“la voce dell’ enigma innamorato” – Piero Bigongiari

 

*

Inno primo

Se è durare o insistere, non oso,
le miche ancora splendono, o s’oscurano,
i paesi ritornano visioni,
il falco che ha predato a lungo i cieli
su un abbaglio di messi, di deserti,
di vetri dietro cui spiano fanciulli,
è morto sulla strada impolverata.

Nella memoria quello che d’eterno
s’intorbida o si schiara, non tentarlo:
segui le tracce lievi, le più rare,
il fil di fumo, l’allegria d’un merlo;
non puoi tenerlo, e pure ti sostiene,
l’abisso disperato per cui speri,
e se è un vuoto lo ieri, un vuoto quello
che al tuo occhio s’illumina, ma, vedi,
fiorisce, si diffonde, cretta i massi
più densi, si dirama, esplode, è quello
che diroccia il futuro e ti fa strada:
le valli si riempiono del suono
delle valanghe, si ripete il tuono
di giogo in giogo, è il fulmine che lapida.

Dove passasti ritornare è come
non più pensare d’essere, ma esistere:
ritrovare la strada, il vento torbido
della mattina che ritorna luce,
la rada gioia che infittisce se altra
gioia vi mesci, fine lieve gioia
d’un amore deciso, raccapriccio
d’un amore reciso: tutto, vedi,
ti abitua a distaccarti un po’ per volta
dal crudo magma che t’involge e soffoca.

Nella memoria è un che d’eterno, cedilo
cedilo alla memoria se rivedi
+ìl’orto tornato al sole, se le labbra
ancora tormentarle riodi amore,
abbandónati a questo inconsistente
pulviscolo di cose e di pensieri,
abìtuati all’inferno dell’effimero:
ieri è già eterno se altro tempo cade
dal suo cielo e vi porta visi, cose
fuggiasche nella loro lenta traccia;
questa la loro libertà: seguire
lievi il declino, dirizzarsi dentro
la loro gravità che le raccoglie
e le figge quaggiù dentro la ghiaccia
senza un grido; ma è un cielo che si semina
e si rapprende qua dove la brina
non regge, dove migrano le nuvole,
sui campi in cui la neve gia s’incrina.
E già il tempo scolpisce fitto e lieve
il suo passato, l’impeto suo incupa
le forre, arrossa le orbite stellari,
strappa dai casolari qualche squilla,
e le erme se hanno un volto, è un volto ambiguo:
non volgerti di qua, la strada è quella
dove io non sono, dove tu non sei,
dove parla più arguto il vento esiguo

 

 

*

Tema con variazioni
 

Ombravano d’un lume alto le Pleiadi
il ciel notturno, il tempo stava immoto
come il gufo nell’ultimo abbaino,
scintillavano le ombre lievi al vento
dei fiori, delle foglie, roco dentro
gridava agli alveari il vuoto, il miele,
scoppiavano le bacche, il duro seme
cercava già una terra, già fuggiva.

La terra – te ne vai – è così poco,
è così poco vivere e sperare,
è così tanto vivere ed amare,
la terra – te ne vai – è così tanto.

Negli altissimi pioppi lungo il fiume
tremola il tempo, attende di migrare,
ombre lievi grafiscono col vento
steli d’ombra, anzi d’aria, coltri amare
sopra l’erbe ingiallite nell’albore
degli stridi sgomenti, disperati
fischi chiaman gli armenti alle colline.

 

*

1957
 

Col sangue per le strade urtò la guerra,
col sangue per le strade urta la pace
dove primaverile inorridisce
un volo di colombi. Nei granili
sgomenta l’aria nuova, la sementa
grida nei campi scoloriti luce.

Perché tace l’anima negli occhi
nei tuoi occhi, fratello, ch’io ti vidi
da dietro una trincea ferire, uccidere
morire…?

“Perché la voce del lutto è vellutata
come un cespo di rose…” Io non ritrovo
sui fiori la polvere delle fughe,
il grido dei cani per le strade dure, d’osso,
il precipitare a valle delle acque fredde
d’una stagione che, braccato, il cuore
tremava come nell’agguato bestia, di dosso
in dosso da colline d’oro.

Nuove sementi spargono colore
di cenere pel mondo… Più non bussa
il tedesco ubriaco alla tua porta,
non imbraccia l’arma sul tuo bambino.

Uomo tradito, diviso dal cuore,
tu che ti specchi in una lacrima sul dito
perché non altro diamante chiude il tuo anello,
attendimi in fondo alla scesa
degli anni che tra due muri precipita.

Sarà la notte d’un agosto fondo,
e tu accendi la lampada, e fa’ segno.

 

*

A labbre serrate
 

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un discorso pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne

come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divaria dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

 

*

Il cuore eterno
 

Gli spazi delle strade, luce fonda
inebriata dal tuo torbido vino,
fermentano tra i fiori
pallidi che una mano convulsiva
stringe al petto, ma tu dalle inferriate
degli anni lascerai cadere ancora
luce ed ombra su questa sazietà.

Tu, fedele e infedele, ora saprai
che la prima parola più non conta
dell’ultima, che tu non vincerai;
ma tu, clessidra lenta, riempirai
ancora il cono sottostante d’ombra,
seguiterai impassibile a svuotarti
perché qualcuno sai che ti riempie
all’improvviso se ti capovolge.

 

*

Amando, dove sei?
 

Cosa insinua di incerto l’amore
nella speranza, il fiore quale scandalo
nella sua erta oltranza? Dove sei,
amando dove sei?

Nell’altra stanza
odi un canto, un passo strascicato
di danza, e non ci vai, resti dubbioso.
Sai che talvolta è meglio la distanza
che inoltrarti in un ritmo che ascolti
e che vuoi che rimanga nel suo enigma
in cui molti significati, troppi
forse, sono racchiusi nel suo stigma.

 

*

La tomba per l’amore ucciso
 

Chi ha nascosto qualcosa nell’evidenza?
Chi non ha scagliato la prima pietra?
Chi è senza peccato, il testimone
o il testimoniato?

Eppure senza
quella testimonianza, il reato
avrebbe la voce dell’innocenza.
Chi ha passeggiato, un giorno come questo
che la storia era solo un filo d’erba
spuntato tra il selciato, intorno a quello
che fu scritto illeggibile da tutti?
Il dito s’è rialzato come i flutti
amari del mare di Galilea:
pesantissimo è stato quello che non è stato
più di quello che è stato.

Un fiotto ancora
del sangue del costato, sotto il sole,
fluttua purpureo come le viole
nel vento che ti accarezza il viso
in cui il sorriso erra dimenticato
del più incomprensibile perdono:
è l’atto più enigmatico del dono.
Chi è tra noi, chi si è allontanato?
Vive la santità grazie al peccato
o questo è un’inutile disgrazia?

Ma quale inopia più di questa sazia,
quale copia di quale sacrificio,
la misteriosa ira della storia?
Ogni storia è particola di un tutto,
un’ostia che attende quale lingua:
è Croazia, è il flutto che schiaffeggia
la mia terra natale così bassa
all’orizzonte che ritorna mare,
in cui quando vi torno non so andare
al di là di uno sguardo obliato.
(Sono sempre in ritardo su me stesso
o qualcosa scompare di me stesso
in un altro me stesso inattendibile,
in un me stesso ch’io non so più amare?).

La terra è così piccola – chi è stato
a ferire a morte anche l’amore? –
là dove Bosko, serbo innamorato,
e la piccola Admira musulmana,
abbracciati, in terra di nessuno,
giacciono morti. Chi potrà slacciarli,
dare una tomba all’amore ucciso?

Quale porta, di quale sacrificio,
s’è dischiusa, se non quella del sogno?
La parola che romba nell’orecchio
è quella del più antico maleficio,
ma di quale risveglio c’è bisogno?

Quel viso contro viso, quale bacio
– lì tra l’erba di un greto (è la storia
che appartiene a tutti e a nessuno?) –
è più intruso per noi di rimorso…
È stata fucilata la speranza?
Quale sforzo il dolore non sa fare
tra l’odio, il male e lì presso, dove…,
ma dove ha sede la felicità?
Quale cecchino sta a spiare, quale
risuscitato Caino, pronto
allo sparo, nascosto? Il testimone
del dolore del mondo ha cambiato
posto, non sa ormai più che sparare,
innamorare ormai solo la morte,
sventagliare nel mucchio l’innocenza,
il suo ghigno divenuto immonda
indifferenza tra il dire e il fare,
insofferenza tra il mezzo e il fine.

La vergogna del secolo non ha
nel dolore del secolo confine.
Là il rezzo della morte non ha fine.
Carezza dolce le chiome corvine
di Admira la morte innamorata,
molce il respiro spento in quelle labbra.
E io che ci sto a fare, alla mia rabbia
che cosa è rimasto da ammirare,
perduta in quale lebbra ogni bellezza,
in quale ebbro annaspare la carezza
che non sa più su
qual volto posare
la sua stessa terribile tristezza.

 

*

Particolari
 

Terra e mare gelati di dolore,
ancora per un po’ conservate il silenzio.

I ricordi non sono cose accadute,
forse sono solo sulle mani
di chi non può seguitare ad uccidere, di chi non può bere
ancora un po’ senza ebrietà,
i ricordi non sono come le spade
che quanto più penetrano liberano
dalla ferita, i ricordi consumano
il sole la luna i passi affannati
di chi ritorna, o del cane che intanto si lecca
la zampa fedele dilaniata, i ricordi
vengono ancora dopo o prima della vita.

O spettro inconcludente, o forra di lacrime,
disperso in te mi volevo guardare
e volevo arrivare oltre di te.
Solo la morte vi potrebbe avere,
ricordi voi sempre un po’ più in là della vita,
perché disobbedire agli ordini di non stare nascosto,
perché nascondersi camminando indifferenti?
E non so più chi sono, ma solo quel che faccio,
e so anche questo: non chiederò perdono
per quel che faccio, per il profondo passo dell’abbandono.
Sole e luna sono stanchi di campare sui nostri ricordi,
abbiamo le dita spellate, i gesti atoni, i pensieri sordi,
vogliamo adoperare in un atto doloroso
la confusione di cui non siamo degni,
ma non vogliamo attraversare senza accorgercene
il confine della certezza, la linea del riposo.

Terra e mare gelati di dolore,
ancora per un po’ conservate il mio silenzio.

 

*

Parola
 

Un volo vivo di cenere ignora
il limite ubertoso della terra,
coppa mesciuta a ritroso dal cielo.

Ma tu eterna attenderai,
quasi presso lo scheletro,
nel sogno del tuo corpo una parola,
solcata dai miei sguardi, di certezza.

La morte ti discingerà,
farà cadere zuppo il fazzoletto delle lacrime
(chi lo troverà, chi lo raccatterà),
(chi ti raccatterà dalle tenebre),
la morte non saprà nemmeno più
niente di nessuno, madre che mi hai lasciato
a dire che non so.

 

*

La notte bianca
 

Ora eccolo in un lampo quel che è stato:
è l’avvenire: là salta la lepre,
ma non spara che il tuono, dentro l’angolo
d’un sogno per le scale il bimbo ruzzola…
E tutto inavvertito: questa scia, questo zolfo,
questa che dici l’anima
e colmi di rimorso, e la memoria…

Vedi, la storia che s’aggrappa ai fatti
non è una storia; tu ne parli: «Ho amato…»
«Hai amato?…»
«Sì, ho amato…», e lieve credi
d’essere quello che ha amato, quello
che ha creduto, che ha avuto; ma conserva
solo il silenzio il suo linguaggio, il mare
solo il mare è cosciente della terra,
quella stella è cosciente d’ogni buio.

Sai – hai letto il giornale – che un satellite,
un minuscolo in orbita satellite
americano ha captato col tritio
un po’ di sole, e lo mantiene l’uomo,
l’uomo intorno alla terra. Sai? la lucciola
dentro il bicchiere capovolto e il giorno
dopo – era l’alba appena e senza questa
foschìa – il bambino vi trovava il suo
ventino, già la lucciola sparita.

Attestano le chiarìe – vedi sul mare –
che non v’è specchio per nessuno, neanche
per chi guarda stupito nel suo cuore.
Ma forse hai misurato quanto dista
ogni essere dal suo totale esistere.
Abbandona quest’eco di giustizia,
cedi alla sproporzione. Dunque, vòltati.
La sete è nel bicchiere. Nel deserto
la sua fecondità. La notte bianca
sperdila come frughi tra i carboni
a ridare la fiamma ai volti attoniti,
spòstati con gli aculei che configgono
la notte sempre più verso la notte.

 

*

Il mistero dell’amore
 

Come se avessi scelto di non desiderarti
per tenerti all’interno stesso del desiderio.

 

 

*

C’è un’isola deserta in mezzo al mare
 

C’è un’isola deserta in cui ogni notte
scende la luna e vi ritorna donna.
S’imbruna a poco a poco il fruscìo
delle acque tra le rocce. Par che sia
il regno, quello, dell’oblio.

Ma quando
silenziosa ella scende dalla volta
celeste, tutt’intorno un lume invade
quel silenzio. L’isola non ha strade.
Nessuno vede quello che vi accade.

Ella piange qualcuno o qualcosa?
Ma non sembra cercarvi alcunché,
e solo quando l’alba odorosa
vi si sparge, non è rugiada quella
lacrima stillante su una rosa.

 

*

 
 

… Era il mare,
solo il mare che avrebbe ormai potuto
raccontarle il resto della favola?
Ma forse è lei la favoleggiatrice,
tènera davanti al tuo silenzio,
lei che vènera l’ombra che il sole
allunga dietro le tue spalle. Dice…

 

da Enigma Innamorato
(Antologia 1933-1997) –
Piero Bigorgiari