Il Giglio infranto – Jean-Luc Godard

 

In principio era il cinema: il figlio perduto, lo sguardo dimidiato

 

 

Le Histoire(s) du cinéma devono pur avere un inizio. Il flusso luminescente opaco in cui consistono, virtualmente interminabile, sempre e in ogni suo punto disteso e debordante, dovrà pure cominciare da qualche parte. […]

 

 

«Non cambiare niente perché tutto sia diverso». «Hoc opus, hic labor est». Due frasi nel buio.
La prima pronunciata da una voce grave, l’altra scritta sullo schermo, spezzata in due.
Poi lo Stewart de La finestra sul cortile (Hitchcock, 1954), in primo piano e in ralenti, macchina fotografica tra le mani, occhi in movimento.
E Misha Auer in Rapporto confidenziale (Welles, 1955), con una lente per guardare le sue pulci, in due inquadrature scavate da un iris.
La seconda mostra solo gli occhi dell’ammaestratore, deformati e divisi. Un’altra frase impressa sullo schermo, «che ogni occhio tratti per suo conto», e un’altra pronunciata subito dopo: «Non mostrare tutti i lati delle cose. Conserva un margine d’indefinito».
Salgono dal fondo voci oscure e lontane, distorte dall’accelerato.
È un film che passa e ripassa in moviola. «Histoire(s) du cinéma» – si legge – e poi «Splendore e miseria».
Segue un’immagine da Il prato di Bežin (1935-37), l’incompiuto, perduto Ejzenštejn, quindi una foto di Ida Lupino, una macchina da presa alle spalle.
Più avanti, ecco la moviola, con la pellicola che scorre all’interno, mentre le voci accelerate continuano a risuonare.
Poi, ecco Godard, al tavolo da lavoro, la macchina da scrivere davanti a sé. «Che cos’altro c’è adesso?», «Mi fa il solletico»: sono le voci indistinte dell’accelerato, per un istante percepibili. Appartengono a Boudu salvato dalle acque (Renoir, 1932).
Si avverte una ritmata sequenza di tasti premuti sulla macchina da scrivere, ma Godard non scrive ancora. Si sentirà a lungo, qui e altrove.
Un blocco chapliniano in tre immagini – Tempi moderni (Chaplin, 1936), un’inquadratura degli anni Dieci in cui l’attore posa un fiore su un piano, un ritratto dell’autore –, poi Godard, concentrato, dice: «La regola del gioco» (Renoir, 1939).
Più avanti, in ralenti, Ida Lupino in Quando la città dorme (Lang, 1955) guarda in un visore per diapositive.
Le voci del film in moviola, ora massimamente rallentate, si fanno sinistre e quasi spaventose, e abitano un nero profondo.
La pellicola scorre lenta. «Sussurri e grida» (Bergman, 1973), continua Godard.
Di nuovo Lupino con la macchina da presa alle spalle, poi Moira Shearer, a intermittenza, che è invece alla guida di una cinecamera.
Ancora il nero, ancora i suoni distorti, ancora la pellicola in lento scorrimento.
Un’immagine di Nicholas Ray da Nick’s Movie (Wenders, 1980), rallentata come le voci che gli stanno attorno e che ora sembrano, sempre più spaventose, farci udire il movimento del suo respiro.
Ray tiene un dito sulla bocca e gli occhi chiusi. Li apre, poi li richiude. Un iris lampeggiante mostra un bacio tra Belmondo e Karina in Pierrot le fou (Godard, 1965).
Godard ricomincia: «Giglio infranto» (Griffith, 1919) e infatti ecco un ritratto griffithiano, quindi un’altra fotografia: è ancora Ray, un occhio bendato. «Padre – si legge sullo schermo – non vedi che brucio?».
E lo schermo è ora Rossellini che stringe a sé il volto di un bambino.
In dissolvenza, ancora una foto, John Ford, anche lui con una benda su un occhio.
Poco più avanti, Godard, lampada e sigaro, dispone nuovi fogli nella macchina da scrivere.
L’asta di un microfono gli gira attorno.
Seguiranno un’inquadratura con un uomo che in ralenti spara con un mitra da Jack Diamond Gangster (Boetticher, 1960), una foto di scena da Il sepolcro indiano (Lang, 1959), un’immagine di Pudovkin che corre sul tetto di una casa. «Tutte le storie che ci sono state», dice tra l’altro Godard e solleva gli occhi. Tre inquadrature rapidissime mostrano gli occhi spalancati azzurri di una giovane donna (Fury, De Palma, 1978).

 

 

Un solo passo nelle Histoire(s) du cinéma, l’idea di un passo mosso accanto al loro movimento inaugurale, e si è travolti dal montare della sconfinata corrente visuale e uditiva che le informa, dalla «potenza del caos fraseggiato», dice Rancière, in cui si fanno avanti immagini di ogni tipo (anche il buio) e suoni di ogni tipo (anche il silenzio), in cui immagini con immagini, suoni con suoni, immagini con suoni, si annodano, si sovrappongono, urtano tra loro, formando dappertutto (ovunque ci sia da vedere e da ascoltare) strati, riverberi, concrezioni di senso.
Gangli iconici e sonori attraverso i quali, nella simultaneità (sovrimpressioni, incrostamenti, prolungate dissolvenze e tutto quanto l’uso del video consente) e nella successione (il procedere laborioso del montaggio propriamente detto), in orizzontale e in verticale, passano multipli e difformi movimenti di pensiero. Occorre allora disporsi fin dall’inizio […] a vedere e ad ascoltare il multiplanare dispiegarsi di quegli stessi movimenti.
È immane il proposito che sostiene le Histoire(s): raccontare la storia del cinema e con essa la storia del XX secolo. Di fronte alla prova più difficile, al compito più arduo e ambizioso, servono rigore, testardaggine muta e un’assoluta concentrazione.
Si tratta di discendere nel mondo dei morti e di tornare da quel mondo perduto. Di dire che esso c’è stato e di dargli parola. Non è questo, innanzitutto, il compito dello storico?

 

 

Chiuso nella sua solitudine integrale, solo al suo tavolo con i pochi strumenti di cui ha bisogno, Godard comincia a cercare le ombre di cui il cinema è fatto, per riportarle alla luce. Guardare una immagine cine-fotografica, è chiaro, è già sempre guardare, con Barthes, «il ritorno del morto». Ma dal fondo di una storia che al momento di iniziare le Histoire(s) sta per compiere ormai cento anni, è anche, per Godard, andare in cerca dei padri, dei fratelli, dei compagni scomparsi, che uno degli ultimi figli della Cinémathèque, contro l’oblio che scandisce il suo tempo, non può non cominciare a evocare. In un dialogo che, in questo periodo, di film in film, sarà lungo e intenso. «Ho dei doveri verso i morti», ha detto una volta Godard.
Il lavoro dello storico che si immerge nel passato e quello dell’artista solitario, che si oppone alla tempesta del presente, si sovrappongono: «Bisogna proteggere i morti dai vivi», si dice in Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma (Godard, 1986).
Di più: in questo periodo, in una prospettiva che rilegge e oltrepassa la lezione baziniana […] Godard sostiene spesso che l’immagine filmica è ciò che propriamente consente una resurrezione del reale.

 

 

Il cinema, che per la sua natura meccanica riproduce qualcosa del mondo imbalsamandolo nella sua durata, non fa che rubare la vita a ciò che trascrive. È per questo che, dice suggestivamente l’autore, il cinema è stato inventato in bianco e nero: il colore c’era già ma, continua Godard, occorreva portare il lutto per aver rubato la vita alle cose (in 2B, Fatale beauté, 24’53), onorare il debito profondo che il cinema contrae con il reale di cui bazinianamente (e quasi vampirescamente) si nutre. È allora con il montaggio che il cinema riporterà in vita ciò che aveva filmato. È alla moviola che la vita, rubata da un atto di trascrizione automatica, presa da una macchineria misteriosa, torna a farsi presente, cioè torna a farsi visibile.
«Non sono cristiano ma quando leggo in San Paolo che l’immagine verrà al tempo della resurrezione, beh, dopo trent’anni di montaggio, comincio a capire. Per me il montaggio è la resurrezione della vita». La frase paolina, che Godard ripete in molti film di questi anni, non è che la configurazione più esemplare di questa idea del montaggio e del cinema tout court.

 

 

Il montaggio, dice il regista, è ciò che solo consente di «vedere», che solo permette di «vedere la vita». Di rivedere vivo ciò che è morto, che è già sempre morto per il fatto di trovarsi in un’immagine cine-fotografica, che «è morto e sta per morire». È il tempo passato, l’«è stato» di Barthes che la macchina attesta e che, per Godard, un atto formativo è chiamato a mostrare. […]
Per l’autore delle Histoire(s) la storia del cinema è già sempre una storia della morte (una discesa agli inferi) e già sempre una storia della resurrezione (una risalita in superficie).
È una storia del buio e una storia della luce. La storia di qualcosa che è morto e di qualcosa che risorge.

 

 

Ecco, allora, le immagini e le voci dei morti. Circondano il pensiero e l’azione dello storico che mette mano al suo lavoro. Riemergono dal fondo oscuro del tempo passato («Solo il passato si filma»), si sovrappongono, lampeggiano, mugghiano paurosamente nel buio. Schegge, filamenti, resti di immagini e di suoni. Lo storico con la moviola ne va in cerca per ridar loro la vita, per tornare a vederli vivi e lasciarli parlare.
La moviola al lavoro, immagine ricorsiva nelle Histoire(s), è l’atto fondativo di quel cercare: rinchiuso nel suo lavoro solitario, Godard chiama a sé le immagini e i suoni, li trova, li ridesta, quasi li tocca nello scorrimento inesausto, in avanti, all’indietro («Mi fa il solletico»), della pellicola.
Comincia a raccontare con loro una storia mai raccontata. Meglio, mai raccontata in questo modo. Se la Storia è dire il passato nello sforzo di conservare, con Péguy, «un’oscura fedeltà per le cose cadute», qui il passato, dice Godard, non è detto, ma mostrato e ascoltato. Questo passato si può dire (questa storia si può fare) perché esso si ricompone, ritorna vivo, nel dispiegarsi di una proiezione.
Non si dovrà, non si potrà mostrare tutto: occorrerà scomporre, disarticolare, trascegliere, mantenere «un margine di indefinito» entro il quale comporre un disegno non-cronologico, caleidoscopico, che pure sappia restituire in modo attendibile ciò che è stato, scrivendo e riscrivendo, montando e rimontando, ma senza modificare nulla («non cambiare niente») e anzi sforzandosi di costruire un documento/monumento, un monumento costruito con tutti i documenti che ci sono, con tutte le storie che ci sono state, che possa aspirare a dire finalmente la vera, autentica storia di quel mistero del secolo chiamato cinema, che ora può essere mostrata e ascoltata come mai è accaduto, scritta in modo differente da come è sempre stato («perché tutto sia diverso»).
Perché l’oggetto di questa storia è un oggetto misterioso, anzi, è un mistero tout court. Il cinema, dice Godard, non è «né un’arte, né una tecnica, è un mistero». Mistero ontologico per il quale – potere del dispositivo – qualcosa del mondo è testimoniato dallo sguardo nell’attimo stesso in cui questo lo mette in forma. E mistero storico che riguarda il destino di un sistema di visione – un modo inedito di vedere e di pensare il mondo – il cui potenziale conoscitivo, per Godard, è andato quasi immediatamente disperso.
È per questo che la sua storia è soprattutto la storia di qualcosa di perduto. Strumento nato per vedere il reale come mai era stato possibile, esso ha avuto subito commercio col potere che ne ha sempre impedito l’evoluzione e addomesticato o corrotto le capacità di conoscenza.
Presto accerchiato, manipolato, sfruttato dal potere e dal mercato, il cinema non ha potuto assolvere al suo compito più individuante: configurarsi pienamente come uno strumento capace di vedere e di pensare il proprio tempo.

Subito trasformato in grande attrazione spettacolare, il cinema, dice Godard, non ha sviluppato le proprie potenzialità. I grandi magnati e le majors, l’avvento del sonoro e con esso quello delle grandi cerimonie di Stato, il mercato mediatico della modernità: il cinema, per Godard, non è finito adesso, «è sempre stato finito». Ha iniziato a finire, ad esempio, quando Thalberg è salito alla guida della MGM. A lui e a Hughes, capo della RKO, Godard dedica un ampio segmento di 1a, all’inizio del movimento consacrato a Hollywood: le Histoire(s) cominciano a raccontare la storia del cinema e a dire che il cinema ha subito cominciato a morire. […]

E Godard comincia a raccontare: come a dire andiamo dunque a vedere come è fatta la storia di questo figlio perduto. Di quest’arte che è «l’infanzia dell’arte». Di questo Giglio infranto. Perché di questa storia che ora va a incominciare Godard ci ha già chiamato a rintracciare il senso: le ragioni incontrastabili del capitale (ecco i Tempi moderni chapliniani, ecco il fiore lasciato cadere, ecco qual è La regola del gioco che ha subito orientato la partita) hanno presto schiacciato il cinema.

 

 

La sua storia è una storia della morte, di qualcosa che è sempre stato ucciso, dei morti che ne abitano le immagini e che ora risorgono sotto i nostri occhi. Ne udiamo già i sussurri e le grida terrificanti. È la storia di un figlio del XIX secolo che il XX ha lasciato bruciare – come il neonato gettato nelle fiamme in The Heart of Humanity (Holubar, 1918), nel sottofinale di 1a – e che ha visto definitivamente cadere – come l’Edmund di Germania anno zero (Rossellini, 1947), in quella stessa sequenza – di fronte al suo più indicibile orrore: i campi nazisti che, dice Godard, il cinema non ha filmato e non ha mostrato. Ciò che c’è stato dopo i campi, il Neorealismo, la Nouvelle Vague, quanto si è creduto fosse un nuovo grande inizio, non era che un ultimo sussulto di ciò che si era spento definitivamente ad Auschwitz.

 

 

Godard non ha accostato che poche inquadrature e tuttavia ha già iniziato a dire molto di ciò che intende con la sua storia del cinema. Che per lui è la storia di uno sguardo divaricato, alternato, meglio, di uno sguardo dimidiato. Uno sguardo che ha visto ciò che ha voluto e non ha visto ciò che doveva.
Straordinaria invenzione per vedere il mondo, il cinema per Godard ha fatto molto e non ha fatto niente: ha aperto gli occhi sul reale per accordarlo ai propri desideri (ne aveva il diritto) e insieme ha chiuso gli occhi sul reale, è stato incapace di vedere (ne aveva il dovere) quando il reale reclamava di essere visto e mostrato.

 

 

Il cinema, dice Godard, ha avuto occhi per una sola cosa, o, ed è lo stesso, ha guardato il suo tempo con un occhio solo. Le Histoire(s) torneranno più volte su questo punto. Di più: ci torneranno fino in fondo, fino alle loro ultime inquadrature, nei passaggi conclusi, che chiude l’intera serie: lì ancora un’immagine di Auer, ancora un iris, ancora la grande lente e un solo occhio nello schermo, ingigantito. Subito dopo, in un dettaglio sgranato, ravvicinatissimo, il celebre taglio dell’occhio dell’Un chien andalou buñueliano (1929). Poi, con la frase di Coleridge/Borges sull’uomo che si risveglia con un fiore dopo aver sognato di averlo ricevuto in Paradiso come prova del suo transito celeste, Godard chiude la sua grande storia, e con essa, idealmente, quella di chi per tutta la vita («Quell’uomo ero io») ha ricevuto in dono un fiore caduto, il giglio infranto che il cinema è stato: qui la rosa bianca, come quella chapliniana, di Allemagne année 90 neuf zéro (Godard, 1991), lampeggiante sul volto di Godard.

 

 

Luca Venzi
da Sulle Historie(s) di Jean-Luc Godard

 

per chi fosse interessato a vedere il film:

 

https://dai.ly/x206cg7

https://dai.ly/x20dw4x