“…ma dammi un nome” – Katja Petrowskaja

E lei, dov’è diretta? mi domandò il vecchio, e io gli raccontai tutto, senza un attimo di esitazione, con il medesimo slancio, come stessi pronunciando la sentenza sul nuovo musical, gli raccontai della città polacca, da cui cent’anni prima i miei parenti erano emigrati a Varsavia e poi ancora più a est, forse solo per lasciarmi in eredità quella lingua russa, che ora io non tramanderò più a nessuno con altrettanta generosità, dead end dunque e stop, e per questo devo andare laggiù, gli raccontai, in una delle più antiche città della Polonia, dove loro, gli antenati, dei quali non si sa nulla, sul serio, proprio nulla, dove loro hanno vissuto per due, tre o anche quattro secoli, magari fin dal Quattrocento, quando in quella piccola città polacca agli ebrei erano state concesse le guarentigie, e così erano diventati i vicini di casa, erano diventati gli altri. And you? chiese Sam, e io risposi che ero ebrea anch’io, ma in modo piuttosto casuale. […]

La lista

Un giorno mi trovai davanti all’improvviso i miei parenti – quelli che venivano dal lontano passato. Mormoravano tra sé lieti messaggi in lingue dal suono familiare, e io pensai che grazie a loro avrei fatto fiorire il mio albero genealogico, avrei riempito i vuoti, avrei sanato quella sensazione di perdita; ma loro mi si accalcavano davanti sempre più, senza volti e senza storie, come lucciole del passato, che illuminavano piccole zone d’attorno, qualche strada o qualche fatto, ma non se stesse.
Ne conoscevo i nomi. Tutti quei Levi che dovevano essere dispersi per il mondo – se ancora erano in vita –, perché così si chiamavano la mia bisnonna, i suoi genitori e i suoi fratelli e le sorelle. Sapevo che c’erano dei Geller, o forse Heller, con precisione non è dato saperlo. […]
C’erano anche gli Stern, così si chiamava mio nonno finché non compì vent’anni, e così mi chiamerei anch’io, se la Rivoluzione russa non fosse stata vittoriosa, e così si chiamavano i suoi numerosi fratelli e le sorelle, i suoi genitori con i loro altrettanto numerosi fratelli e i suoi nonni con l’intera tribù – nel caso fossero stati davvero tanto numerosi come amavo raffigurarmeli. […]

La ricetta

[…] Quando Lida, la sorella maggiore di mia madre, morì, capii che cosa significa la parola Storia. Il mio desiderio di sapere era maturo, e io ero pronta ad affrontare i mulini a vento del ricordo, ma poi lei è morta. Ero lì con il fiato sospeso, sul punto di domandare, e così sono rimasta, e si fosse trattato di un fumetto la mia nuvoletta sarebbe stata vuota. La Storia comincia quando, all’improvviso, non ci sono più persone alle quali poter domandare, ma solo fonti. Io non avevo più nessuno cui chiedere, nessuno che ricordasse ancora quei tempi. Restavano brandelli di ricordi, appunti contraddittori e documenti in lontani archivi. Anziché porre a tempo debito le mie domande, mi ero mezzo soffocata con la parola Storia. Ero forse adulta, adesso, perché Lida era morta? Mi sentivo in balia della Storia. […]

Vicini di casa

Ho trascorso gran parte della mia infanzia a Kiev in uno di quei palazzoni nuovi di quattordici piani sulla sponda sinistra del Dnepr, in un quartiere che era sorto dopo la guerra e sembrava avesse, anziché un passato, solo un futuro senza macchia. Ma si trattava di «non dimenticare nessuno e non dimenticare nulla », come aveva scritto la poetessa Ol‘ga Berggol’c per commemorare il milione di vittime dell’assedio di Leningrado. Custodivamo nel cuore questo verso, nell’intero paese esso sostituiva il ricordo, non potevamo sfuggirgli perché con la sua verità manifesta e le sue celate menzogne era divenuto profezia: si veniva esortati a non dimenticare nulla e nessuno, affinché dimenticassimo chi e che cosa era dimenticato. E così nel cortile sul retro, insieme al salto con l’elastico e a palla prigioniera, continuavamo a giocare ai nostri contro i fascisti, un gioco come guardie e ladri, trentacinque anni dopo la fine della guerra.

Schimon, l’uomo in ascolto

[…] mia madre mi raccontava di come i nostri avi si fossero dispersi per l’intera Europa e avessero fondato scuole per sordomuti in Austria-Ungheria, in Francia e in Polonia […]

Il primo di cui sapevamo il nome si chiamava Schimon Heller, in russo Simon Geller. Egli aveva forse seguito il richiamo del suo nome ebraico, perché Shimon, Simone, significa colui che è in ascolto, colui che di Dio è stato in ascolto e che da Dio viene ascoltato. Il primo discepolo, che prestò ascolto a Gesù e lo seguì, si chiamava anche Simone, pensavo, benché quella storia fosse destituita di significato per i miei parenti ebrei. Nella prima metà dell’Ottocento il mio Schimon fondò a Vienna una scuola per bambini sordomuti. Insegnava a parlare ai bambini, perché venissero intesi, altrimenti i suoi correligionari li avrebbero ritenuti malati mentali, in quanto è nella lingua parlata, così si pensava ai quei tempi, che intelletto e ragione hanno dimora. Chi ha voce ha anche voce in capitolo. […]

Nel 1864 lo scrittore e illuminista Faiwel Goldschmidt scrisse per un giornale yiddish di Leopoli un articolo su Simon Geller e la sua scuola, con toni entusiastici per la personalità di Simon e il suo operato. […]

Sempre con il lapis, diceva mia madre, hanno imparato tutti con il lapis: in bocca al maestro la punta, in bocca al bambino l’estremità opposta. Questo non c’era nell’articolo di Goldschmidt, ma mia madre lo sapeva bene, raccontava del lapis, quel semplice trucco la divertiva, anche se la vicinanza delle bocche la lasciava un po’ sgomenta. Il lapis vibrava e i bambini percepivano come dalla lingua sorgesse il linguaggio.

«Per ogni infermità, anche la più grave, il Signore Iddio manda un rimedio», così Ozjel Krzevin traduceva l’articolo dedicato a suo nonno, come se questi fosse uno dei santi della vita ebraica. Nel giro di due anni i bambini sapevano scrivere in ebraico e in tedesco, e sapevano decifrare correntemente il labiale. E dopo cinque anni pare che l’eloquio degli allievi di Geller fosse così buono da risultare quasi indistinguibile da quello di coloro cui era stato fatto dono dell’udito. Essi muovevano le loro pesanti lingue, sollevavano suoni come macigni: anche Mosé, il loro profeta, era incirconciso di labbra e aveva una lingua pesante. […]

Un volo

Non perdevo d’occhio il maestro Schimon, mentre, di ritorno da un viaggio intrapreso per raccogliere denaro, attraversava rapidamente la cittadina dalle vecchie case sbilenche: in quelle viuzze fuori mano abita Dio, Polonia, Polyń, Polen, Polania, po-lan-ya, qui abita Dio, tre parole ebraiche che fecero della Polonia slava una terra promessa per gli ebrei, e loro abitavano tutti lì, questi uomini sospinti dal linguaggio; non lo perdevo d’occhio mentre, per quei vicoli stretti, correva dai suoi bambini e poi, all’angolo successivo, si staccava da terra e in volo attraversava il cielo stellato sopra la cittadina, perché mai non volare quando si hanno tanti affanni, volare innamorati, trasognati; tanti bambini, i propri e gli orfani, tanti come le stelle in cielo, tanti quanti i seicentotredici precetti, di più non se ne possono contare durante una passeggiata, ne ho fatto la prova, e tutti volano verso levante, in armonia con lo spazio e il tempo, talvolta mettendosi di traverso, seguendo la propria traiettoria e i severi libri sapienziali che mai leggeremo e mai capiremo; le vie della piccola città mandano un baluginio verde scuro, la mia passeggiata notturna, la mia caccia a Schimon, il maestro che nelle tasche del suo łapserdak nero, più nero della notte, tiene piccole biglie variopinte, di cui aveva fatto scorta a Vienna, e caramelle, racimolate a Leopoli, un po’ acidule, perché il linguaggio dev’essere sapido, e poi con sé ha sempre una matita, da un capo all’altro del cielo lo inseguono un kościół, una chiesa, una brocca, un candeliere, la Sposa del vento: in quel cielo che turbina di oggetti volanti, un’altra chiesa con i campanili dalla cuprea cuspide a forma di cipolla e la croce dorata un po’ sbilenca, e poi il violino e il fiore azzurro di un giovinetto con occhi grandi dalle lunghe ciglia, e tutti vorticano ancora un poco sopra la terra della loro amata Polania, della loro Polonia promessa, la casa di Dio, e di qui potrebbe cominciare la storia di una famiglia, di un clan, e forse persino questa storia. […]

Mogendovid

Durante il mio viaggio del 1989 in Polonia visitai anche Varsavia, la città in cui mia nonna Rosa era nata nel 1905, quando il paese apparteneva ancora alla Russia. […]

Così vagabondai per quella città dalla storia ricostruita ex novo e, non lontano dal monumento a Chopin, mi comprai un disco solo perché, nel vederlo, ne ero rimasta sorpresa. Sulla copertina campeggiava infatti un mogendovid, una stella di Davide. Non era passato molto tempo da quando avevo udito per la prima volta la parola mogendovid, a significare la stella a sei punte. Sul disco c’era scritto qualcosa come Żydowskie piosenki wshodniej Europy. Allora trascrissi in russo quelle parole polacche, e adesso le traduco in tedesco, Jüdische Lieder aus Osteuropa, Canti ebraici dall’Europa orientale. Il mogendovid si stirava e allungava sulla copertina, con la stessa naturalezza con cui il nostro paese si estendeva dall’Europa al Pacifico. Lo osservavo come fosse un animale sconosciuto, pronto a muoversi da un momento all’altro, saggiavo ciascuna delle sei punte, seguivo ogni rotazione, ogni angolo. Per tutta la vita avevamo dipinto stelle a cinque punte, quelle che brillavano sulla terra e quelle che brillavano in cielo, le stelle del nostro Cremlino, che eravamo soliti celebrare con un inno, e c’era poi anche quella canzone in cui una stella parla con un’altra stella, la intonavamo quando ci toccava fare la strada da soli – ma nessuna di esse aveva sei punte. Mai prima di allora mi era accaduto di incontrare nella mia patria tanto estesa un mogendovid, né come simbolo né come oggetto.
La stella a sei punte mi aveva stupita, non perché fossi sempre stata ansiosa di vedere un mogendovid, non sapevo nemmeno che si potesse desiderare una cosa simile, il desiderio era defraudato del suo contenuto, divelto con tutte le radici, così come il contenuto delle stanze in quelle case abbandonate. Ero confusa per la sorpresa provata alla vista del mogendovid accuratamente dipinto in blu scuro su fondo bianco, con una colomba colorata nel mezzo.
Di ritorno a Kiev misi il disco sul piatto del grammofono, e mia nonna, che aveva da sempre un leggero accento polacco – ricordo la parolina cacki, un termine di origine polacca per dire «gioielli», usato da Rosa per le mie carabattole, gli oggetti inutili, cacki, come un lecca lecca, un ledenets dalla ts aspra –, mia nonna che, a memoria di mia madre e mia, non aveva mai pronunciato una sola parola in yiddish, si mise d’un tratto a intonare canti baldanzosi in una tonalità minore e vagabonda, dapprima seguendo le parole del disco, andandovi dietro, poi all’unisono e senza incertezze, infine anticipandole di colpo con precipitosa letizia, e io la ascoltavo con la medesima incredulità con cui avevo saggiato il mogendovid sulla custodia del disco. Senza la Perestrojka, senza il mio viaggio in Polonia, senza quel disco, la finestra sigillata della sua lontana infanzia non si sarebbe mai più dischiusa per noi, e io non avrei mai capito che la mia babuška veniva da una Varsavia ormai inesistente, che di lì noi veniamo, mi piaccia o meno, da quel mondo perduto di cui mia nonna si ricordò all’ultimo, sul limitare, mentre già stava per lasciarci, per prendere da noi congedo. […]

Bacchetta da rabdomante

La nonna Rosa non ci avrebbe certo capiti, mio fratello e me. Alla soglia dei trent’anni lui cominciò a studiare l’ebraico e io il tedesco. Lui aderì all’ebraismo ortodosso – un fulmine a ciel sereno, pensammo tutti –, mentre io mi innamorai di un tedesco, due scelte egualmente assai lontane dalle aspettative di Rosa. L’ebraico di mio fratello e il mio tedesco ci cambiarono la vita, a nostro rischio e pericolo. Eravamo una famiglia sovietica, russa e non religiosa, la componente russa era l’orgogliosa eredità di chiunque conoscesse il significato della parola disperazione; di fronte al destino della patria, come dice il poeta, Tu sola mi sei d’aiuto e di sostegno, tu grande e possente, veritiera e libera lingua russa, e oggi avverto in queste parole l’eco di O du fröhliche, o du selige, Tu lieto e benedetto: a definirci non erano più i nostri parenti vivi o morti e i luoghi della loro origine, bensì le nostre lingue. Quando si mise a studiare l’ebraico, per dedicare all’ebraismo la propria vita, mio fratello si gettò a capofitto in questa lingua senza le paure del principiante tardivo, ma con l’ardore del neofita, inconsapevole di quello che stava facendo, e si riappropriò dell’intera tradizione insieme con il sapere dimenticato delle epoche passate. La mia scelta fu poco ponderata, e nondimeno logica. Insieme, mio fratello ed io riequilibrammo, mediante queste lingue, il rapporto con le nostre radici.

Il mio tedesco rimase nella tensione peculiare dell’irraggiungibile, e mi preservò dalla routine. Come fosse stato moneta spicciola, io compensavo in questa lingua acquisita tardivamente il mio passato, con il trasporto del giovane amante. Ne provavo un desiderio così intenso perché con il tedesco non potevo fondermi, ero spinta da un anelito inappagabile, da un amore che non conosceva oggetto né sesso, né destinatario, perché lì c’erano soltanto suoni, che non si potevano catturare, tanto indomiti erano e irraggiungibili.

Mi avventurai nel tedesco, quasi fosse la prosecuzione della lotta contro il mutismo, perché il tedesco, nemeckij, è in russo la lingua dei muti, i tedeschi sono per noi i muti, nemoj nemec: l’uomo tedesco, per l’appunto, non sa parlare. Questa lingua era per me la bacchetta del rabdomante alla ricerca di antenati che per secoli avevano insegnato a parlare ai bambini sordomuti, quasi dovessi imparare quel tedesco muto per potermi esprimere, e tale desiderio mi risultava incomprensibile.

Volevo scrivere in tedesco, a qualsiasi prezzo, scrivevo e affondavo sotto il peso del nutrimento linguistico che andava montando, quasi fossi al contempo giovenca e vitello non nato, e muggivo e bramivo, generavo ed ero generata, meritevole d’ogni sforzo; intraducibili, le mie stelle polari mi indicavano il cammino; scrivevo e mi smarrivo per i sentieri reconditi della grammatica; si scrive come si respira, ho sempre cercato di conciliare desolazione e consolazione, come se questa intesa potesse donarmi un sorso di brezza marina.

Spesso mi accanivo sul tedesco, accampando diritti da potenza occupante, e io lo volevo, quel potere, quasi a dar l’assalto alla fortezza e gettarmi a corpo morto contro gli spari dalla feritoia, à la guerre comme à la guerre, quasi il mio tedesco fosse la condizione per giungere alla pace; il tributo di sangue fu considerevole e le perdite insensate e senza pietà, come è consuetudine da noi, ma se addirittura io uso il tedesco, allora davvero nulla e nessuno è obliato, e persino le poesie sono permesse, e la pace sulla terra.

Il mio tedesco, verità e illusione, la lingua del nemico, era una via di fuga, una seconda vita, un amore che non passa perché mai lo si conquista, offerta e dote, come se avessi restituito a un uccellino la libertà. […]

 

 

I sordomuti scomparvero nell’arco dello Stato maggiore,
continuando a ritorcere il loro filato,
ma già con minore concitazione, quasi stessero inviando
in direzioni diverse dei piccioni viaggiatori.

Osip Mandel’štam

 

 

 

La gente camminava di buon passo, continuava a piovigginare, e nessuno sembrava sapere che alcune strade della città erano lastricate con le pietre tombali del vecchio cimitero ebraico. Già durante la guerra, quando ormai a Kalisz non c’erano più ebrei, dal cimitero vennero rimosse le matzevot, le pietre tombali. Le tagliarono a formare dei quadroni e le piazzarono sulla strada con il dorso verso l’alto, in modo da impedire la vista dei caratteri ebraici a chi vi camminava sopra. Un sistema di annientamento con tanto di controassicurazione. Che lo si sappia o meno, chiunque cammini per le strade di Kalisz, calpesta quelle lapidi.

 
da Forse Esther
Katja Petrowskaja

 

 
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* in copertina ricordi? (più “captatio” che mia traduzione della scritta sul muro 😊)
** pietra tombale
*** il titolo è tratto dalla seguente poesia

Come un corpicino piccolo, un’aluccia,
sull’orlo del sole si è rovesciato
e l’incendiario vetruccio ha preso fuoco nell’empireo.

Come un affarino zanzaroso allo zenit
uggiolava e ronzava,
in sordina, nenia d’aurei scarabei,
nell’azzurro scheggia in tormento:

non mi dimenticare, giustiziami,
ma dammi un nome, dammi un nome,
mi sarà più facile col nome – comprendimi,
nella profonda azzurrità incinta.

Osip Mandel’štam