S. Francesco d’Albaro – Albergo
di S. Giuliano-Genova,
5 giugno 1907
Mi perdoni, anzi tutto, l’indugio.
Sono stato male – cioè peggio, perché male sto da parecchi mesi. Oggi, il secondo giorno di sollievo, ho rilette per la quinta o sesta volta le sue rime, da capo a fondo.
E per eliminare subito in una lettera come questa i frasari di prammatica, Le giuro, cara Signorina, che non conosco nella letteratura muliebre italiana, presente e passata, opera di poesia paragonabile alla sua.
La «degna ghirlanda» di sonetti che Ella ha saputo foggiare, Le dà il primissimo posto, non fra le donne (fra le donne Ella non ha competitrici: le donne non sanno scrivere) ma fra gli ingegni virili di più belle speranze.
I suoi sonetti–tecnicamente euritmici, disinvolti nell’atteggiamento, nobilissimi nella rima ricca, stanno a pari con quelli di Belfonte (e sono superiori a quelli di Gaspara Stampa, che ne ha di scadentucci assai, povera Anassilla!).
Era dunque naturale che Lei, con tali mezzi tecnici uniti ad una profondità di sentimento e di pensiero eccezionale, ci offrisse la bell’opera umana, artistica, sobria, organica. […]
Ma come fare per dirle che i suoi versi mi sono piaciuti? Si dice così anche quando non è vero. Come fare per dirle che di molti suoi sonetti sono innamorato? Lei non sa, Egregia, che cosa significhi per me l’essere innamorato d’una poesia?
Significa questo: averne la presenza nel cervello, con una dolcezza quasi importuna, sentirne pulsare il ritmo di continuo nelle cose più diverse e più bizzarre: nel mare, nel treno, nel ticchettio dell’orologio, nel soffiare del vento fra i palmizi, nel contare le goccie di creosoto, nel tinnire delle posate, nel gridio de’ bimbi… Proprio! E molti dei suoi sonetti mi perseguitano. Mi balza alla mente una quartina, due: mi abbandono a quella dolcezza: la memoria ad un tratto s’arresta e il piacere del sogno si stronca a metà.
Facciamo un esperimento? Ecco: il suo libro è chiuso, sulla tovaglia (Le scrivo sul tavolo da pranzo, sotto la veranda), un sonetto mi balza improvviso del quale non so il titolo. Questo:
Piangere piano piano con la faccia
contro la vostra spalla vorrei bene
quasi una bimba che non più sostiene
il segreto che l’arde o che l’agghiaccia,
e restare così…
Poi non ricordo più nulla sino al verso
dolce allor mi sarebbe all’improvviso
ritrovare il mio spirito sereno,
rialzarmi e fuggir, squillando un riso.
Poi – ecco – riapro il volume, cerco il sonetto, lo trovo: «un desiderio» e la lettura me ne dà una delizia indicibile, perché tutto il mio spirito è pronto a riceverlo. Mi sono bene spiegato? Le ho confessate queste cose candidamente, come si parla, per non cadere nei luoghi comuni dell’entusiasmo obbligatorio.
Ancora. Gradisce molto Lei, Amalia Guglielminetti, il confronto con Gaspara Stampa?
«Saffo dei nostri tempi, alta Gasparra!»
le diceva il Varchi: e la misera Anassilla fu una grande amatrice, veramente. Il volume delle sue rime mi è caro ed è fra gli altri consolatori di questa mia solitudine: ma se passo dal vostro volume breve a quello denso della vostra sorella cinquecentesca sento tutta la freschezza della vostra anima sgombra di virtuosità retoriche e sento l’accademismo frequente della rimatrice veneziana
«Cantate meco, Progne e Filomena
anzi piangete il mio grave martire!
«Come l’angel che a Febo è grato
tanto
sovra Meandro, ove suol far soggiorno.
e così via con quegli sfoggi di classicismo inopportuno; anche Madonna Gasparina fu vittima della maniera del suo tempo, come noi lo siamo del nostro, con gl’imparaticci d’annunziani. O meglio, lo fummo, perché, per conto suo, Egregia Guglielminetti, può dirsi liberata da tutte le influenze di antichi e di moderni, come già disse il Mantovani. Ella deve, però, aver prediletto molto il volume di Gaspara Stampa: ne ha tutto il profumo dei suoi atteggiamenti più delicati: nella collana «il Signore» specialmente.
«Piangete, donne, e con voi pianga Amore
poi che non piange lui che mi ha ferito.»
«Io benedico, Amor, tutti gli affanni
tutte le ingiurie e tutte le fatiche.»
«Ma veder torsi a poco a poco il core,
misera! e non dolersi dell’offesa…»
Deliziosa, qui, non è vero? È l’amante, senz’artifici: non è più la «Gasparra» saputa e paganeggiante quale ci appare nelle vecchie stampe, discinta in un peplo, coi «begli crespi e ondeggianti capegli» coronati di una corona d’alloro (oh! l’alloro!) e con nella sinistra una cetra che vorrebbe essere greca ed è seicentista. Ma Ella, Amalia Guglielminetti, ha saputo liberare le sue creature da ogni impaccio retorico, pure affinandole ai modelli sommi.
Sa da quante ore sono con Lei? Da quasi tre! Ho cominciato a scrivere alle 9: sono le 12!
Mi perdoni! Io sono qui fino alla fine di Giugno, poi passerò a Torino (un giorno) per salire alla montagna direttamente e rimanervi fino all’autunno.
Sto molto poco bene; e ho anche qualche sintomo, lieve di un male grave.
Gradisca i sensi del mio rispetto profondo e mi conceda di serrarle a lungo, forte, forte le mani
Suo Gozzano
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San Giovanni Albano, 10 Giugno 1907, notte
[…] Ostile: da molto tempo sapevo di esservi antipatico: forse prima ancora che lo sapeste Voi… Come tutti gli uomini che fanno professione di vanità e di civetteria (vedete che mi confesso miseramente!) io ho un intuito rapido e infallibile per presentire il giudizio delle donne a mio riguardo. Aggiungete che una sera mi avete, anche, fatta una cosa cattiva. D’incarico della direzione, io giravo per la Cultura, invitando i soci ad apporre le firme per un acquisto.
Venne il turno vostro e di vostra sorella; mi avvicinai urbanamente; urbanamente mi scusai di distogliervi dalla lettura, vi porsi la penna: Voi apponeste la firma. Poi, come io mi credetti in dovere di dirvi il mio nome, Voi scattaste in piedi con un tale atteggiamento di sorpresa sdegnata che non seppi e non saprei definire: un atteggiamento che mi ricorda la fierezza ribelle di certi vostri sonetti. E – più cattiva – faceste questo, per non tendermi le mani: ne tratteneste una dietro le spalle, a far volteggiare la sedia, e imprigionaste l’altra, accerchiandola tre volte nel boa, un gran boa di piuma nera, mi pare.
Vi ero antipatico: non mi stupisco.
Tutte le donne mi trovano così prima di conoscermi. (Non parliamo degli uomini: mi detestano e li detesto; non ho amici. E anche i miei amici più cari sono fra le donne). Tutte mi trovano così; ma poi mi vogliono bene. Mi vorrete bene anche Voi.
E Voi? Credete di essermi molto simpatica Voi? Avete invece, agli occhi miei, delle qualità allontananti.
Prima di tutto siete bella.
E precisamente di quella bellezza che piace a me. Vi ho veduta poco, ma osservata molto: siete proprio bella (vi giuro che ho dispetto, quasi, di doverne così stupidamente convenire!). […]
Ho presente anche questo: che avete bei denti e una bella bocca, piuttosto grande e fresca e attirante come poche, e che avete due begli occhi (anche di questo devo convenire, e quasi con dispetto) due occhi d’una dolcezza servile: gli occhi di colei che s’inchina al despota Signore e gli tende i polsi febbrili e li vede cerchiare di catene, quasi godendone; avete anche il profilo che piace a me, vestite come piace a me e camminate come piace a me – con l’eleganza un po’ stracca e un po’ trasognata della nostra massima attrice…–Vedete che c’era di che rifuggire la vostra conoscenza. Non già che io temessi d’innamorarmi di Voi (io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso) ma temevo che mi piaceste ecco tutto. Aggiungete l’aureola letteraria che – prima delle «Vergini folli» – mi dava un senso di avversione indefinibile–per qualunque donna scrittrice–da Corynna ad Ada Negri […]
Ora invece lontani – io seriamente ammalato ed esiliato dalla città per due, tre anni: forse più – possiamo benissimo essere amici. Voi mi avete parlato di corrisponderci. Imaginate! Ma voglio essere leale fin dagl’inizii, dalla città per due, tre anni: forse più – possiamo benissimo essere amici. Voi mi avete parlato di corrisponderci. Imaginate! Ma voglio essere leale fin dagl’inizii, come si usa fra i mercatanti: io non sono un amico spirituale: sono tutt’al più un mediocre interlocutore cerebrale… Non credo nella psiche e ho un profondo disprezzo per la mia e per la vostra anima, alle quali non attribuisco maggior valore dell’energia che muove un lombrico e della clorofilla che colorisce uno stelo d’erba: e lo stesso vostro canto, così sdegnoso pur nella passione, così alto e puro e casto non è che il grido del vostro pudore convulso, contratto sotto la sferza dell’istinto, dell’istinto che provvede all’eternità della specie… Accettate per amico un uomo che vi dice questo?
Badate che il mio modo di pensare mi condurrà qualche volta a scrivervi cose di una rudezza tale da confinare con la sconvenienza… Sarete tanto superiore da perdonarmi? […]
Amica mia, sono esausto! Ho logorata la vostra bontà, ho logorata la mia energia, e ho logorato anche il pennino!
Non rileggo il fascicolo: temo di avervi dette cose brutte. Fate voi: vagliate e perdonate.
Vi bacio la mano, come s’usa, e poi ve la stringo forte forte, come piace a me.
Gozzano vostro
Dormite, in questo momento? Sono la mezza notte e mezza… Buoni sonni!
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Ceresole Reale, 3 agosto 1907
Amica, […]
Io ho, da mesi e mesi oramai, l’illusione di essere un cenobita!
Vietate tutte le distrazioni che, a me specialmente, sono le uniche cose che fanno la vita degna di essere vissuta, vietato l’ambiente cittadino, che è l’unico mio ambiente naturale, checché ne dicano i novissimi Arcadi, la mia psiche si perde, si annienta.
E infatti da questo cervello non è più balzato un verso che valga… un bottone (squisita espressione!). E voi? Scrivete? O il mare vi inaridisce come inaridiva me? Ma non importa: tempriamo i nervi e appuriamo il sangue: così saremo più validi alla lotta.
La mia salute, va, relativamente, meglio. Ma figuratevi che da mesi porto una maschera inalatrice, giorno e notte e quell’ordegno che mi chiude in una rete metallica quasi tutto il volto mi dà l’aspetto rimbecillito d’un palombaro.
Mi fa, però, benissimo: e quasi tutti i sintomi inquietanti sono scomparsi sotto la violenza continua dell’essenze forti e balsamiche.
Ah! La salute! La salute! Che bella cosa! Si può saltare, ridere, schiamazzare, fare la corte alle belle Signore! Ma quest’inverno starò meglio!
E che nostalgia spaventosa ho delle Signore ben vestite, ben calzate, ben pettinate… Che desiderio di stringere una bella toilette di taglio perfetto! Ah! Le pastorelle e la campagna non son fatte per me… Eppure, per qualche tempo, ancora, dovrò sopportarle se mi è cara la vita… Scrivetemi, scrivetemi e fatemi anche qualche confidenza: siete molto corteggiata? Fra i molti uomini corteggiatori qualch’uno è meno sciocco degli altri, e vi piace di più?
Vi lascio, perché questo ordegno sul naso rompe la simmetria visuale e mi costringe a seguir la penna or con un occhio, or com l’altro: come farebbe una gallina… Compiangetemi!
Addio!
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Rivarolo, 4 ottobre 1907
Amica,
Sono felicissimo.
Vi aspetto dunque […]
Sarà un incontro molto savio e molto poco romantico: quale certo non avrebbero sognato due poeti del secolo addietro: ma Voi non siete George Sand ed io non sono Alfred De Musset.
Ma avremo più agio a conoscerci e meno pericolo di deluderci; credete che un convegno a mezza via, rapido ed incerto, ci lascerebbe lascerebbe assai male, con l’inevitabile disagio delle prime parole inconcludenti.
Chissà che invece, trascorrendo insieme molte ore, ci riusciamo reciprocamente simpatici… Perché potrebbe darsi benissimo il contrario: anzi temo che questo pensiero mi farà quel giorno parecchio melenso agli occhi vostri: ma non importa, Vi aspetto.
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Agliè, il Meleto, (23) ottobre 1907
[…] Rieccomi in questa solitudine e di nuovo tutt’altro che bene in salute. Il malessere che lamentavo quel giorno e che mi faceva la parola quasi difficile e la connessione del pensiero quasi gravosa, non mi ha lasciato ancora. Mi sento nelle ossa un languore, e nel cervello una nebulosità sentimentale che mi umiliano, sinceramente!
Mia cara buona Amica, vorrei essere ancora nel vostro salotto e avere, per medicina, le vostre mani nelle mie mani e restarmene così, senza dir niente, guardandovi: «gioco di sguardi è cosa tanto vaga…». Voi sapete guardare molto bene: tanto che, dei nostri convegni, mi restano più impressi i silenzi, quasi, che le parole. Ed è naturale: fra noi due è quasi impossibile dire a voce cose serie e profonde: tanto io che Voi abbiamo l’animo troppo corroso dall’ironia, per sostenere seriamente un lungo discorso posato. Per questo – e anche per la mia accasciatezza fisica – il nostro ultimo colloquio è stato piuttosto vano, fatto di frivolezze e di maldicenze frequenti, come un comune convegno di persone comuni.
E noi non siamo persone comuni!
Mai come quando sono accanto a Voi, sento la mia anima diversa e lontana dalla «mandra pasciuta di vento» che forma il meglio della nostra società. Voi siete per me un elemento animatore, per eccellenza. Peccato che non siate uomo!
Ci saremmo dati subito del tu, vivremmo insieme quasi di continuo, attraversando la città liberamente, a braccetto o con la mano l’uno sulla spalla dell’altro… La nostra fraternità, amica mia, ha invece molti ostacoli, per quanto voi vi siate generosamente adoperata a debellare le convenienze…
La vostra bellezza! La temevo molto! Quel giorno, al Meleto, ne rimasi annichilito: la giudicai una terribile nemica alla serietà della nostra amicizia. Ancora l’altro giorno cercavo di demolirla, a furia di analisi e di sofismi, ma in vano!
Voi eravate seduta accanto a me fra i cortinaggi della finestra, sotto uno sprazzo di luce violentissima: in condizioni poco propizie e molto rivelatrici: io indagavo i minimi particolari del vostro volto con lo zelo di un’amica malevola: ma dovevo convenire che la luce violenta non vi nuoceva per nulla! È male!
Le donne d’un fascino spirituale come Voi non hanno il diritto di essere belle. Sovente, quando parlate, io dimentico e non seguo le vostre parole, per il gioco attirante delle vostre labbra sane o per la carezza lenta delle vostre ciglia sulle vostre gote…
E questo è male.
Ma mi avvezzerò, sento che mi avvezzerò: e sento che non vi farò la corte, come per qualche tempo ho temuto.
Come siete stata buona e dolce con me, l’altro giorno! di tutto il nostro colloquio – quattro ore – una cosa mi sono portata via più cara di tutte: quel lungo silenzio che abbiamo avuto, in piedi, avvicinandosi il commiato, con le mani intrecciate nelle mani; mi sono smarrito anche un poco, ricordate? Grazie, e grazie anche dell’effigie vostra (ammiratissima) unico conforto d’un ricordo che «più mi segue quanto più mi manca». […]
Le migliori cose e addio
Gozzano
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Il Meleto, 12 novembre 1907
[…] Vi siete mai domandata cosa succederebbe se io non dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.
Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra, nel vostro salotto con Voi.
Sarebbe un crepuscolo della prima primavera, in febbraio, mettiamo. Da molte ore io sarei con Voi; avremmo parlato molto, avremmo esaurito ogni pretesto non volgare di conversazione. Da qualche istante si tacerebbe. L’ombra si farebbe più densa. Voi vi alzereste per accendere il lume. Io vi pregherei di no, vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe notte, più notte, nel quadrato della finestra; rabescato dalle cortine, il vostro profilo apparirebbe appena…
Solo a tratti, l’asta scintillante di un carrozzone elettrico illuminerebbe la penombra per un secondo. E in quel secondo il vostro volto apparirebbe e scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io – che avrei le vostre mani nelle mie – crederei di sognare, e inconscio irresponsabile come in un sogno, mi chinerei sulle vostre dita, salirei lungo le falangi con le mani, fino a mordervi le vene del polso. Voi mi sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna indulgente Stiamo savi.
Ma, per un evento sciagurato, il mio volto sollevandosi si troverebbe all’altezza della vostra spalla; io, nell’ombra, non me ne accorgerei: e credendo di abbandonare la guancia contro la spalliera del divano, incontrerei la mollezza d’una trina o il gelo d’una catenella. Istintivamente, sempre come in un sogno, la mia bocca si troverebbe dietro il vostro orecchio; alla radice dei capelli fini, e vi morderei alla nuca (il morso è il mio vizio preferito)…
Allora Voi vi alzereste di scatto, accendereste il lume: e due cose potrebbero accadere. O mi fareste accomiatare dalla vostra donna, come nelle commedie, col tradizionale «accompagna il Signore».
E resterei male.
O mi perdonereste dopo lunghe condizioni.
E resterei male, ugualmente […]
Addio
Guido vostro affezionatissimo
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Di casa, 1 dicembre 1907, ore 20 di Domenica
[…] Non vediamoci, dunque, più? Mi pare, forse, il partito migliore.
Passeranno molti giorni e ci scriveremo da lungi, quando a voi sarà caduta dall’anima l’amarezza che mi dite e a me si siano acquetati i nervi che ho atrocemente tesi. Tanto che mi sento cattivo con tutti, Voi non esclusa.
È la città che mi rende così: le visite forzate e i commiati sorridenti a gente detestabile e dozzinale, il peregrinare fra le «cose»: gli automobili, i socialisti, le biciclette, i preti, i tramvay, il dottore, il dentista, il sarto, il parrucchiere, i parenti, l’Università, gli uomini che fanno schifo (tutti) e le donne che fanno pena (tutte). E ritorno a casa con le mascelle irrigidite e le falangi delle dita che cricchiano dallo spasimo nervoso.
Io penso con terrore a quel che succederebbe di me, se non fossi ammalato, e dovessi riprendere un’esistenza cittadina… Ma se non fossi ammalato, non sarei, forse, anche moralmente così…
Sono amaro con tutti; non abbastanza buono persino con mia Madre: lo sarei anche poco con Voi… A S. Giuliano, in raccoglimento, la vostra imagine risorgerà precisa e limpida nella mia memoria, come la fronda nell’acqua che s’acqueta.
E non vogliatemi tanto bene, perché non me lo merito!
Guido
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S. Giuliano d’Albaro (9 dicembre) 1907
Povera Amica, ho il mare d’innanzi e Voi non ci siete più! Che cosa strana! Si saluta una creatura, si sale in treno, si va, si va, si discende, ci si guarda intorno: e la creatura non c’è più! Non c’è più: è come se fosse morta: di lei restano superstiti nella retina qualche atteggiamento della persona, qualche nota della voce, non altro. Che cosa strana!
Ed ho riveduto il mare, il mare che sa consolare di tante cose anche di questo nostro cattivo ultimo giorno…
Ritornando qui, nel luogo stesso dove avevo ricevute le vostre prime lettere, il mio spirito si è ricongiunto al tempo nel quale ancora Voi eravate per me «Amalia Guglielminetti».
E tutto quanto il Destino volle fare di noi, mi pare lo spasimo d’un febbricitante; e della cosa cattiva più nulla resta fuor che una dolcezza un po’ acre sulle labbra e sulle gengive, come quando si è troppo a lungo masticato la corolla di certe violette…
Il mare è pur sempre il grande purificatore: io mi sento l’anima leggera e monda, nata da ieri! C’è un tepore, una gaiezza nell’aria! Tutto l’orizzonte che traspare dalla mia finestra non è che l’armonia di due fascie azzurre: una più cupa: il mare; una più chiara: il cielo – Vi scrivo come posso, amica mia! Sono quasi ginocchioni su di una seggiola col foglio sopra un libro e il libro sopra il canterano: non ho ancora una scrivania! Ma c’è il mare di fuori…
Rabbrividisco al pensiero che Voi potreste vedermi così, Voi che soffrite tanto delle cose volgari! Sono spettinato, barbuto, vestito d’una maglia rozza e di una giubba logora: mi sono spezzata l’unghia del mignolo nell’aprire una valigia e ho il dito ripugnantemente ingrommato di sangue…
Ma c’è il mare di fuori!
La mia camera è squallida, incalcinata alle pareti, con un arredo miserrimo, ingombro qua e là del mio bagaglio in disordine: libri, scatole, barattoli, abiti, biancheria; una fialetta d’essenza si è aperta nel viaggio e la roba spande nella camera, con l’odore della cera da pavimento, un odore acutissimo.
Ho mille piccole cose umilianti da procurarmi con le mie mani: l’acqua bollente per le inalazioni, l’acqua bollente per le uova (non c’è verso che il cuoco voglia capirne il grado di cottura), farmi il caffè (immaginatemi!), riordinarmi i tiretti, presiedere alla lingerista…
Ma c’è il mare di fuori: è (sic) sono felice! Mi umilio in tutte queste materialità che a casa mi sono sconosciute e sono felice!
Lasciando Torino ho avuto come un senso di liberazione. Per tante cose. E principalmente per Voi.
Era tempo!
Era tempo di frapporre tra noi due molti mesi e molti chilometri! Non già che io fossi per commettere qualche pazzia, (non ho amato pur troppo fin ora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato Voi!) ma il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile…
Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasimo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblio un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica.
E ieri, l’altro, quando scendeste disfatta nel vestito nel cappello nei capelli, e mi lasciate solo in quella volgare vettura di piazza, io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera, dove alla finezza del vostro profumo andava succedendo l’acredine del cuoio logoro… E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini. Sono rientrato in casa con un desiderio solo: partire, lasciare Torino subito.
E quest’oggi ho il mare d’innanzi!
Sono libero e sono felice.
V’ho scritto giorni fa che in questa pace l’imagine vostra sarebbe risorta nella mia memoria, «come la fronda nell’acqua che s’acqueta» – È vero! Già siete ritornata per me la buona sorella che – vicina–«non vi sentivate di essere»–
Vado a vedere il mare prima di salutarvi.
Il mare è furibondo: s’accartoccia sotto la mia finestra ribollendo con voce sorda… Non m’ha salutato e non mi lascia di salutarvi.
Io penso, guardandolo ed ascoltandolo, a un giudice iroso che ci ammonisca entrambi.
È così!
Guido vostro
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San Giuliano d’Albaro, 6 gennaio 1908
Come va, come va, Amalia mia?
Per me, da qualche giorno, un po’ meno bene. Ho avuta una fase di nevralgia dolorosissima e mi sono un po’ intontito con la fenacetina e col chinino… Ma passerà! Il cielo e il mare sono così stupendamente propizi. Vi scrivo, come sempre, a finestra spalancata e ogni volta che alzo gli occhi dalla penna, vedo nel rettangolo azzurro qualche nave diretta chi sa dove! E il mio pensiero vanisce un po’, seguo con gli occhi un gabbiano candido che si dilegua ad ali tese: mi dileguo anch’io, mi perdo… Poi rivedo il foglio, la vostra immagine mi riappare quasi con doloroso rimprovero: come si dimentica presto! Vi sto dimenticando Amalia! Vi sto dimenticando (mi spiego) fisicamente. È uno strazio curioso, che dà il senso giusto della nostra grande miseria cerebrale: non riesco più, per quanto io tenti, a ricordare certi piccoli particolari del vostro volto, delle vostre mani…
L’ovale del volto vanisce a poco a poco, la tinta giusta dei capelli si altera, si deforma l’arco dei sopraccigli: ricordo poco il vostro mento e quasi più affatto il vostro orecchio (che pure dev’essere bello se un giorno l’elogiai). E in tanto incipiente sfacelo gli occhi e la bocca restano vivi e superstiti, troppo impressi nella mia retina e sulle mie labbra, per poterli dimenticare…
Ma in questo lento dileguare la vostra immagine spirituale (nell’ultima vostra me ne chiedete) si definisce meglio, balza al mio spirito con linee precise: vi voglio un gran bene, mia cara Amalia! E voi siete per me la vera amica, la compagna di sogni e di tristezza. Gl’istanti di aberrazione giovanile che ci avvinsero l’un l’altro sono già dimenticati (ben altre cose cancella e corrode il Mare!) ed io mi sento già estraneo, immune dal vostro fascino fisico, franco da ogni schiavitù voluttuosa. […]
Addio.
Guido
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(Torino, 12 marzo 1908) – Giovedì mattina
No, no, no. È meglio non vederci più. Fra pochi giorni di vita febbrile lascierò (sic) Torino per molti mesi…
Ho un gran desiderio di morire, ma non sono triste. Non ti amo, ho soltanto la visione continua della tua persona, dei tuoi capelli, dei (tuoi) occhi, della tua bocca; e quando il fremito del ricordo mi dà tregua riappare in Te la dolce compagna, il dolce compagno di sogni mite nel consiglio, solerte nell’aiuto. (grazie di Mantovani!)
E non altro.
Tu mi domandi, inquieta, del ricordo che avrò di Te: è tale quale vorrei l’ultimo ritratto della persona cara che non vedremo più. Ineffabile e puro. Perché tutte le mescolanze più acri della nostra carne troppo giovane e tutte le aspirazioni più nobili del nostro cervello superiore (oh! Possiamo ben dircelo, senza false modestie!) non formano che un’armonia unica; e del giorno vissuto insieme (ma è stato vero?) io porterò un ricordo che illuminerà tutte le mie tristezze future.
Noi non ci vedremo più.
Si era detto di seppellire nella solitudine della campagna quanto restava di noi. L’abbiamo L’abbiamo fatto. E così sia. Ci siamo salvati dalla sorte comune dei piccoli amanti e dobbiamo uscire da questa ribellione più sereni e più franchi. Io sono felice di non dovervi più rivedere. E non soffrirò. Voi soffrirete anche meno. Forse presto vi coglierà una passione forte per un uomo forte. Ve l’auguro–beato il cuore vostro che sa ammalarsi di questi mali!–io mi sento irrevocabilmente sano, fasciato di analisi e di malinconia.
Addio, mia buona, buona e cara Amalia, io fuggo un’altra volta da Voi, e non so perché questo pensiero mi fa sorridere […]
Addio,
Guido
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21 marzo 1908
Anch’io sono a letto da due giorni e sarò costretto in casa per molti altri, prigioniero del Tempo…
La vostra poesia! Che bella, che bella cosa, Amalia mia! Ho provato per Voi ammirazione devozione invidia orgoglio: orgoglio giovanile che mi fa sorridere un poco… Oimé! Che cosa sono mai gl’inganni del senso miserabile e le follie dei nostri nervi ventenni quando si ha in fondo alla propria via una meta come la vostra, come la mia? Come la mia, sì, perdonate: anch’io in questi tempi mi sento fecondo di tutte le energie e armato di tutte le speranze.
Amalia, sento, vi giuro che arriveremo presto e che noi daremo al mondo e che il mondo darà a noi ciò che ci è dovuto: e un giorno, incontrandoci, saremo orgogliosi di aver sostato, in un tempo di follia lontano, l’uno sul cammino dell’altro. Da un legame come il nostro deve balzare qualche cosa di più degno che non la sentimentalità meschina dei piccoli amanti. Per questo è necessario non vederci più. Non ci vedremo più per molto tempo, Amalia mia buona, per molti mesi, per qualche anno forse. Perché voglio che sia così.
E mi sarà facile. Io lascio Torino a giorni, passerò la primavera nel Canavese, l’estate in montagna, l’autunno al Meleto (non verrete a visitarmi) l’inverno e la primavera in Liguria… e non sarò torinese dichiarato che fra due anni. Non vorrei rivedervi che allora.
Saremo ancora giovani e ci vorremo ancora bene.
Anche più bene, perché esausti dalle nuove delusioni del frattempo, e forse, guardandoci gli occhi e la bocca rabbrivideremo ancora. O non rabbrivideremo più e Voi sarete di altri. Io non soffrirò.
Da quanto tempo non soffro! Temo di non poter soffrire più: sento scendere sulla mia anima una calma inquetante, sento distendersi i muscoli facciali nella serena compostezza d’una maschera placida…
Ho l’anima un po’ sgomenta di questo, ve lo confesso…
Qualunque sia la sorte che ci prepara il destino saremo amici sempre, grandi amici necessari l’un l’altro come due viatori che seguono lo stesso cammino e si tengono per mano. […]
Addio, Amalia, senza molta tristezza.
Di lungi vi scriverò ancora quando avrò qualche bella notizia della mia poesia.
E voi anche. Ma non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro al cammino, e ciò che è stato è come se non fosse stato…
In alto i cuori Amica mia valorosa!
Addio! E un franco lontano arrivederci. O anche (è bene pensarci) non arrivederci più!
Guido
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Martedì (24 marzo 1908)
Perché mi fate piangere, Guido, perché mi fate rimpiangere quel poco che v’ho dato di me? Non dovevo venire con Voi quel giorno per soffrirne dopo, così, per vedermi tolta anche la piccola dolcezza di sentirvi qualche volta vicino. È così poca cosa la vita e così breve per negarci qualche poco della sua bellezza per tormentarci volontariamente anche quella piccola parte di bene che ci concede? Voi vi dite corazzato anzi insensibile ad ogni ferita. Io no, mio dolce Amico, io vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano. Mi pare di trovarmi più sola in quest’ombra grigia di banalità che ci circonda, sento d’aver smarrito qualche cosa di più leggero, di più chiaro, di più elevato, l’amico che mi comprende, il fratello che sogna i miei sogni e gioisce della mia gioia, la tenerezza che blandisce e riscalda il cuore.
Io non voglio che tu mi sfugga, Guido, io non voglio che tu mi segua di lontano come un estraneo, che tu mi riveda ancora un giorno lontano quando forse i miei capelli non saranno più tanto bruni e la mia bocca fresca e i miei occhi lucenti. Lascia ch’io ti dica tu come un compagno, ch’io non senta fra noi il gelo di quella parola dura. Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te. Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto. Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.
È un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno.
Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa. Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi.
Scrivimi che ci vedremo ancora quando e come il destino lo vorrà, semplicemente, come due amici buoni che la fedeltà riconduce tratto tratto l’uno all’altro. Ho bisogno di sentirti parlare, di te, di me, de’ tuoi e dei miei sogni, del tuo e del mio avvenire, di tante cose piccole e grandi e vane.
È così buona l’amicizia ed io non ho amiche vere, non ho forse amici veri, non mi sento legata che a te.
Non voglio che ci cerchiamo con l’ansia del desiderio, ma che ci vediamo naturalmente come vogliono le vicende della nostra vita.
Non farmi ancora piangere e rimpiangere, Guido, dammi ancora le prove e se vuoi qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza. Vieni a dirmi addio prima di lasciare Torino. Ci sapremo stringere le mani con dolcezza ma senza fremito. Verrai?
Non dirmi, non dirmi di no…
(Amalia Guglielminetti)
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30 marzo 1908
Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so bene come dirti… […]
Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a te, con molta teneressa e con molta serenità.
Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse – perdonami – anche un po’ con te …
Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino.
E quale felicità, Amica mia!
Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese […] anche la stagione sarebbe sarebbe stata propizia alla nostra follia!
E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni favorevoli al sentimento. E quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti […]
Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua compagnia … Perché non confessartelo, mia buona sorella?
L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce.
Non sento non vedo non godo non soffro di altro. Come puoi tu, che pure hai tra le mani i germi di mille speranze e sogni la stessa mia vita, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri destini? Per me, camminando diritto, con l’occhio fisso alla mia meta lontana tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo testo, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo… Ah! Se io potessi darti una parte soltanto di questo mio orgoglio latente, anche il dolore che tu dici di avere in te impallidirebbe e l’amore ti apparirebbe per qual è: un inganno della giovinezza e un episodio trascurabile in un destino come il mio e come il tuo. […]
Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovane e bella! Ma hai degli occhi luminosi e una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualsiasi.
Ho riletto queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami!
Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della tua persona magnifica; no: avrei goduto per qualche mese di quella piacevole vanità estatico-sentimentale che dà l’avere al proprio fianco una donna elegante e ambita. Non altro. Già altre volte t’ho confessata la mia più grande miseria: nessuna donna mai mi fece mai soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità del desiderio, prima, e una mortale malinconia, dopo.
Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio ancora essere sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur non dovendo partire. Invece il Destino è propizio: m’impone l’esiglio anche per altre cause ch’io tolgo a pretesto.
Rivederci? a che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe ( o sottrarrebbe forse) alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro.
Addio, mia buona amica.,
Ti bacio.
Guido G.
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Il Meleto, Venerdì santo (17 Aprile 1098) ore 10 ant.
[…] i nostri convegni!- Oimè! Io li penso come sogni già molto lontani e sento che non sono le ore di follia estrema quelle che lasciano sull’anima la traccia più duratura … Ma tutto si fa buono e dolce nel passato, anche gl’istanti che ci parvero più brutali e aspri. […]
—–
Agliè, 4 ottobre 2012
Sosterò a Torino dal 5 a tutt’ottobre.
Ci sarete? Ci vedremo?
Guido
Da Lettere d’amore –
Guido Gozzano – Amalia Guglielminetti

L’antico pianto
Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l’altra notte mi composi.
Poichè talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.
Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a’ piedi d’un Signore
che m’arse di ben vana passïone.
Io piangevo così note d’amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore
e non s’avvede che nessun l’ascolta.
Amalia Guglielminetti
dal blog Alessandria Today, dove troverete altre poesie della poetessa.

La via del rifugio
Trenta quaranta,
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
risponde la gallina…
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Madama Colombina
s’affaccia alla finestra
con tre colombe in testa:
passan tre fanti…
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome,
bimbe di mia sorella!
…su tre cavalli bianchi:
bianca la sella
bianca la donzella
bianco il palafreno…
Ne fare il giro a tondo
estraggono le sorti.
(I bei capelli corti
come caschetto biondo
rifulgono nel sole.)
Estraggono a chi tocca
la sorte, in filastrocca
segnado le parole.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita.
Sento fra le mie dita
la forma del mio cranio…
Ma dunque esisto! O Strano!
vive tra il Tutto e il Niente
questa cosa vivente
detta guidogozzano!
Resupino sull’erba
(ho detto che non voglio
raccorti, o quatrifoglio)
non penso a che mi serba
la Vita. Oh la carezza
dell’erba! Non agogno
cha la virtù del sogno:
l’inconsapevolezza.
Bimbe di mia sorella,
e voi, senza sapere
cantate al mio piacere
la sua favola bella.
Sognare! Oh quella dolce
Madama Colombina
protesa alla finestra
con tre colombe in testa!
Sognare. Oh quei tre fanti
su tre cavalli bianchi:
bianca la sella,
bianca la donzella!
Chi fu l’anima sazia
che tolse da un affresco
o da un missale il fresco
sogno di tanta grazia?
A quanti bimbi morti
passò di bocca in bocca
la bella filastrocca
signora delle sorti?
Da trecent’anni, forse,
da quattrocento e più
si canta questo canto
al gioco del cucù.
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio,
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
L’aruspice mi segue
con l’occhio d’una donna…
Ancora si prosegue
il canto che m’assonna.
Colomba colombita
Madama non resiste,
discende giù seguita
da venti cameriste,
fior d’aglio e fior d’aliso,
chi tocca e chi non tocca…
La bella filastrocca
si spezza d’improvviso.
“Una farfalla!” “Dài!
Dài!” – Scendon pel sentiere
le tre bimbe leggere
come paggetti gai.
Una Vanessa Io
nera come il carbone
aleggia in larghe rote
sul prato solatio,
ed ebra par che vada.
Poi – ecco – si risolve
e ratta sulla polvere
si posa della strada.
Sandra, Simona, Pina
silenziose a lato
mettonsile in agguato
lungh’essa la cortina.
Belle come la bella
vostra mammina, come
il vostro caro nome
bimbe di mia sorella!
Or la Vanessa aperta
indugia e abbassa l’ali
volgendo le sue frali
piccole antenne all’erta.
Ma prima la Simona
avanza, ed il cappello
toglie ed il braccio snello
protende e la persona.
Poi con pupille intente
il colpo che non falla
cala sulla farfalla
rapidissimamente.
“Presa!” Ecco lo squillo
della vittoria. “Aiuto!
È tutta di velluto:
Oh datemi uno spillo!”
“Che non ti sfugga, zitta!”
S’adempie la condanna
terribile; s’affanna
la vittima trafitta.
Bellissima. D’inchiostro
l’ali, senza rintocchi,
avvivate dagli occhi
d’un favoloso mostro.
“Non vuol morire!” “Lesta!
ché soffre ed ho rimorso!
Trapassale la testa!
Ripungila sul dorso!”
Non vuol morire! Oh strazio
d’insetto! Oh mole immensa
di dolore che addensa
il Tempo nello Spazio!
A che destino ignoto
si soffre? Va dispersa
la lacrima che versa
l’Umanità nel vuoto?
Colombina colombita
Madama non resiste:
discende giù seguita
da venti cameriste…
Sognare! Il sogno allenta
la mente che prosegue:
s’adagia nelle tregue
l’anima sonnolenta,
siccome quell’antico
brahamino del Pattarsy
che per racconsolarsi
si fissa l’umbilico.
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita;
sento fra le mie dita
la forma del mio cranio.
Verrà da sé la cosa
vera chiamata Morte:
che giova ansimar forte
per l’erta faticosa?
Trenta quaranta
tutto il Mondo canta
canta lo gallo
canta la gallina…
La Vita? Un gioco affatto
degno di vituperio,
se si mantenga intatto
un qualche desiderio.
Un desiderio? sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
Guido Gozzano
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* in copertina e in seguito una autografa lettera d'amore di Gozzano ad Amalia Guglielminetti.