Sì, lo so, Cattelan, ma ..

 

Ghosts – Maurizio Cattelan

 

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Prima di me erano già morte ottanta miliardi di persone.

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È accaduto in ospedale. Verso le due del pomeriggio. Fuori c’era un bel sole. Non è stata una cosa dolorosa. Ho fatto un respiro piú lungo degli altri. Mi sono accorto chiaramente che era l’ultimo.

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Ero un maestro elementare in pensione. Ero vedovo da poco. E questo è tutto.

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Le mie sorelle stavano aiutando mia madre a vestirmi. Poi è arrivato mio padre. È venuto vicino e mentre mi guardava a me è venuta voglia di tornare viva e abbracciarlo solo per un momento.

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In certi casi, il mio per esempio, la morte è la ciliegina sulla torta.

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Sono morto alle sette del mattino. Un modo come un altro per cominciare la giornata.

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Io di giorno facevo le scarpe e di sera mi ubriacavo. Sono morto dentro un metro di neve, la notte del 17 febbraio, a due passi da casa mia.

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Mi sono impiccato il giorno stesso che il medico mi ha detto che dovevo fare altri accertamenti. Per me era tutto chiaro: dovevo solo trovare una fune nel garage.

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Io quelli che non hanno paura della morte non li ho mai capiti e adesso li capisco ancora meno.

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A un certo punto senti che qualcosa comincia a guastarsi, magari si comincia con una lieve infiammazione, una punta di acido.

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Il giorno del mio funerale è stato un giorno qualsiasi. E pure il giorno dopo.

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Io mi chiamavo Alfredo. Ero stato trent’anni in Germania. Ero tornato al paese per la pensione. Sono morto la sera del terremoto, dentro il bar. Quello che stava giocando a carte con me si è salvato.

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A me di tutte le cose che c’erano nel mondo mi manca solo l’aria. Forse per questo l’ultima cosa che ho detto a mia moglie è stata di aprire la finestra.

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Ero rimasto a terra nella mia vigna. Ho chiamato dio e la madonna e tutti i santi. Volevo che qualcuno mi aiutasse e invece è venuto a piovere.

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Sono morto cinque minuti dopo che mi hanno seppellito.

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Adesso ho una curiosità un po’ scema. Vorrei sapere se poi mio cugino Maurizio è riuscito a vendere la sua Golf di seconda mano per la quale voleva sei milioni.

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Sono sempre stato un ottimista. E va bene anche cosí.

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Ero al mare, ero appena uscito dall’acqua, mi stavo asciugando. Sono caduto su un castello di sabbia.

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Una volta Gianni Morandi mi fece una dedica su una cartolina. Non avrei mai pensato che sarebbe finita sulla mia lapide.

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Non c’è neanche il niente, almeno cosí mi pare.

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Sono qui nel loculo piú alto, sulla parete nord del cimitero. Da una fessura entra la neve e ci rimane per mesi.

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Pure io, sí pure io.
 

da Cartoline dai morti
Franco Arminio

 

 

Breath – Maurizio Cattelan

 

 

[…] Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
 

da Uno, nessuno e centomila
Luigi Pirandello

 

 

dalla mostra di Maurizio Cattelan “ Breath Ghosts Blind “ all’HangarBicicca, Milano

 

 
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* in copertina Ghosts