Sul fiume – Esther Kinsky

Quando pensavo alla parola «fiume» mi venivano in mente panorami, scorci, vedute dell’infanzia – cartoline che mi scrivevano i ricordi. Quegli scorci e vedute li testavo su un’infinità di fiumi, li mettevo a confronto con i paesaggi fluviali che avevo di fronte, come per interpellarli su qualcosa di specifico. Sulla diversità delle sfumature di azzurro del cielo e della sua immagine riflessa lungo l’una e l’altra riva, su quanto si prestassero a eventuali magie di nebbia, quanto promettessero in termini di avvicinamento al mare e maggiore luminosità, sul grado di fascinazione esercitato dalla riva opposta? Io stessa non avrei saputo dirlo.

Portiamo in giro il nostro cuore nel posto sbagliato: l’ho sempre pensato, trovandomi su un fiume, e sull’Oder in modo molto particolare. Kleist era cresciuto sull’Oder. Anche se duecento anni prima doveva aver contemplato un fiume diverso – più ampio, con una portata maggiore, le rive più indistinte, paludi sterminate –, aveva forse comunque notato i due diversi azzurri, l’azzurro di questa e dell’altra parte, che nel caso di tutti i confini fluviali evocano il pensiero del cuore nel posto sbagliato.

Un pomeriggio d’autunno ero sull’Oder e guardavo al di là del fiume, verso Słubice. Il giorno prima, a causa della nebbia, non si riusciva a vedere la riva opposta; nel gelo arrivato all’improvviso, i veli grigi si erano irrigiditi in spessi strati di brina sugli alberi spogli. La nebbia trasformava tutto e per una breve giornata di inverno precoce aveva sottratto al paesaggio ogni somiglianza con i luoghi di quando avevo varcato per la prima volta il confine della Polonia, molti anni or sono. Adesso la nebbia si era schiarita, il fiume si inchinava sotto il brutto ponte, sentendosi perso di fronte alla desolazione di entrambe le rive, protendeva bracci qui e là, favorendo la formazione di piccole isole, ingannevoli protuberanze di terraferma che anche la minima piena avrebbe potuto inghiottire. Col bel tempo l’aria scintillava sul paesaggio deserto verso sud, e io mi immaginavo il ghiaccio che negli inverni freddi si estendeva probabilmente da una riva all’altra, azzurrognolo, molle e pieno di incrinature nei pressi del canneto e del groviglio di salici, uccelli morti sotto lo strato superiore, che fissavano il cielo irrigiditi, come avevo visto un giorno di dicembre nell’Oderbruch. Su uno degli isolotti che affiorano dalle ramificazioni del fiume tra Francoforte e Słubice c’erano due figure con indosso maglioni di rossi diversi. Armeggiavano con dei bastoni, ora tra gli arbusti di salice, ora nell’acqua; accanto a loro si alzava del fumo, come da un falò: forse pescavano con una tecnica nota solo agli abitanti del posto, smuovevano l’acqua in cerca di piccole prede, le infilzavano e le abbrustolivano subito sul fuoco. Il rosso dei maglioni spiccava sul canneto invernale dai colori opachi, sul cielo che scintillava bianchiccio, sul fiume grigio. Con quei due tipi di rosso recitavano una pantomima per gli spettatori occasionali, cui si poteva attribuire qualunque valore. Un gioco, un enigma con immagini in movimento, un pezzo di teatro fluviale. A un tratto non c’erano più, come fossero stati inghiottiti, spazzati via, cancellati dal paesaggio. Soltanto il fumo restava sospeso nel cielo sopra l’isolotto, in piccole nuvole, come inerti. Dopo un po’ ho scorto dal ponte una barca della polizia che si avvicinava al luogo in cui avevo visto le due figure rosse, alcune persone sulla riva gesticolavano con le braccia alzate: qui, qui! Sono scomparsi qui!

Gabbiani dell’entroterra dal becco spesso si radunavano su un piccolo approdo accanto al ponte; tra le case vecchie e fatiscenti, e quelle nuove, dell’unica via di negozi di Słubice, vagabondavano cani, oziavano bottegai, comparse di un non-luogo che viveva solo grazie al passaggio, all’attraversamento, si affidava a una pigra corrente occasionale di clienti, bevitori di caffè e venditori di sigarette, e cadeva a pezzi dietro le facciate. Nonostante il traffico, il rumore incessante, avanti e indietro, di mezzi e persone in transito, nessuno dei quali intendeva fermarsi in quel posto; nonostante il continuo sgretolarsi di opere murarie in sottofondo, era un luogo massimamente immobile, in cui tutto fungeva da quinta: una scenografia dimenticata sul ciglio della strada, che un giorno sarebbe stata forse trascinata via da una tempesta o travolta da una piena.

A un certo punto la barca della polizia se n’è andata, gli spettatori sulla riva si sono sparpagliati, i maglioni rossi sono rimasti dispersi; è scesa la sera, la casa di Kleist sull’altro lato del fiume è affogata nel crepuscolo, i fari dei camion sulla circonvallazione proiettavano i loro coni di luce nella sera intrisa dell’odore autunnale di fiume e di fumo.

Qual è il posto sbagliato per il nostro cuore, quale il posto giusto?

Ogni fiume è un confine: era uno degli insegnamenti dell’infanzia. Forma lo sguardo sull’Altro, costringe a fermarsi, a esaminare con attenzione quel che c’è dalla parte opposta. Il fiume è il palcoscenico in movimento cui la riva di fronte si unisce formando un’immagine fissa, un dipinto sullo sfondo che si imprime nella memoria. Che cosa accade quando il fiume, oltre a costituire un confine di per sé, è anche un fiume di confine? Il flusso, il moto inarrestabile dell’acqua verso la foce è più forte del significato di una linea fissa che assegna appartenenze? L’acqua trascina via qualcosa con sé, sminuisce e logora la dimensione del confine tra stati, circoscrive l’appartenenza vera epropria a uno sguardo su quella che è di volta in volta l’altra parte?

Sebbene avessi legato il mio cuore alla Polonia piena di aspettative, l’Oder come fiume di confine non lo associavo a granché, quando l’ho attraversato nel mio primo viaggio all’Est. Non avevo in mente neanche un’immagine di suoi paesaggi fluviali o il suono dei nomi delle città. All’epoca, quando ancora l’infanzia non era poi così lontana, il fiume che avevo in testa come contraltaredel Reno era la Vistola nei pressi di Varsavia, già nel cuore dell’Est. Volevo addentrarmi a sufficienza nel paese straniero prima di prenderne atto. Così ero in treno diretta a Varsavia, era mattino presto, i piloni del ponte sull’Oder si stagliavano neri contro il cielo gravido di pioggia, il fiume quasi non si vedeva. Dividevo lo scompartimento con una signora anziana, che tornava a Varsavia per morire. Fino allo zoo di Berlino l’aveva accompagnata la figlia: le due erano sistemate nella cuccetta inferiore e su ssurravano, la figlia pettinava i lunghi capelli bianchi della madre, che aveva raccolto in una treccia. Poi era dovuta scendere: stava sulla banchina nell’incipiente crepuscolo settembrino, e quando il treno era ripartito aveva fatto un cenno con la mano. L’anziana signora taceva, a poco a poco dall’oscurità, all’esterno, erano emersi i contorni del paesaggio in diverse sfumature di grigio, il treno si era fermato per un po’ in una stazione senza cartelli con il nome della località, non si erano aperte né chiuse le porte. Passando sul ponte, le ruote del treno avevano riecheggiato come in un corpo cavo, circondato da un vuoto e un silenzio enormi, come se tutti gli insediamenti su entrambi i lati del confine si fossero ritratti sulla terraferma di un Qui più univoco. Solo dopo esserci lasciati l’Oder alle spalle la signora anziana si è tirata su e ha detto: Adesso siamo in Polonia. Lo ha detto con un tono sollevato, il tono del ritorno a casa, che si confà al posto giusto.

Il treno si è fermato a una certa distanza dall’Oder, a Rzepin, una piccola cittadina in mezzo a radi boschi di abeti; piovigginava, ho sentito che i funzionari parlavano in polacco, poi silenzio, uccelli, il sommesso cigolio di una bicicletta. Allora, durante quel primo viaggio in Polonia, questo mi si è impresso più profondamente nella memoria del breve tragitto sul fiume, sul ponte di ferro, come se il successivo passaggio attraverso il bosco intervallato da strisce più rade fosse l’effettivo attraversamento del confine e segnasse l’ingresso nel paese straniero.

Poco prima di Poznań, uno scarno sole settembrino ha fatto capolino tra le nuvole. In quel momento io ero seduta sul bordo della cuccetta della vecchia signora e le tenevo la mano, e ho notato che fuori dal finestrino il paesaggio era immerso in una luce completamente diversa da quella che conoscevo, più tenue. Il cielo era di un azzurro che non avevo mai visto, più lontano, più luminoso, incurvato verso un orizzonte diverso. Ho pensato al talento per gli azzurri di mio padre, che aveva spesso sostenuto di saper stabilire la longitudine di un luogo basandosi su quel colore. Avrei voluto poterlo mettere alla prova ancora una volta con un pezzetto di quel cielo. Ora mi ero lasciata l’Ovest alle spalle: condizioni di luce e paesaggi, scene frammentarie che mi erano guizzate accanto e con quel cielo non avrebbero avuto niente a che fare. Dov’è che avevamo abbandonato l’Ovest? Poteva essere soltanto di là dal fiume, su cui non c’era molto movimento nel grigiore del mattino, e non tra i pini spruzzati di pioggia di Rzepin.

Era domenica; da qualche parte, tra i campi e i piccoli boschi radi, una donna con un abito attillato e i tacchi alti si affrettava lungo un sentiero sconnesso, diretta in un villaggio su cui svettava un campanile aguzzo, dietro di lei un ragazzo vacillava su una bicicletta troppo grossa. Due bambini con un maglione rosso stavano l’uno di fronte all’altro in riva a un fiumiciattolo e si lanciavano qualcosa; nei pochi secondi in cui ho potuto osservarli dal finestrino del treno, sembravano portare avanti quel gioco con una indifferenza alienante. Nel campo dietro il fiumiciattolo fumava un falò. In una stazione ferroviaria deserta l’aria sollevata dal treno ha soffiato in un angolo le foglie […]

L’Oder sono riuscita a vederlo solo più avanti quando, trovandomi in un bosco nei pressi della foce della Warta, ho sentito per la prima volta un rigogolo. Quel verso, una shibboleth immune da qualunque contraffazione, radicato in chissà quale favola, che si intonava all’azzurro del cielo a est dell’Oder quanto i nomi delle località dalla pronuncia leggermente blesa, mi è sembrato – pur non riconoscendovi il richiamo dell’uccello di Bobrowski – una chiave per il paesaggio fluviale in cui potevo interrogare il cuore sul posto dove lo stavo portando. Dalla confluenza ramificata della Warta fino alla laguna, l’Oder tracciava un confine attraverso il paesaggio, scriveva un Qui e un Là nella terra sabbiosa, al di sotto della quale tuttavia si trovavano un’infinità di punti interrogativi ragneschi e di lettere intrecciate in entrambe le direzioni – a est e a ovest –, una scrittura acquatica delle storie che si perpetuavano attraverso il fiume, al di sopra e al di sotto di esso, affluenti e ramificazioni che vergavano il paesaggio con immagini riflesse del cielo dell’uno e dell’altro azzurro, che sconcertavano e ribaltavano le rive.

Io ho viaggiato avanti e indietro lungo il confine tracciato dall’Oder, e il fiume mi sembrava sempre silenzioso, circondato da idilli costieri incerti se appartenere alla terra o all’acqua, in cui le domande circa l’appartenenza del cuore si erano inscritte in profondità, sotto il fogliame, gli sterpi e i frammenti di rocce. Scarti ormai inutilizzabili tra i resti delle mura della vecchia Kostrzyn, file di pioppi alla foce della Warta, che sussurravano ai cigni in ascolto tra le canne palustri, gli eterni alberi del lutto presenti sul ciglio di ogni fiume d’Europa. Un porto invernale con infinite schiere di congegni abbandonati, che sbucavano dall’acqua come torri di impianti sommersi, il caotico bosco di pali nel porto di Szczecin, i margini delle piccole città fluviali che si sfrangiavano silenziosamente in una ruralità incerta. Monconi di ponti, salici capitozzati, prati acquitrinosi, la vista dalla riva opposta dell’ingombrante struttura di cemento di una passeggiata votata all’abbandono, la solitudine delle indicazioni per la navigazione – livello dell’acqua e velocità della corrente –, l’avvicinamento al mare, che si poteva dedurre dalla luce e dal cielo. Incerto, non frequentato, finché non si apre al mare, l’Oder fa sì che l’ampio, instabile paesaggio della laguna funga da confine e a Szczecin si presti a un ultimo sussulto di operosità. Szczecin l’ho vista solo d’inverno, lì l’Oder era diverso e severo, un altro fiume, che aveva già abbandonato la terraferma ed era ormai rivolto esclusivamente verso il mare. Il freddo invernale aveva indotto tutto a fermarsi. La neve cadeva obliqua e tratteggiava la scritta «Port Szczecin» visibile in lontananza, cancellava le gru e i tralicci riducendoli a sagome pallide. Le barche congelate nel ghiaccio, il cigolio dei tiranti allentati nel vento, lo scricchiolio dei gagliardetti ghiacciati sui finestrini del battello arabescati dalla brina, i gabbiani che zampettavano irrigiditi nel sottile strato di neve depositato sul fiume ghiacciato. La riva di fronte, una terra selvaggia popolata abusivamente, più baracche che case tra gli alberi spogli, teneri pioppi, Eliadi impietrite col cuore d’ambra congelato, scrivevano qualcosa – insieme ai colli delle gru permanentemente storti sullo sfondo lontano – sul cielo basso da neve, una notizia invernale sul mare. Szczecin era una delle città più ghiacciate che avessi mai sperimentato, pensavo che perfino d’estate, lì, la neve orlasse le strade in mucchi ricoperti di polvere di carbone e ammassi tondeggianti, nei quartieri desolati di vecchi casermoni in affitto dietro la barriera rivolta verso il fiume.

Una volta ho lasciato Słubice seguendo il corso del fiume, verso nord. Era una giornata ventosa, inquieta, di un inverno mite; a ovest il cielo era violetto e marrone, chiazzato da brandelli di nuvole intervallati da strisce di un turchese chiaro. […] La riva consisteva di un intrico di salici, paludi, prati acquitrinosi. Eppure entrambe le rampe di accesso – quella sul lato est proprio davanti ai miei piedi, e quella sul lato ovest piccola e sfocata, oltre la distesa d’acqua così mite e docile che persino i gorghi erano camuffati da onde amichevoli – erano prive di imbarcazioni nel pallido chiarore del sole che si stava facendo strada tra le nuvole proprio al momento del mio arrivo. Il cemento della rampa orientale era pieno di crepe, in cui si erano insediati muschio ed erbacce, il cartello del traghetto era bucherellato dalla ruggine e si stagliava contro il fiume, tutto storto.

[…] negli ultimi anni c’erano state piene che avevano trasformato il paesaggio dal duplice azzurro in un lago gigantesco, in cui galleggiavano suppellettili, alberi sradicati e carcasse di animali, forse addirittura interi tetti, ai quali stavano aggrappati inquilini poco esperti di superfici ripide in cerca di salvezza. Il fiume di confine era diventato un lago di confine, che aveva fatto scomparire la terra su entrambe le rive, indistintamente.

Io ho proseguito verso nord-est, seguendo l’Oder lungo la strada accidentata che costeggiava la riva, ora più vicino all’acqua, ora più lontano. Dopo qualche tempo un grosso albero caduto bloccava il cammino. Doveva essere lì già da molto tempo e aveva reso la via impraticabile; dietro il tronco erano cresciuti piccoli cespugli, i germogli avevano fatto saltare l’asfalto e formato un nuovo paesaggio di montagnole e crepe. Voltandomi ho notato due figure su un piccolo tratto di prato. Mi davano le spalle, e per come se ne stavano lì sembravano due bambini, undici, dodici anni, non ancora innamorati degli anfratti selvaggi. Portavano entrambi dei maglioni rossi e jeans strappati, erano accovacciati, chini su un mucchio di sterpi da cui si levava un primo filo di fumo, molto sottile. Si sono voltati lentamente verso di me, una ragazzina e un maschio, o forse due ragazzine, due maschi, o non si trattava affatto di bambini? Il volto scuro, privo di domande, giovani che non appartenevano a nient’altro che a quello sfondo fluviale.

da Sul fiume di Esther Kinsky