August Strindberg

 

Ouverture

 
Seduto al tavolo, con la penna in mano, stramazzai a terra colpito da un attacco di febbre. Negli ultimi quindici anni non avevo sofferto di nessuna malattia seria, e così non presi alla leggera quell’episodio verificatosi in un momento tanto inopportuno: non che avessi paura di morire, tutt’altro, ma non mi piaceva molto l’idea di ritrovarmi a trentotto anni alla fine di una carriera clamorosa, senza avere detto l’ultima parola, senza avere realizzato tutte le mie ambizioni giovanili, e con ancora moltissimi progetti per il futuro. Poiché vivevo da quattro anni con moglie e figli in esilio semivolontario, rintanato in un paesino della Baviera, allo stremo delle forze, e poco tempo prima mi avevano citato in giudizio, privato dei beni, bandito, dato in pasto ai cani, nell’istante in cui mi lasciavo cadere sul letto ero ossessionato da un unico pensiero: vendicarmi. Allora ebbe inizio una lotta. Ero solo nella mia mansarda, troppo debole per invocare aiuto, in preda alla febbre che mi scuoteva come fossi un letto di piume, mi afferrava alla gola per strozzarmi, mi schiacciava il petto con il ginocchio, infiammandomi le orecchie al punto che mi sembrava mi uscissero gli occhi dalle orbite. Probabilmente la morte si era insinuata nella stanza per avventarsi su di me.
Ma non volevo morire. Resistevo, e così lo scontro divenne furibondo; i miei nervi erano tesi, il sangue scorreva a fiotti nelle arterie, il cervello si dimenava come un polipo nell’aceto. D’un tratto, convinto che in quella danza macabra avrei avuto la peggio, mollai la presa e mi lasciai cadere all’indietro, abbandonandomi all’abbraccio di quell’avversario terrificante.
Improvvisamente una calma indescrivibile s’impadronì di tutto il mio essere, un torpore voluttuoso pervase le mie membra, una dolce quiete scese sulla mia anima e sul mio corpo, privati di un salutare riposo in tanti anni di fatiche.
Forse era la morte! Lentamente la volontà di vivere svanì; avevo smesso di sentire, percepire, pensare. La mia coscienza si annebbiò, e soltanto la benevola sensazione del nulla colmò il vuoto lasciato dalla scomparsa di sofferenze innominate, di pensieri inquietanti, di angosce inconfessate.
Quando mi svegliai, vidi mia moglie seduta al mio capezzale scrutarmi con sguardo allarmato.
«Che cos’hai, povero caro?» mi chiese. «
«Sto male!» risposi. «Ma è bello star male!».
«Che dici! È una cosa seria, allora!».
«Si sta avvicinando la fine. Almeno spero».
«Dio non voglia. Ci lasceresti in mezzo alla strada!» esclamò. «Che ne sarà di noi, in un paese straniero, senza amici, senza denaro?».
«Avrete la mia assicurazione sulla vita» dissi per rassicurarla. «Non è molto, certo, ma quanto basta per tornare in patria».
Non ci aveva pensato, e un po’ tranquillizzata riprese:
«Ma, mio caro, bisogna fare qualcosa; mando a chiamare il dottore!».
«No! Non voglio dottori».
«Perché?». «Perché… Insomma, non voglio».
Lo sguardo che ci scambiammo era carico di sottintesi.
«Voglio morire!» tagliai corto. «La vita mi disgusta; il passato mi sembra una matassa che non ho la forza di sbrogliare. Scendano le tenebre, e facciamo calare il sipario!». Questo profluvio di sentimenti lasciava fredda mia moglie. «Ancora i tuoi vecchi sospetti!» mormorò. «Sì, ancora! Scaccia questi fantasmi! Solo tu puoi farlo!». Con un gesto che le era consueto, mi posò la mano sulla fronte. «Va meglio così?» disse, con la voce carezzevole da brava mamma che aveva Un tempo.
«Oh sì, va meglio».
Infatti, il contatto con quella manina che aveva gravato con tutto il suo peso sul mio destino aveva il dono di allontanare i diavoli neri, di dissipare ogni accenno di dubbio.
In seguito, la febbre tornò più forte di prima. Mia moglie si alzò subito a prepararmi una tisana di sambuco. Rimasto solo, mi misi seduto per guardare fuori dalla finestra di fronte al letto. Era un’ampia vetrata a tre battenti, incorniciata all’esterno da un pergolato le cui foglie, di un verde traslucido, lasciavano intravedere uno scorcio di paesaggio. In primo piano, la cima di un cotogno ornata dai suoi bei frutti dorati tra le foglie verde scuro; più lontano, i meli piantati in mezzo ai prati, il campanile della cappella, la macchia blu del lago di Costanza, e sullo sfondo le Alpi tirolesi.
Nel cuore dell’estate, tutto era illuminato dai raggi inclinati del sole pomeridiano e formava un quadro delizioso.
Salivano dal basso il cinguettio degli storni appollaiati sui tralicci delle viti, il pigolio degli anatroccoli, il frinire dei grilli, il suono dei campanacci delle mucche e, mescolate a quell’allegro concerto, le risate dei miei figli, la voce di mia moglie che impartiva ordini e parlava del malato con la moglie del giardiniere.
Allora fui riconquistato dalla gioia di vivere, e mi assalì la paura dell’annientamento. Decisamente non volevo più morire, avevo ancora troppe cose da fare, troppi conti da regolare. Roso dai rimorsi, avvertii l’impellente bisogno di confessarmi, di chiedere perdono a tutti per qualsiasi cosa, di umiliarmi davanti a chiunque. Mi sentivo colpevole, la coscienza tormentata da delitti sconosciuti; ardevo dal desiderio di liberarmi con una confessione completa di tutte le mie colpe immaginarie.
Nel corso di quella crisi di debolezza, originata da una viltà congenita, tornò mia moglie con una tazza di tisana e, alludendo alla mania di persecuzione di cui avevo leggermente sofferto in passato, assaggiò la bevanda prima di porgermela.
«Non è avvelenata» disse sorridendo.
Ebbi vergogna, non sapevo cosa rispondere, e per accontentarla vuotai la tazza d’un fiato.
La soporifera tisana di sambuco, il cui odore mi ricordava il paese natio, dove il misterioso arbusto è oggetto di un culto popolare, mi provocò un attacco di sentimentalismo che culminò nell’appassionata esternazione dei miei rimorsi.
«Ascoltami bene, tesoro, prima che io muoia. Riconosco di essere stato uno spudorato egoista; per non rinunciare al successo letterario ho spezzato la tua carriera teatrale; sono disposto a confessarle tutto; perdonami».
Lei cercava di confortarmi, ma io la interruppi e proseguii:
«Il contratto matrimoniale lasciava a te, come desideravi, la proprietà della dote, che io però ho dilapidato con investimenti scriteriati. Quel che più mi pesa è che se io dovessi morire non potrai riscuotere i diritti delle opere che ho pubblicato. Perciò chiama un notaio; voglio nominarti erede dei miei beni, materiali e non. E poi torna all’arte che avevi abbandonato per me».
Lei cercava di cambiare discorso, volgendo la cosa allo scherzo; mi ordinò di fare un sonnellino, mi assicurò che tutto si sarebbe sistemato e che non sarei morto tanto presto.
Esausto, le presi la mano, la invitai a restare seduta accanto a me, mentre io avrei dormito un po’; tenendo la sua manina stretta nella mia, la pregai un’ultima volta di perdonarmi tutto, tutto il male che le avevo fatto; un dolce torpore mi scese sulle palpebre, e mi sentii squagliare come ghiaccio ai raggi dei suoi grandi occhi che emanavano un’infinita tenerezza; e quando il suo bacio si stampò come un freddo sigillo sulla mia fronte ardente mi sentii sprofondare in un abisso d’ineffabile beatitudine.
Quando mi svegliai da quello stato di letargia era ormai giorno. La luce del sole incendiava la tenda decorata con una sgargiante raffigurazione del paese di cuccagna, e stando ai rumori che si udivano in basso dovevano essere le cinque del mattino. Avevo dormito tutta la notte senza sogni, senza interruzioni.
La tazza della tisana era ancora sul comodino; la sedia di mia moglie era nello stesso posto, ma io ero infagottato nella sua pelliccia di volpe, i cui morbidi peli mi accarezzavano il mento facendomi il solletico.
Il mio cervello sovraffaticato si sentiva fresco e riposato come se fosse la prima volta che dormivo in dieci anni; le idee che solo poco prima vagavano in modo caotico si riallineavano ora in schiere regolari, vigorose, piene di forza, pronte a resistere agli assalti di quei morbosi rimorsi che nei degenerati sono sintomo di una natura fiacca.
A tormentarmi erano soprattutto le due macchie della mia vita, quelle che avevo riconosciuto il giorno innanzi, quand’ero un agonizzante che si confessava con la donna amata; erano ferite aperte da tanti anni e avevano avvelenato quelli che credevo sarebbero stati i miei ultimi istanti su questa terra.
Ora, colto dalla vaga sensazione che non tutto fosse come appariva, vorrei affrontare quelle due questioni, finora accettate senza discutere.
Guardiamo le cose un po’ più da vicino, mi dissi: quale peccato ho mai commesso per dovermi considerare un vigliacco egoista che ha sacrificato la carriera artistica della moglie alle proprie ambizioni?
Vediamo come sono andate realmente le cose.
Quando facemmo affiggere all’albo le pubblicazioni di matrimonio, mia moglie era già passata a parti da non protagonista, o meglio di generica; il suo secondo debutto si era risolto in un fiasco, perché lei mancava di talento, spigliatezza, vivacità, di tutto. Il giorno prima delle nozze aveva ricevuto un quaderno blu che con sua grande sorpresa conteneva due battute pronunciate da un’anonima dama di compagnia in un’anonima commedia.
Quante lacrime, quante delusioni a causa di quel matrimonio che privava del suo fascino un’attrice sino a poco tempo prima accompagnata dall’intrigante immagine di baronessa che aveva lasciato il marito per amore dell’arte.
Certo, era mia la colpa di quel disastro che stava per mettersi in moto e che, dopo due anni di pianti su copioni sempre più esigui, avrebbe portato a un brusco licenziamento.
Proprio nel momento in cui la sua carriera teatrale sta per tramontare, io raggiungo il successo come romanziere, un successo solido, indiscutibile. Essendomi in passato cimentato nel teatro con commediole senza importanza, il mio primo pensiero fu di scrivere una commedia dignitosa, realizzata con il preciso scopo di procurare alla mia amata il nuovo ingaggio tanto desiderato.
Mi applico un po’ a malincuore. Da tempo vorrei introdurre qualche novità drammaturgica che ritengo opportuna, ma in quel lavoro sacrifico le mie convinzioni letterarie. Dovevo assolutamente imporre il mio tesoro al pubblico, cacciarglielo in testa con ogni mezzo, introdurlo di contrabbando nelle grazie di quel mondo recalcitrante. Tutto inutile.
La commedia fu un insuccesso, l’attrice venne fischiata da un pubblico ostile a una donna divorziata e risposata, e il direttore si affrettò a rescindere un contratto per lui svantaggioso.
«È stata mia la colpa?» mi chiesi stirandomi sul letto, molto soddisfatto dell’esito di quella prima indagine. «Ah com’è bello avere la coscienza tranquilla» esclamai; e, chiarito quel punto, procedetti.
Segue un anno, triste, lugubre, trascorso in pianti nonostante la gioia per la nascita di una figlia desiderata.
A un tratto si rifà viva con raddoppiata energia la smania teatrale. Andiamo da un teatro all’altro, cerchiamo con insistenza di parlare con i direttori, ci facciamo pubblicità, non diamo loro tregua, sempre senza successo, dovunque messi alla porta, da tutti consigliati di desistere.
Demoralizzato dal fallimento della pièce, ma avviato a farmi una posizione nel mondo delle lettere, non avevo intenzione di scrivere altre commedie per attori da strapazzo e non volevo mettere in pericolo il mio matrimonio a causa di una fantasia passeggera, così mi limito a ingoiare la mia razione di inevitabili noie.
Il che alla fine risultò superiore alle mie forze, e sfruttando le mie aderenze presso un teatro finlandese riuscii a far inserire mia moglie in alcuni spettacoli destinati a una breve permanenza in cartellone.
Fu come se le stessi mettendo in mano io stesso la frusta per colpirmi. Per un mese intero vedovo, scapolo, capofamiglia e capocuoco, ebbi in cambio la magra consolazione di vedermi recapitare a casa due cesti di fiori.
Ma lei era così felice, ringiovanita e attraente che mi sentii in dovere di spedire seduta stante al direttore la richiesta di scritturarla.
Fate attenzione: decido di lasciare il mio paese, i miei amici, la posizione che mi ero costruito, il mio editore per soddisfare un suo capriccio. Ma che volete farci? In amore non esistono vie di mezzo!
Per fortuna il brav’uomo non ha più posto per un’attrice senza repertorio!
«Colpa mia, naturalmente!». Mi crogiolo soddisfatto nel letto. Ah, ogni tanto ci vuole proprio un’indagine come quelle che fanno gli inglesi. Ne esco molto sollevato e conto di rimettermi presto in forze.
Vediamo il seguito! I bambini vengono al mondo l’uno dopo l’altro; uno, due, tre. Abbiamo seminato parecchio!
E sempre quella smania del teatro, sempre. Bisogna trovare una soluzione. Apre i battenti un teatro rivale. Che cosa c’è di più facile che proporgli una commedia, questa volta una pièce con una protagonista femminile? E perché non un dramma che faccia rumore, per esempio sulla questione della donna tanto di attualità?
Detto fatto, perché, sapete, in amore non esistono vie di mezzo.
Dunque: un dramma, una parte femminile, costumi adeguati, una culla, un chiaro di luna, un bandito per antagonista, un marito succube, vigliacco, perdutamente innamorato della moglie (ero io) una gravidanza (questa era un elemento nuovo), interni da monastero e il resto.
Strepitoso successo dell’attrice e fiasco dell’autore, già… fiasco!
Lei ce l’aveva fatta, e io ero distrutto, rovinato.
Nonostante tutto, nonostante la cena da cento franchi offerta al direttore del teatro, a dispetto dei cinquanta franchi di multa che avevo rischiato di pagare alla prefettura di polizia per alcuni «evviva» urlati davanti alla porta dell’impresario in un’ora indebita, non vedemmo l’ombra di una scrittura.
«Non era colpa mia!». E chi era il martire, la vittima? Io! Non c’erano dubbi! Eppure tutte le donne perbene mi guardano con riprovazione perché ho sacrificato la carriera di mia moglie; è un assillo che mi porto dietro da tanti anni e che non mi lascerà finire i miei giorni in pace. Quante volte me lo sono sentito rimproverare, con durezza, davanti a tutti! Eh già! In realtà è accaduto proprio il contrario. È stata spezzata una carriera, certo, ma di chi? E da chi?
Mi assalgono sospetti tremendi, e il buonumore svanisce al pensiero che sarei potuto passare ai posteri come uno sfasciacarriere, senza nessuno a difendermi, a ripulire il mio nome dal fango.
Restava la faccenda della dote dilapidata.
Ricordo di essere stato al centro di una serie di articoli intitolati Un dilapidatore di doti; ricordo molto bene che mi veniva rinfacciato di essere mantenuto da mia moglie. Quella simpatica affermazione mi ha indotto a caricare la mia rivoltella a sei colpi. Analizziamo allora questa vicenda, visto che altri hanno voluto analizzarla, e giudichiamola, visto che altri hanno ritenuto opportuno giudicarla.
Mia moglie aveva portato in dote diecimila franchi in azioni fluttuanti che furono impegnate per il cinquanta per cento del loro valore nominale in un credito ipotecario a me intestato. Sopraggiunge il crack generale, e i titoli non valgono quasi più niente, cosa di cui al momento non avevamo chiara consapevolezza, dato che vendere nel momento critico è impossibile. Fui costretto a rimborsare il prestito, a versare cioè il cinquanta per cento della dote. In seguito il banchiere che aveva emesso i titoli infetti restituisce a mia moglie il venticinque per cento, il dividendo che le spetta sui beni della banca fallita.
Ecco un problema per matematici. Quanto ho dilapidato?
Niente, mi sembra! I titoli invendibili tornano al portatore senza avere subito deprezzamenti, mentre io li avevo rimborsati con la mia cauzione personale versando il venticinque per cento in più.
Ebbene? Sarei innocente in questa vicenda come nell’altra!
E i rimorsi, la disperazione, il suicidio a cui avevo tante volte pensato! Riemergono i sospetti, la diffidenza di un tempo, i dubbi atroci, e vado su tutte le furie se penso che stavo per morire come un miserabile. Oberato di preoccupazioni e di lavoro, non avevo mai avuto il tempo di andare a fondo in quel cumulo di voci, sottintesi, frecciate beffarde; mentre io mi dedicavo anima e corpo al mio duro compito, i racconti di gente invidiosa e le chiacchiere da caffè davano vita a un’infame leggenda. Per Dio! E pensare che ho creduto a tutti tranne che a me stesso.
Possibile che non fossi pazzo, che non fossi mai stato ammalato, mai stato un degenerato? Possibile che fossi, molto semplicemente, un allocco, vittima di un’adescatrice che amavo e che con le sue forbicine da ricamo avrebbe tagliato i boccoli di Sansone mentre questi riposava la testa gravata da tante fatiche e preoccupazioni sostenute per il bene della moglie e dei figli? Fiducioso e lontano da ogni sospetto, in quel decennale sonno fra le braccia dell’ammaliatrice costui avrebbe perduto l’onore, la virilità, la voglia di vivere, l’intelligenza, i cinque sensi e altro ancora!
Possibile – mi vergognavo al solo pensarlo – che tutta questa nebbia in cui vago da anni come un fantasma celi un delitto? Un delitto piccolissimo, commesso inconsapevolmente, nato da un’indefinita sete di potere, dall’inconfessata brama della donna di sopraffare il maschio in quel duello che va sotto il nome di matrimonio!
Non c’era dubbio. Ero stato io la vittima! Sedotto da una donna sposata, costretto a prenderla in moglie per giustificarne la gravidanza e salvarne così la carriera teatrale, l’avevo lasciata proprietaria della dote a condizione che le spese domestiche fossero ripartite a metà, e dopo dieci anni mi ritrovo senza un soldo, e scopro di essere stato derubato, perché il peso economico è ricaduto tutto su di me.
Nel momento in cui mia moglie mi respinge come un buono a nulla incapace di provvedere al sostentamento della famiglia, e afferma che avrei sedotto lei e sperperato il suo patrimonio virtuale, in realtà mi deve i quarantamila franchi della sua parte pattuiti nel contratto verbale il giorno del matrimonio civile!
È lei a essere in debito con me!
Determinato a fare chiarezza, mi alzai, saltai giù dal letto come un paralitico che getti immaginarie stampelle, e mi vestii in fretta per scendere da mia moglie.
L’incantevole quadro che si offrì ai miei occhi attraverso la porta socchiusa mi stregò. Sdraiata sul letto disfatto, con la testa graziosa affondata fra i bianchi guanciali, sulla cui federa erano sparsi come serpenti i suoi capelli color frumento, le spalle che spuntavano dalla camicia da notte intessuta di trine che lasciava indovinare il seno virgineo, il corpo esile ed elegante che si profilava sotto la soffice coperta a righe bianche e rosse, e il minuscolo piede, arcuato, perfetto, dalle rosee dita coronate di unghie immacolate, trasparenti, capolavoro assoluto in carne umana plasmato sul modello di un’antica statua di marmo, spensierata, mia moglie guardava ridendo con casta espressione materna i suoi tre piccoli paffuti che si arrampicavano e poi si tuffavano sulla trapunta arabescata come su un mucchio di fiori appena falciati.
Disarmato davanti a quello spettacolo delizioso, dissi a me stesso: guai a chi disturba la tigre mentre gioca con i suoi piccoli.
Domato, soggiogato dalla maestà della madre, entrai con passo incerto, timido come uno scolaretto.
«Oh, sei in piedi, tesoro!» mi salutò lei, sorpresa, ma non così piacevolmente sorpresa come avrei voluto.
Abborracciai una spiegazione, soffocata dai bambini che mi piombarono sulla schiena quando mi chinai per dare un bacio alla madre.
«Una criminale, lei?» mi chiesi mentre mi allontanavo vinto dalle armi della bellezza pudica e dai sorrisi sinceri di quella bocca mai macchiata da una menzogna! Neanche per sogno!
Mi ritirai in sordina convinto della sua innocenza, ma quei dubbi feroci tornarono a rodermi. Perché la mia inattesa guarigione l’aveva lasciata così fredda?
Perché non si era informata sul decor-so della febbre, su come avevo trascorso la notte? Come spiegare quell’aria delusa, quasi sgradevolmente sorpresa, al vedermi del tutto ristabilito, quel riso beffardo di superiorità, di condiscendenza? Aveva coltivato la vaga speranza di trovarmi morto quel bel mattino, di essersi liberata di un pazzo che non smetteva di renderle la vita insopportabile e di poter così incassare le poche migliaia di franchi dell’assicurazione con cui riaprirsi la strada verso la sua meta? Neanche per sogno!
Però i dubbi si erano conficcati, dubbi su tutto, sull’onestà di mia moglie, sulla legittimità dei miei figli, dubbi sulla mia salute mentale, e non mi concedevano un istante di tregua, né di riposo.
Comunque bisogna risolvere la faccenda, porre fine a quelle idee insensate! Devo sapere o morire! O dietro c’è un delitto, oppure sono pazzo! Bisogna scoprire la verità! Un marito tradito? Che cosa m’importa, purché io lo sappia! Così da cavarmela con una risata malvagia. Esiste un uomo che sia sicuro di essere l’unico amore di una donna? Se passo in rassegna tutti i miei amici di gioventù, ora sposati, ne trovo uno solo che non sia stato in qualche modo tradito! Gli altri, beati loro, non hanno nessun sospetto. Non è il caso di sottilizzare, d’accordo; da soli o in due, non fa differenza; ma non saperlo vuol dire esporsi al ridicolo! Questo è il punto! Sapere! Campasse anche cent’anni, un marito non saprebbe mai nulla della vita della moglie. Potrebbe conoscere il mondo, l’universo, e ignorare tutto della donna la cui esistenza è legata alla sua.
Ecco perché quel povero signor Bovary si è impresso con tanta forza nella mente di tutti i mariti beati.
Ma io voglio sapere! Per vendicarmi! Forza, allora! Vendicarmi su chi? Su quelli che mi sarebbero stati preferiti? Ma questi si sono limitati ad approfittare del loro diritto di maschi! Su mia moglie? Non è il caso di essere pignoli! Perderei la madre dei miei angioletti, e non voglio neanche pensarci!
Ma devo assolutamente sapere! E per questo condurrò un’indagine, approfondita, discreta, diciamo pure scientifica, sfruttando tutte le risorse della nuova scienza psicologica, ricorrendo alla suggestione, alla lettura del pensiero, alla tortura psicologica, e senza disdegnare i vecchi sistemi dell’effrazione, del furto, dell’intercettazione di lettere, della contraffazione di documenti, della falsificazione di firme, niente insomma. È un’ossessione, lo sfogo di un maniaco? Non spetta a me giudicare! Sarà il lettore, una volta terminato questo libro scritto in buona fede e acquisita conoscenza dei fatti, a emettere un giudizio imparziale. Forse imparerà qualche briciola di fisiologia amorosa, un pizzico di psicologia patologica e anche un cenno di filosofia del delitto. […]

 
da L’arringa di un pazzo
August Strindberg

 

Burhan Dogancay

 

[…] Pomeriggio, nella modesta stanzetta di Strindberg.
Il volto di Strindberg, improvvisamente molto vicino, furibondo, quasi deformato dalla rabbia; pare quasi sputare le parole sul viso sbalordito di Siri.
“No! Sto da cane! Sto male all’idea di questa buffonata, di questa farsa che voi due avete montato! Come commedia è pessima e la parte che mi avete affibbiato non mi va. E soprattutto ne ho fin qui di lui! Un pallone gonfiato che in testa non ha altro che la reputazione e i gradi e… E invece eccolo là a farsela con la cugina Sofi, voi due non volete altro che la separazione. Ma no, bisogna inventarsi la storiella per salvare la faccia. Che sei costretta a divorziare per amore del teatro. Ma mi ami? Sì o no? E allora dillo chiaro e netto, e affrontiamo lo scandalo. Dillo, in modo che tutti lo sentano: io ti amo, August Strindberg. Così la facciamo finita con tutto questo sudiciume insulso.”
Silenzio. Lei dice a voce bassa:
“Mi ami veramente?” “Sì, Siri. Spaventosamente. Tantissimo.”
“Perché?”
“Perché? Per tante ragioni. Per me tu sei un profumo… a volte penso a te al nostro amore come a un profumo. Fresco… acidulo… forte e pulito, Siri. Come la burriera della mamma.”
“La burriera? Cosa intendi dire?”
“Mia mamma aveva una burriera, di legno, ma dentro non c’era mai burro. L’aveva fatta suo padre, era un abile falegname. E se la fiutavi, l’interno emanava un profumo buono, così buono. La burriera della mamma. Ecco, così ti penso. E vorrei che il nostro amore rimanesse così per sempre, meravigliosamente pulito, con quel profumo sano… come il legno di ginepro.”
Lei lo fissa a lungo. Poi si mettono a ridere entrambi e Siri, indicando sé stessa:
“La burriera della mamma?”
Strindberg annuisce. E tutti e due scoppiano in una risata aperta, quasi liberatoria. […]

È sdraiato sul letto. Si solleva sul busto e rimane seduto.
Siamo a Kymmendö. È estate. Siri dorme serena e tranquilla. È molto bella. Il sole illumina il pavimento di legno. Nella stanza accanto, i bambini.
Strindberg si alza: sulla porta si volta. Siri si è addormentata leggendo, il libro le è scivolato sul ventre, le pagine scomposte.
Si sveste sulla spiaggia, vicino ad uno scoglio.
La baia è immobile.
Entra in acqua con molta cautela, attento a non provocare neppure una increspatura, neppure un suono. Avanza lentamente infrangendo quello specchio liquido, come fosse mercurio.
Si abbandona fluttuando nel silenzio assoluto. Questo è l’arcipelago, e lui v’è in mezzo.
In mezzo all’arcipelago. Attende. È perfettamente felice. […]

“Colpa mia, colpa mia.”
Fa per andarsene. E proprio allora Strindberg, alle sue spalle, dice:
“Siamo ben come tutti gli altri. Dev’essere… normale.”
Mattina presto. C’è una luce grigia.
Siri è seduta sul letto. Non si è tolta il cappotto, le scarpe sono sporche di fango, ma lei ha egualmente i piedi sul letto. Tiene le mani sulle ginocchia e si dondola lievemente, avanti e indietro, in modo quasi impercettibile.
August, in piedi vicino alla finestra, le volge la schiena.
Siri dice: “Non sono isterica.”
Pausa. Nessuno dei due parla.
Siri dice: “Non sono isterica.” Pausa. Nessuno dei due parla.
“Se dico che voglio un figlio, August, tu pensi semplicemente che io sia isterica.”
Strindberg dice:
“Cosi non possiamo andare avanti.”
“No, lo so! Lo so bene! Devo. Imparare. A controllarmi. D’ora in avanti.” “Hai freddo, Siri?”
“No, ho solo paura.
“Paura?”
“Che qualcosa tra noi si sia incrinato. Che è stato tutto un errore fin dall’inizio. Un errore. Un errore. Che… che abbiamo insudiciato tutto. Che noi… noi… siamo diventati come…”
“Come gli altri, vuoi dire?”
“Proprio.”
“È normale.”
Un lungo silenzio.
“Che faremo, August?”
Strindberg si volta e si allontana dalla finestra; le si avvicina, si siede sul letto, in ginocchio, rivolto verso di lei, le prende le mani e dice, prima a bassa voce, poi sempre più deciso:
“Siri, c’è solo una cosa che io posso fare adesso: mettermi in testa che sono uno scrittore. E nient’altro. E che, se così è, non posso fare altro che mettermi ogni mattina a tavolino per scrivere qualcosa che chiamerò… La Stanza Rossa… e accoppiare parole… frasi… è l’unica cosa che so fare. Scriverò dell’insulsaggine, del falso moralismo, della vita che conduciamo, scriverò com’è, come la vedo. Una vita, Siri, una vita, bella, brutta, o sporca; e forse ne verrà fuori qualcosa, Siri, qualcosa, non lo so, ma dobbiamo continuare a sperare e continueremo a sperare, Siri, a sperare, a sperare.” […]

August entra in cucina, carico di giornali, di doni degli invitati e di bottiglie. Siri sta preparando la cena per i festeggiamenti.
“Sono arrivati adesso? domanda.”
“Tutta la brigata!”
“Anche Josephson?”
“Possibile che i direttori di teatro costituiscano la tua unica preoccupazione?”
“Ma sui giornali c’è qualcosa?”
“Ciò che ci si poteva aspettare” risponde Strindberg, telegrafico.
“Sono furibondi, vero? Tutti quegli attacchi all’… all’…”
“Ordine costituito.”
“Dubito che otterrò molte parti al Teatro Reale, dopo questo libro.”
“Siri, per favore, adesso non pretenderai che io mi metta a leccar piedi solo perché ti diano qualche parte, vero?”
Lei lo guarda, senza sorridere.
“No… Questo sarebbe chiedere troppo.”
August si volta e fa per andarsene.
“August…”
“Sì?”
“Siamo così felici, adesso. Non mandare tutto all’aria.”
Non risponde e se ne va. […]

“Sempre appresso a quel maledetto Josephson, tutta scodinzolante nel tentativo di venderti.”
“Ma se sto battagliando per i tuoi drammi! E l’unica cosa che riesci a far entrare in quella tua testa è la gelosia!”
“Tu stai cercando di venderti! Ammettilo! E forse non è nemmeno la prima volta!”
“E tu menti! E non mantieni le promesse!”
“Che cosa???”
“L’avevi promesso! Avevi promesso di scrivere un dramma per me, di darmi una parte importante! Un grande ruolo femminile, che mi avrebbe permesso di sfondare, di iniziare a lavorare. Belle promesse! E invece, eccomi qua.”
Strindberg, in piedi vicino alla finestra, le volta la schiena. Con uno strano sorriso, dice:
“Allora è per questo che mi hai sposato.”
“L’avevi promesso o no?”
Segue un lungo silenzio. Poi August si avvicina alla scrivania e apre un cassetto chiuso a chiave. Tira fuori un manoscritto. Lo tiene in mano, guardando Siri. Senza un sorriso dice:
“Prego.”
“Cos’è?”
“Il tuo dramma. L’ho finito. Avevo pensato di intitolarlo La moglie del cavaliere Bengt. Racconta di una donna che abbandona il marito, proprio come in Casa di Bambola. Ma diversamente dalla commedia di quel leccapiedi di un norvegese, la mia è una storia vera. Infatti lei ritorna.”
Siri gli si avvicina e prende il manoscritto, quasi con avidità. Dice sottovoce:
“Ma… una parte? Per me?” […]

Il regolamento di conti avviene all’aperto, giù, vicino allo stagno. Le parole gli sgorgano dalla bocca come l’acqua da una sorgente. Siri è furiosa e triste.
“… Stramaledette borghesi che vogliono essere mantenute senza nessun dovere in cambio… e pure perverse…”
“Chiudi il becco! Chiudi il becco chiudi il becco chiudi il becco chiudi…” “Amare una così. Pazzesco!”
“E tu credi che la tua gelosia sia una prova, eh? Una prova del tuo amore… Ma quale prova? È un veleno. Con te devo soppesare ogni parola. Devo stare attenta, devo adattarmi, se dico una parola fuori luogo me la devo rimangiare per l’eternità. E tu mi consideri come un animale, un criminale, una…”
“Ma tu hai una natura criminale.”
“Ti sei appropriato della mia vita, sporco ladro! Ti ho fatto da serva per due anni, facendomi trascinare per mezza Europa, io che sono un’attrice, io che…”
“Ah ah ah ah ah ah ah!”
“Io sono un’attrice, ma ormai a Stoccolma chi se ne ricorda più…”
“Tu sei una puttanella, cara mia, ecco cosa sei.”
“E tu saresti un socialista? Tu non sei niente, per te non ho più un briciolo di rispetto, per te le donne sono animali, per te…”
“Non è vero! Io sono coerente! Metto insieme due più due!”
“Non sei buono a nulla.”
“Ah, è così che la pensi?”
Non è più un dialogo, non è più neppure una lite. È solo uno scambio d’invettive. Il volto di Strindberg è scuro, deformato dall’ira. La insegue, la afferra per il collo, tenta di strangolarla, ma lei è forte, entrambi cadono a terra, lui le afferra un piede e la trascina brutalmente, come un sacco di patate o una giovenca al macello, verso lo stagno.
“Io ti affogo, schifosa! Ti affogo, brutta puttana!”
Ma improvvisamente, in cima alla scala, ecco apparire la piccola Karin. In camicia da notte, con gli occhi sbarrati, grida:
“Papà! Papà papà papà papà… Papà!”
Strindberg lascia allora Siri. Lei sgattaiola via, svelta come una lucertola, senza una lacrima. Pensa solo a tagliare la corda, a fuggire lontano da lui, al sicuro. Senza una parola.
Risale piano verso la bambina. Molto piano. Ansima con la bocca aperta. Karin retrocede adagio adagio oltre la porta.
Accorgendosi di spaventarla, Strindberg si ferma. Siri scompare dietro l’angolo della casa, come un’ombra grigia. E Strindberg rimane solo. Immobile. […]

Silenzio.
“Che c’è, Siri?”
“Fa freddo…”
Non le risponde. “Ghiaccio. Freddo. Niente amici. Niente lavoro. Soltanto stare qui a macerarsi nell’odio. Strano, tutti pensano che l’inferno sia rovente. Secondo me è invece un deserto di ghiaccio, dove si è totalmente soli.”
Strindberg muto. Siri dice:
“Io non capisco. Non potremmo tornarcene a casa… almeno per qualche mese?” Silenzio.
Allora lei esplode e gli grida in faccia:
“Ora non vogliono più farci credito! Proprio oggi mi hanno fatto una scenata in negozio! Un’umiliazione incredibile! Maledizione. Perché non provi ad andarci qualche volta tu al negozio, a farti umiliare? E adesso come facciamo a tirare avanti? Ci hai almeno pensato?”
E Strindberg, a bassa voce:
“Mi manca poco per terminare quello che… che sto scrivendo.”
“Ah! E di che si tratta? A me non dici mai niente. Tutti gli altri sanno tutto. Io, invece, no. È la continuazione degli Abitanti di Hemsö?”
“È un romanzo sul matrimonio.”
“Ooooh! Ecco!”
“E sarà molto realistico.”
Siri gli volta le spalle e riprende a fissare la distesa di ghiaccio. “Pensavo di chiamarlo Apologia di un pazzo. Ma non ho intenzione di pubblicarlo.”
“Ooooh! Addirittura! Ovviamente tratterà di noi due, vero?”
Nessuna risposta. […]

 
da August Strindberg: Una Vita
Per Olov Enquist

 

 

 
~~~~~~~
* in copertina
La Vie en Rose
Burhan Dogancay