificano la diligenza del buon servitore, affinché lassù si dica: «La chiesupola del contado di… è officiosa ed efficiente». Per quel tanto di mafia che dà colore di grande autorità alle cose superne, darà opera –della chiesa si discorre –perché si sfamino di miracolosa offa certi casi di patente ed euforica ingiustizia: che è tuttavia cosa ardua, perché per l’appunto questi vengono custoditi a maggior gloria dei Gerarchi, che se ne ripromettono propaganda e dilazionato dirupamento. Ma, insomma, miracoli, grazie ed assensi, sia pure di qualità mezzana, interventi stinti e smessi, si possono sempre abborracciare, e la gente infelicissima e derelitta se ne rallegra e smemora. Con fremitar di statue voluttuose, con lazzi di volute lievitanti, la chiesa si attirerà la benevolenza dei soprastanti –come golosamente gli angeli delibano il technicolor –e insieme la miserrima venerazione dei creduli credenti. Si apparecchierà pertanto un clima di fiducia, non senza coloriture isteriche, da trarre in inganno i più scaltriti monsignori; giacché, s’è detto, i preti han da tempo subodorato codesta diserzione dei mattoni, e in tralice tengono d’occhio commessure e scarpe; e si dice aggavignino di notte di corde e gomene le chiese in suspicione, per finti restauri e riattamenti incamiciandole in macchine poliziesche di travi e tubi, così da contrastarne, come si usa nei falansteri dei dementi, la occulta gola del disfacimento. E non nomineremo quei sagrestani e chierici che a notte le saldano di imponente zavorra di culi; o che –simulando sollecitudine per paramenti, candelotti e bellurie, come cose care agli altissimi, gente da giocarelli –fanno notturne ispezioni, irruzioni, perquisizioni: uomini pii, donne caste e sparagne, sagrestani plebei e vespilloni sentenziosi, con fare ridevole e urbano le scrutano parte a parte, e massime le fondamenta e sottocripte, che sarebbero le loro pudende e parti escrementizie: che è cosa villanissima. Così, fino ad oggi, sono riusciti in questa fatiscente cristianità a infrenare la rivolta delle mura sediziose. Ma vi sarà una notte improba, ventosa, piovorna ed amara; notte da tabarri, da pulizia grande sulle lapidi dei cimiteri; notte da cosce coniugali, caritatevoli e pigre; notte in cui ci si schiaccia contro la crosta del pianeta che ci vortica. In una notte siffatta il dio sonnolento ed affamato non solleciti brasato e barolo dai suoi fedeli; ché non ci sono fedeli, in notti siffatte. E, allora, l’onesto tempio scristianato digraderà: prima forzando, scricchiando, pontando come apoplettico il gravame delle mura sclerotiche; scrostandole, fessandole, dilatandole, col vischioso sobbollimento del sangue già semispento, onde la parte mediana sporgerà come mano di annegante; e infine sventrandole, sradicandole di schianto; e franerà per frantume di mura, disfacendo la liturgia pavonazza di stoffe e resecando la pia carne dei campanili senili, e nudo digraderà tra uno svolìo di calcinacci gallineschi; e infine, sconsacrato, riconsacrato pachiderma rugoso, morituro come già i sauri, precipiterà alla dolcezza della fine.

Ma dirupano suicidi silvestri, montani, animali sdegnati alle proprie membra, membra, in lite con l’impaccio delle labirintiche viscere, amanti dai genitali tirannici, enormi; corrono in cima a monti verticalissimi, tafanati da membri petulchi, viticci di carne rugosa, collose lingue da formichiere; da vulve gorgose, pertugi in lichene di pube, mundus, averni per lucum; scattano per l’aria, ossequiosi alla propria vocazione, intenti all’orgasmo del dolcissimo sfracello, membra discendevoli, anche precipitanti.

Precipitare è verbo che ha più del cittadino, del meccanico; descrive scia di fulminose membra per aria asciutta; o furibondo ammusare di aereo, cui scappa la morte. Femmina litigiosa, femmina illusa, disillusa, delusa sventola ruota di sbandierante gonna, all’assalto; sboccia in crisantemo di sé: sul marciapiede si spiega, si ripiega, si disfa. Grande volo, insigne impresa, che vi decora di una dignità che noi invano ci cerchiamo addosso. Seriosi arcangeli, delle vostre minute membra scudisciate una sanguigna lingua di «no» alla ontosa fatica di sbrogliare la disonesta matassa. Davanti a voi noi ci acquattiamo nelle didascalie dei settimanali illustrati; il vostro vento, corpi frettolosi, ci scompiglia i cernecchi; ci svergogna.

Piomba animale morto, corpo chiuso e concluso, fiondato proietto, e fa guasto: come del demonio si dice, che fe’ l’inferno dando di culo nel cielo infimo, dirimpettaio al numero civico paradisiaco; la teologica botta scavò nel cielo vacua calotta, improntata sulle natiche superne. Nella istantanea abside si insinuarono larve di dannati angeli, che poi infarfallirono in dèmoni. Altri dicono fosse appunto quell’ennecamere sterminato apertosi sotto l’immobiliare dell’ano a sollecitare il gran burocrate, pensoso del benessere del Nulla; onde quello creò questo termitaio, questo labirinto di orinatoi e giornali di destra, questo bordello che imbrulicò di crisalidi, onde popolarne, in prosieguo, il Nuovo Spazioso Quartiere, il Distintissimo Distintissimo Neoplasma Livelterrazzo; oppure, come altri favolano, scosse la culata luciferina un languore di ab aeterno semimorte ninfe, sordido lume di feti, che si diedero a masturbarsi di furia con le zampette cieche, e del loro seme semimorto fecero pasta da cose semivive, e ne nacquero questi scherni di pianeti, e puttane di comete, e le pozze umorali delle nebulose; proliferò da codeste tarme lo sconcio universo, da codesti batuffoli di canizie, quali usano le prostitute a farsi igiene agli adoperati genitali –e tutto il sopradescritto termitaio, bordello, bidonville eleva quotidiana preghiera all’Inventore dell’Inferno, dalle mani affusolate, l’intervistatissimo: il Signore delle Galassie e dei Rotocalchi.

Infine, si atterra; come fece il dabben Gerione; il quale, giunto a perpendicolo sulle disperate pietre del perfettissimo «no», con efficienza diè di carrello, e trasse e stese (non senza felice sgranchimento delle membra intorpidite) le zanche nerbute ed ossute e, impassibile la viziosa faccia d’uomo, toccò il fondo. [..]

 

*in copertina
La Caduta dei Giganti –
affreschi di Pietro Longhi
in Ca’ Sacredo a Venezia