Dispacci caraibici


 
Preludio

Verande, dove le pagine del mare
sono un libro lasciato aperto da un maestro assente
nel mezzo di un’altra vita

inizio di nuovo da qui,
inizio finché quest’oceano
sara un libro chiuso e come una lampadina
i filamenti bianchi della luna scemeranno


 

“Mi hanno chiamato l’Oscuro, e le mie parole erano di mare. Mi hanno chiamato l’Oscuro e abitavo lo splendore.” – Saint-John Perse

 

 

Le fumate/ morbide che risalgono una valle/ d’elfi e di funghi fino al cono diafano/  della cima m’intorbitano i vetri/ e ti scrivo di qui ..

 S. Lucia

Verso la metà di Blue Jasmine cominciano i preparativi per l’atterraggio. Tra poco nel rettangolo del finestrino apparirà la Martinica e poco dopo St. Lucia. Ripenso a un volo fatto con Derek da New York, cinque o sei anni fa, a come a questo punto era impaziente e, seduto dal lato del corridoio, mi ripeteva “la vedi, la vedi?”, finché non l’avevo vista, con la vegetazione fitta di un verde intenso e incontrollabile che ricopre interamente montagne e colline, dalle creste giù fino alle baie e alle scogliere che s’innalzano dall’acqua turchina, poi i picchi del Piton a guardia del villaggio di Soufrière, le casupole minuscole lungo la costa come in un plastico poi sempre più grandi [..] Piegandomi verso il finestrino intravedo la punta di Cap Estate e la baia di Pugein Island e provo quello che già so ma che quando lo provo è sempre diverso da quando ci penso: il sentimento che negli anni quest’isola mi è cresciuta dentro. So cosa sarà quando si aprirà lo sportello e attraverserò la pista, come sarà sentire il caldo dei Caraibi [..] Sono immagini che ritornano ma non come quelle di un film gia visto, più come una poesia o un pezzo di musica, l’adagio delle isole: non importa quante volte lo hai ascoltato, sai che a un certo punto ti fará un certo effetto.

  

A St. Lucia, Derek è una gloria nazionale. [..]
Tra la casa di Derek e la strada che porta alla spiaggia c’è un piccolo prato brullo nascosto da cespugli e piante dalla chioma arcuata, acacie e calabash soprattutto. Dall’alba al tramonto, sei o sette cavalli, sciolti o legati ai fusti con una lunga corda, pascolano nella radura che dà sulla scogliera e si apre sul mare. È un breve tratto di terra sospeso tra un qui e un là, calmo e con una luce che verso sera allunga le ombre degli arbusti e dei cavalli e rende sempre più intense e rosse le tinte del loro manto e scalda il giallo dell’erba strinata. Mi piace sempre passarci. [..]
Lì c’era un’acacia bellissima, con la chioma tutta spostata dal vento, sotto cui mettevamo gli asciugamani e le sedie pieghevoli. L’imperfetto non è nostalgico. La prima cosa che hanno fatto i costruttori è stata sdradicare le acacie e sostituirle con le palme [..]

 

Le acacie

Finora potevamo guidare (non io però) attraverso
l’ampio pascolo dietro casa coperto di pozzanghere
fino alla spiaggia torrida e deserta e parcheggiare all’ombra
emaciata delle acacie che stampano quei fiorellini gialli
(le spiagge vuote e senza impronte fanno parte del mio mestiere);
poi sono apparsi uomini con fettucce e teodoliti per misurare
il terreno selvaggio e accidentato. Guardavo gli acri condannati
dove costruiranno l’ennesimo hotel elitario
con la gente comune sbarrata fuori. I nuovi artefici
della nostra storia si arricchiscono senza rimorsi
e sono, in effetti, i profeti di una politica
che farà dell’isola un centro commerciale, con i frangenti
che sorridono come camerieri e tassisti, in queste nuove piantagioni
sul mare; una schiavitù senzs catene, senza sangue sparso –
solo recinti metallici e cartelli, la nuova degradazione.
Provavo una tale libertà a scrivere sotto le acacie.

Derek Walcott, Egrette bianche

Sto pensando che queste isole non le ho mai cercate. Non facevano parte del mio immaginario finché non ho iniziato a leggere Walcott e da lì le ho incontrate sempre più spesso anche in altri scrittori, soprattutto Trinidad. Poi Walcott è diventato Derek e con lui è arrivata l’isola di Manhattan, che era già parte della mia topografia mentale, e poi St.Lucia, che invece non lo era. A Trinidad non ci sono mai stato e anche adesso che ci sto andando è solo perché mi è capitato. Mi viene in mente un documentario sulla storia delle mappe che ho visto su internet qualche tempo fa.. A un certo punto un cartografo inglese intervistava un giovane polinesiano, discendente di un capo tribù che aveva impressionato il capitano James Cook per come sapeva orientardi tra miriadi di isole, tanto che sembrava conoscere a memoria la posizione di ognuna. Da buon inglese Cook gli aveva chiesto di disegnare una mappa dell’arcipelago, che è arrivata fino a noi. Commentandola, il discendente spiegava che la visione e i codici di un polinesiano sono molto diversi da quelli di un europeo. Ad esempio, le isole disegnate più in grande non sono quelle fisicamente più grandi ma le più importanti. E anche l’idea stessa di navigazione per il mare è diametralmente opposta: non è la tua canoa che va verso l’isola; tu sei fermo, è l’isola che ti viene incontro.

 
 

Il memoriale im ricotdo degli schiavi deportati nelle Antille
    

 Nel 1780 le Isole Sopravento furono colpite dall’uragano più devastante a memoria d’uomo. Per trentasei ore, dalla sera del 10 Ottobre alla mattina del 12, St. Lucia fu travolta dalla furia degli elementi. Vi persero la vita piu di ottocento persone assieme a innumerevoli animali. A Castris rimasero in piedi solo due case e metà della flotta britannica andò perduta. I proprietari della piantagione, perlo più francesi, si trovarono in serie difficoltà e a corto di forza lavoro sia perchè, come recita un documento dell’epoca “la carestia, la fame, la miseria seguite all’uragano, gli obblighi di guerra e confische da parte degli inglesi costarono alla colonia la perdita di duemila negri”, sia perchè altre centinaia di schiavi approfittarono della confusione per fuggire sulle alture. Un terzo dei “tormentati proprietari francesi” lasciò l’isola con gli schiavi rimanenti e si trasferì nella Trinité Espagnole (Trinidad) che offriva loro asilo.

 
 
 


“Così si apre uno squarcio nella loro pergamena e d’un tratto,
in un ampio abbandono di luce, appare quell’isola nota,
al viaggiatore Trollope e al suo compagno di viaggio Froude,
per non aver creato nulla. Neanche un popolo. L’ombra del jet
trema su giungle verdi, decisa come un pesciolino

tra le alghe”

È Derek, un rientro a Trinidad.

   

Trinidad

Verso la fine degli anni Sessanta, quando Derek iniziava a pubblicare su alcune importanti riviste americane come il “New Yorker” o “New Republic” poteva capitare, ed è capitato, che un redattore, nel trovarsi sotto gli occhi il nome di un villaggio, diciamo Laborie, non riuscisse a collocarlo e una volta ottenuta l’informazione da Derek proponesse di mettere una nota. Nell’era di Google sembra un eccesso di zelo, pedanteria, ma allora era diverso, eppure Derek si rifiutava. L’atteggiamento sarà stato: si abitueranno presto, e su questo aveva ragione. Oggi per la maggior parte dei lettori di poesia i nomi dei villaggi di St. Lucia suonano familiari come una litania sacra agli orecchi di un credente. Gros Islet, Anse la Raye, Soufière, Choiseul, Laborie, Vieux Fort,Micoud, Praslin, Dennery, Dauphin : sono tutti villaggi poveri sorti in riva al mare che dal mare hanno sempre tratto quel poco che serviva, uno per ogni baia che s’incurva nella costa, a distanza regolare come ore sul quadrante dell’isola, un libro delle ore miniato con case e baracche addossate una all’altra su poche vie battute dal sole all’Ora Sesta o intagliate dalle ombre dei tetti nella risacca del Vespro, con gruppetti di pescatori che spingono le canoe in acqua nella prima luce delle lodi mattutine, una chiesa, una scuola se va bene; paesini emaciati come i cani che percorrono le strade. [..] Al redattore scrupoloso non sarebbe mai venuto in mente, in tutta buona fede, di proporre una nota per un villaggio inglese o americano, anche se altrettanto introvabile sulla cartina. Meglio un’apparente e fiera oscurità, allora, di una luce condiscendente. Meglio non assecondare l’inerzia intellettuale. Meglio l’irriverenza sovvertitrice della poesia

  
 

 

 

Al ritorno ci fermiamo lungo la strada a prendere una birra da bere in macchina one the road. Che ci sia un’espressione apposta rende immediatamente rende immediatamente meno ironico il fatto che Mr. Bacchus abbia un’autonoleggio. Un cartello sulla porta annuncia semplicemente: Actrictive Walter wanted (Cercasi cameriera attraente), il che dice l’ultima sul politically correct a Trinidad. So che non dovrei nemmeno pensarlo ma c’è anche qualcosa di sano in questa schiettezza, almeno sai subito come stanno le cose.
Arrivati a Port of Spain ci sediamo fuori da un bar a un incrocio dove passano pochissime auto. [..] La figlia di Michele si chiama Anya, la sua amica Ornella. [..] Al tavolo ci sono anche Ché Walker, il drammaturga inglese, e Maria Nunes, una delle maggiori fotografe del carnevale [..] Più parlo con Michele più mi è simpatica, è una donna sfaccettata. Mentre mi sta raccontando che ha appena scritto un saggio sul libro di Giobbe, passa un ragazzo in macchina, saluta, fa la retromarcia e scende. È una star della soca, mi dice Michele. Ché Walker mi chiede se ho mai scritto per il teatro. Quando gli ho detto che ho fatto da poco una riscrittura delle Baccanti si esalta perché ne ha fatta una anche lui, che s’intola The Lighting Child, e da quello che mi racconta direi che è molto più spregiudicata della mia [..]. Mentre parlo con Ché mi arrivano stralci di un’altra conversazione: Anya fa la stilista, ha vinto un reality di moda americano [..] e adesso ha un suo programma in televisione. Ché invece è venuto a Trinidad per scrivere, starà qui fino a marzo per finire una pièce. Era stanco dell’inverno a Londra e stava insegnando troppo intensamente. Il cantante di soca se ne va e dopo una ventina di minuti si ripete la stessa scena ma stavolta dalla macchina scende Ché Lovelace, uno dei figli dello scrittore Earl Lovelace. [..]  

 

 

Per Jouvay, l’inizio del carnevale, Ché Lovelace organizza una sua band. [..]. Anya ci invita a una festa a casa sua il sabato prima del carnevale; per ora gli invitati sono seicento (stasera devo avere un problema con le cifre), Maria dice che i diavoli blu di Paramin sono imperdibili. Ornella, che a Paramin c’è nata, conferma. Conferma anche Che, che da un po’ di anni è uno di loro, un diavolo blu. Le informazioni iniziano a essere davvero troppe. Finiamo a parlare dei Jabés Jab e Ché dice una cosa interessante: da ragazzino doveva sempre cercare di capire tutto in modo chiaro, dare un significato univoco alle cose, ma poi crescendo si è reso conto che ci sono cose che non vanno capite in quel modo, che bisogna viverle e lasciare che rilasciano da sole i loro significati, ambivalenti, complessi. È un percorso che conosco, imparare ad attendere, ad accogliere le contraddizioni senza per forza doverle risolvere con la logica (a farlo ci pensa il paradosso). Per usare un’immagine suggerita dal contesto: non colonizzare intellettualmente un territorio e basta, assorbirlo ed essere assorbiti. In fondo è una delle cose che ti insegna l’arte. Cosa rappresentano i Jab Jab? Tante cose credo, anche contrastanti. Intanto dal fondo della strada inizia ad arrivare una musica inusuale, prima solo qualche nota sparsa, poi all’improvviso un fragore metallico impressionante,

  

 

 Della storia delle steelband non so molto. Quello che conosco, lo so dalla prosa di Lovelace e da un paio di libri che mi sono portato dietro.. I racconti parlano dei panyard come di luoghi inaccessibili a orecchie estranee, di sentinelle piazzate in punti strategici per avvistare i membri delle altre band venuti a spiarli: il pezzo doveva rimanere segreto fino al carnevale. Chiaramente non è più così. .. A casa si Derek ho sfogliato un libro molto bello, The illustrated History of Pan … La generazione che ha cominciato a “battere il ferro” – si dice così, beating iron, perché inizialmente usavano qualsiasi cosa di metallo come strumento – era veramente stilosa: pantaloni a sigaretta, camice a maniche corte, cappelli con la tesa stretta, il tutto una decina di anni prima che andassero di moda a Londra. Avverti all’istante che quel mondo era il frutto di una congiunzione particolare. C’erano gli americani, le basi militari, il flair arrivava da lì, dai dollari. Erano esotici e urbani insieme, come i cantanti di calypso. Ma in quelle immagini senti anche la presenza del duende. E questo arriva da lontano, era passato dai tamburi alle canne di bambù e nel metallo aveva ritrovato le catene. Quando hanno iniziato ad accordare i bidoni il ritmo ha incontrato la melodia, un equilibrio difficile da mantenere, e col tempo si è persino alle sdolcinature delle steelband da hotel, ai pan per turisti. Qui però c’è ancora qualcosa, al di là delle magliette con il logo dello sponsor – Carabbean Airlines – che ti dà la misura di quanto il fenomeno sia stato addomesticato; ad esserci in mezzo fa impressione.

No money no love – Mighty Sparrow

Ah Kill Ah Man – Lord Blakie

Soca Festival 2017 – Devon Matthews & Ella Andall

 

Oggi andiamo a trovare Earl Lovelace [..] Lovelace parla a frasi brevi, staccate, e anche quando sta dicendo cose a cui avrà giá pensato un milione di volte sembra che le stia riconsiderando ancora prima di dirle. [..] L’uso del vernacolo, ci dice, non è solo riproduzione di come parla la gente, un modo di rendere giustizia alla loro realtà, è anche un’arma contro la retorica del potere perchè contiene la saggezza di un popolo, la sua visione del mondo; contiene i bisogni, le aspettative delle persone; in definitiva la loro irriducibile umanità. Se si riesce ad esprimerli in letteratura, si dà loro un posto nel novero della sensibilità umana. Gli dico che a mio avviso la questione della doppia lingua, che nei Caraibi è così preminente, in fondo riguarda ogni scrittore: la lingua non è mai una sola anche dove non parlano dialetti o varianti di sorta e c’è sempre un equilibrio da trovare tra l’espressione letteraria (chiamiamola così) e la voce individuale, la declinazione personale del vernacolo, altrimenti la parola sulla pagina resta lettera morta. Lovelace annuisce, è sempre una questione di tono.  Aggiunge che l’inglese di Trinidad è spesso associato alla comicità ma, come tutti i vernacoli, contiene non solo la saggezza ma anche la spiritualità della gente. [..].
È una considerazione importante la sua, perché qualsiasi creolo, come qualsiasi dialetto, è un’arma a doppio taglio: la schiettezza e l’irriverenza congenite con cui può mettere in ridicolo il potere e la sua retorica si rivolgono facilmente anche contro ogni aspirazione che sia avvertita come al di sopra della lingua, dell’ambiente sociale in cui è parlato, facendolo diventare, di riflesso, un modo di mettersi nel ghetto da soli, come accade con gli slang o i gerghi. E in più per uno scrittore è facile fermarsi all’umorismo. Più difficile è cogliere l’elemento rivelatore. [..]. Più andiamo avanti a parlare più è chiaro che per lui l’idea della letteratura come forma di resistenza è centrale. Ne ha scritto nei saggi, la troviamo declinata nei romanzi. I suoi eroi, o anti-eroi, rappresentano sempre un’alternativa alla società, un modo altro di stare al mondo. È così pure per i nullafacenti. Quella che agli occhi di Naipul è un’indolenza contagiosa che avvelena il sangue, per Lovelace ha un valore in quanto incarnazione di un rifiuto: in sostanza, meglio non far nulla che fare quello che ti viene detto. Si tratta di una forma di opposizione che arriva dai tempi della schiavitù, quando le alternative al sistema della piantagione erano due: scappare o boicottare, perché quando il nemico è molto più forte di te non puoi affrontarlo dii petto. In entrambi i casi le punizioni erano tremende, ma il boicottare, diversamente dalla fuga, poteva essere dissimulato, attuato con astuzia, in modo obliquo, e prendere la formula della negligenza, dell’indolenza. Per certi versi non è cambiato nulla, il colonialismo oggi è economico, il modello è il consumismo di stampo americano, un’altra forma disumanizzante, ormai subdola e pervasiva come un gas inodore, che non puoi combattere apertamente. La resistenza di cui parla Lovelace è prima di tutto un’attitudine dello spirito. Restare umani, o meglio ancora diventarlo, espandere i confini di quello che significa essere umani. La letteratura entra qui, per dare forma alla rivolta interiore e inventare un’altra vita a partire dalla visione di ciò che è, grazie all’immaginazione, che non serve a costruire mondi fantastici ma a vedere ciò che non è visibile, sia che già esista o che sia solo in potenza. Lovelace è uno dei pochissimi scrittori caraibici di livello internazionale a non essere emigrato. È cresciuto  e ha vissuto sempre insieme alla gente di cui scrive nei romanzi, ed è a Trinidad e ai Caraibi che ha dedicato le sue riflessioni saggistiche, perché crede fermamente che sia proprio queso – per la sua commissione di razza dislocate dalla terra d’origine, per i traumi della sua storia – il posto da cui cominciare per trasformare il Nuovo Mondo in un mondo muovo, al di là del facile mito del “”all ah we is one” che qui si sente ripetere ma non è quello che si vede.

 

Un bambino, un bambino è un cane ossuto no sun will shine in my day today sul bordo della strada (no sun will shine) fermi davanti a un nucleo di baracche sotto la pioggia the high yellow moon wan’t come out to play che comincia a infittirsi (won’t come out to play), la povertà di qui fa sembrare Gros Islet I said (darkness darkness has covered my light) un paese rigoglioso. Spostarsi senza macchina (and has changed and has changed my day into night, uuh) è molto complicato now where is this love to be found? (uh-uh-uh) e non siamo neanche nell’interno vero won’t someone tell me? ’cause my life che inizia (sweet life) must be somewhere to be found, yea-eh, più in là, più su instead of a concrete jungle, yeh-eh; i pulmini che portano ai paesi principali sono pochi I saw where the living is harder (living is harder), un tempo nelle piantagioni c’erano delle ferrovie concrete jungle (jungle) perché la canna da zucchero va lavorata il più in fretta possibile oh man, you gotta do your best, yeah dopo che è stata tagliata, ma una volta dismesse le piantagioni no chains around my feet, but I’m not free nessuno aveva più interesse a sviluppare una rete ferroviaria difficile da mantenere I know I am bound here in captivity, è la storia di questa isola, qui le cose vengono abbandonate (never know) never know what happiness is; (never know) never know what sweet caress is, yeah; still I be always laughing like a clown (uh-uh-uh) vengono semplicemente abbandonate, come la gente.  I am suca 

 
La risposta “bianca” a questa situazione è stata quasi sempre quella di sopprimere le altre culture. La risposta “nera”, quando non c’era scelta, era il sincretismo, poi, ben dopo l’emancipazione, il rigetto della cultura europea e il recupero di quella africana, risposta che ha raggiunto il suo apice negli anni settanta con le frange più radicali del Black Powet, ma anche di movimenti come il rastafarianesimo, con il ritorno figurato o letterale dell’Africa. La terza via, abbracciata da scrittori come Derek e, in Martinica, Èdouard Glissant e Patrick Chamoiseau, potremmo definirla “mulatta”. O anche semplicemente la via caraibica, perché qui nessuno è solo “bianco” o solo “nero”, anche quando lo è di pelle. È la via della pluralità e della convivenza fianco a fianco del diverso, non solo nella tolleranza ma nell’esultanza della diversità, nella gioia dell’arricchimento che questa può portare; ed è anche la via dell’ibrido, del bastardo, della quale i cani per le strade dei villaggi del Caraibi sono l’emblema; una via difficile perché è difficile astenersi dal giudizio, dalla proiezione dei propri demoni e dei propri desideri sull’altro, difficile perché è una via non definita, che non offre sicurezze, che non fa prendere voti alle urne. [..]
 
da Dispacci dai Caraibi – Matteo Campagnoli e Stefano Graziani
 

“Santa sia / la bianca testa di un Negro, / sacro sia / il nero lino di un bambino nero…”.
 

Danza Caraibica

Ballano anche le bambine, al ritorno da scuola nei pomeriggi roventi quando il sole ha cotto perbene i castelli di merda di cane, così che i fiumi si levano  come l’intenso più adatto a queste strade. Ballano, saltellano a ritmo, cantano i calypso che sanno già a memoria, agitano le falde delle gonne, ancheggiano, ridono, le loro risate che si spargono come schegge di granata nella dura scorza della collina. Balla! C’è danza nel calypso. Balla! Se le parole piangono la morte di un vicino di casa, la musica ti impone di ballare, se raccontano i guai di un fratello, la musica ti dice balla Balla sulle ferite! Balla! Sei nella merda, balla, il governo se ne frega, balla! La tua donna ti frega i soldi e scappa con un altro, balla. Balla! Balla! Balla! È con il ballo che tieni lontane le disgrazie. Il ballo è la salmodia che stacca la spilla al diavolo. Balla! Balla! Balla! Il carnevale infiltra il ballo in ogni fenditura di questa collina.
 
da il Drago non balla –
Earl Lovelace