Dialoghi in cielo – Can Xue, e Lam Tung Pang

 

Guarda quella sogliola tra le onde di stelle, il sole e la luna sorgono all’unisono, l’affascinante madre Terra si gira sui fianchi…

 

 

Dialogo in cielo II
 

Ieri notte ho sentito di nuovo il profumo della tuberosa. È già la quinta volta che lo sento da quando me ne hai parlato. Quando me lo hai detto la prima volta, ho drizzato le piccole orecchie e ho udito uno scampanio. Era un ginkgo che oscillava nelle profonde acque del lago: la sua chioma era piena di campanellini e, quando brillavano, mandavano un suono magnifico. Ho mosso l’alluce sinistro, poi ho sentito il vento fuori dalla porta che trascinava via la pattumiera di qualche vicino. Sempre quel dannato vento del sud.
Prima del suo attacco sentivo dentro di me un’ansia terribile. Mi sono toccata le gambe e le ho trovate vive e lisce come serpenti. Mi sono drizzata a sedere, ho allargato le dita sottili della mano e ho afferrato l’aria. Tra le dita mi scorrevano gas vivi. L’odore di questa specie di tuberosa è diverso dagli altri, a concentrarsi ci si accorgerebbe che non esiste affatto.
Sbarrando gli occhi ho scrutato nell’oscurità e alla fine ho visto una fila di ombre sottili e immaginarie che sgusciavano via lungo la base del muro. Le mie gambe erano ormai diventate molli e ghiacciate e fluttuavano in aria come fossero alghe.
Quella volta stavo con te in riva al lago dall’acqua luccicante. Improvvisamente gli occhi mi si sono gonfiati e sono diventati rossi. Non vedevo più nulla, ho sbandato e stavo per cadere nel lago, ma tu mi hai ripreso per i fianchi.
«La tuberosa», hai detto. «Tu-be-ro-sa!».
Il terrore ti ha contratto il viso, a capo chino hai guardato le palme rosso sangue delle tue mani. È stato allora che mi hai rivelato il segreto della tuberosa, che mi hai detto di attenderlo ogni notte a mezzanotte e che talvolta non sarebbe venuto perché non esiste. Poi con voce suadente, simile a verdi scintille oscillanti, hai detto:
«Puoi solo attendere».

 

 

Ieri fantasticavo di andare ad aspettare sulla collina deserta dietro alla casa. Il sole era immenso. Sudavo senza posa e in poco tempo i miei capelli si sono bagnati e si sono fatti duri. Scoperto quello che stavo facendo, alcuni hanno riso di me, gesticolando eccitati da lontano. Mi hanno perfino tirato frecce di bambù nella schiena, facendo migliaia di buchi nel soprabito bianco.
Ho atteso per tutto il giorno invano. Stanca e scoraggiata sono tornata a casa trascinando le mie gambe gonfie. A mezzanotte mi sono rigirata nel letto e ho gettato via l’imbottita. Subito mi sono resa conto di essere immersa in una tremula corrente viva. La vibrazione era così strana che le giunture del mio corpo si sono aperte e i miei arti hanno preso a fluttuare seguendo quel flusso.
«Un pesce», ho detto imbarazzata, socchiudendo gli occhi come se fossi ubriaca.
Con un lieve rumore il profumo si è diffuso nell’aria dall’angolo della stanza. Fin dalla prima volta che l’ho sentito, mi è sembrato un profumo molto familiare. È rimasto nella memoria di quella mattina nebbiosa di tanto tempo fa. In seguito, l’ho sentito altre quattro volte e ciascuna era più intenso e più vero, finché una volta è diventato soffocante e sono svenuta.
Quando ho ripreso i sensi sulla mia testa ondeggiava un anello rosso fuoco. Gli angoli della bocca mi si erano contratti più volte, gli occhi erano pieni di pioggia. Tu eri seduto su uno sgabello di pietra fuori dalla porta. Avevo riconosciuto subito la tua sagoma nera. Allargando le braccia avevi sbadigliato e a voce bassa, come parlando a te stesso, avevi detto:
«Le piccole anime hanno gridato tutta la notte».
Camminavi su e giù fuori dalla porta e sospiravi profondamente. E io, illuminata da quell’anello di luce, avevo il viso rosso e i capelli neri che brillavano.

 

 

Se quella volta fossi caduta nel lago, avrei certamente trovato l’albero e, trasformata in pesce, avrei vagato nelle acque notturne. Ma ora, posso solo attendere. In quelle notti tranquille e insonni accosto l’orecchio al muro e ascolto. Odio il vento del sud. Appena arriva scompiglia ogni cosa e l’unico suono che resta nelle orecchie è il suo ululato.
Quando non c’è vento, i campanelli risuonano incantevoli. Perché mi hai trattenuto per i fianchi? Avrei voluto cadere nel lago, diventare un pesce, nuotare nell’acqua alla ricerca di quell’albero, per riposarmi nella sua folta chioma.
All’alba sarei emersa e avrei mosso le labbra verso di te che avresti percorso su e giù la riva del lago in preda all’ansia, poi mi sarei rituffata nuotando veloce verso il fondo, perché altrimenti la luce rossa dell’alba mi avrebbe accecato.
«Se chiudi gli occhi e conti fino a cinque può darsi che tu lo senta».
Dopo che mi hai insegnato questo sistema, l’ho sperimentato tutta la notte finché la mia testa si è messa a ronzare terribilmente. Alla fine, desolata, mi sono coperta la testa con l’imbottita.

 

 

Noi ci siamo conosciuti nell’oscurità. Tu eri un sonnambulo solitario e sedevi immobile su una pietra. Quella notte ero uscita in cerca di api e ti ho riconosciuto subito. Ero impaziente di dirti che nel mio petto c’era un buco immenso dove frusciavano sassolini bagnati.
Ti ho anche detto quanto temessi il freddo, fin da piccola, e intanto avevo messo le mie gelide dita nel caldo palmo della tua mano.
«L’arnia è sotto quella roccia, ho osservato le api notte dopo notte», hai detto. «Tu vieni dal mare, ho sentito i tuoi passi sulla sabbia. La sabbia è fine e il vento è gelido. I tuoi capelli sanno di acqua marina. Il mare è lontanissimo, hai camminato più di dieci anni prima di arrivare qui. Io sono sempre rimasto qui ad aspettarti».
Hai premuto le mie dita sul tuo viso e poi hai detto:
«Così andrà meglio. Anch’io da piccolo non sopportavo il freddo, ora mi sono abituato. Sono rimasto qui ad aspettare anche nelle notti di neve, perché non potevo sapere quando saresti venuta. Temevo che potessi passare oltre, lasciandomi qui da solo».
Quella notte, a furia di camminare su e giù, scavammo un solco nella strada lastricata di pietre.
Volevo chiederti come avevi fatto a sopravvivere in questo luogo così arido, pieno di serpentelli velenosi che riescono a insinuarsi in casa anche con le finestre chiuse. Da piccolo dovevi essere magro e gracile. Piangevi con la testa incassata tra le spalle quando il vento gelido faceva cadere sul tetto le foglie di platano? Come hai potuto restare ad attendere così a lungo in questo posto senza che la neve ti gelasse le gambe? Quando ero sulla riva del mare avevo visto un uomo camminare su e giù, era solo e frantumava sassi con le mani. Eri tu? Allora non ne scorgevo bene i lineamenti. Ricordo che c’era anche un gallo che cantava in modo squillante nelle mattine nebbiose. L’hai sentito anche tu? Però non ti ho chiesto nulla di tutto ciò, temevo che la mia voce avrebbe turbato il flusso dell’aria viva che ci avvolgeva, passando morbido e lieve attraverso i nostri gomiti.
La mattina del giorno successivo al nostro incontro, ci togliemmo le scarpe e saltellammo a piedi nudi lungo la strada lastricata di pietre. Divertiti, uccidemmo pestandoli innumerevoli serpentelli velenosi, e in ogni asola infilammo un caprifoglio. Non avevo più paura perché tu mi tenevi la mano. I tuoi passi erano saldi. Più tardi saresti diventato un uomo estremamente robusto. Il sole brillava già e noi saltavamo ancora, con i visi arrossati.
«Tu sei quello!», gridammo uno rivolto all’altra.

 

 

Una volta, mentre ero sulla riva del mare, credetti che non ti avrei mai trovato. Mi seppellii in lacrime nella sabbia aspettando che la vita in me si spegnesse. Distesa lì, mi sentivo esausta e triste, seguivo con gli occhi le ombre che mi passavano veloci sopra la testa, scoraggiata. Pure continuavo ad ascoltare, non potevo farne a meno, era diventato un fatto istintivo. La tua voce mi svegliò, emersi da sotto al cumulo di sabbia e corsi come il vento in direzione del tuo richiamo.
Volevo dirti una cosa importante. A mezzanotte, quando aspetto la tuberosa, c’è sempre un’ombra in piedi fuori dalla porta che se chiudo gli occhi si avvicina. Io tremo tutta e non oso dormire.
Una volta, non riuscendo più a trattenermi, mi sono addormentata e l’ombra, stendendo il suo lunghissimo braccio, mi ha afferrato per i capelli. Ero terrorizzata, ti ho chiamato urlando finché la gola mi si è gonfiata, le labbra sono diventate insensibili e la lingua secca. Non capisco come abbia fatto a entrare, ogni notte in preda al panico controllo porte e finestre prima di andare a dormire. Talvolta non entra, succede quando ci sei tu seduto fuori dalla porta. Mi basta vedere la tua sagoma nera, perché la pietra che ho sul cuore cada a terra e dorma tranquilla. Non potresti apparire tutte le notti su quel sedile di pietra? Sono così terrorizzata.

 

 

Forse un giorno finirò per diventare un pesce e tu non mi vedrai più. Ma all’alba, sulla riva del lago, vedrai giusto un pesciolino che salterà fuori dall’acqua e muoverà le labbra verso di te, per poi tornare a inabissarsi. Il tuo cuore allora si spezzerà e la tua testa girerà come un mulino a vento. Non me la sento di trasformarmi in pesce, voglio restare con te a cercare la tuberosa di notte. Tu fuori dalla porta, e io nella stanza.

 

 

 

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[…] All’improvviso mi sono ritrovata alla soglia dei trent’anni. Dieci anni di giovinezza erano scivolati via nella lotta politica. Su quei dieci anni e sul futuro ho pensato di poter dire delle cose, cose di cui la gente normale non era stata cosciente, che non erano mai state dette. Volevo dirle attraverso la letteratura, la fantasia. Qualcosa di astratto, di puramente emotivo, ha cominciato lentamente a prendere forma dentro di me. Ho iniziato a scrivere, ogni giorno un po’, senza sapere bene perché dovessi scrivere in un modo piuttosto che in un altro. Quel che contava era che mi attenessi al mio paradiso interiore, che riflettessi senza posa e che fossi contenta di me. Così sono nati La vecchia nuvola fluttuante e gli altri lavori, pubblicati o meno. E dietro tutti, a sostegno del mio sentire, c’era la splendida estate del sud, il suo sole caldo, una concezione artistica ardente e luminosa. Spesso da piccola camminavo a lungo scalza e a capo scoperto sotto il sole cocente, piena di gioia e immersa in un fantasticare senza limiti. […]

 

A Day of Two Suns

 

Mi sento di affermare che i miei scritti brillano di una luce che attraversa ogni parola e ogni riga. Ci tengo a sottolineare che la mia produzione letteraria è stata stimolata dallo splendido sole ardente del sud. Proprio perché nel cuore ho la luce, l’oscurità diventa vera oscurità. È perché esiste il paradiso che possiamo avere una profonda esperienza dell’inferno, ed è perché l’uomo è pieno di amore universale che può distaccarsi e sublimare nella sfera dell’arte. Solo i mediocri e i superficiali non vedono questo aspetto.

 

 

«La poesia ti accompagna sempre
portandoti a fare miracoli».

 

Shining Stars I
Shining Stars

 

 

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molto bella, sulla rivista letteraria Il Rifugio dell’Ircocervo, la recensione di Emma Cori del libro I Dialoghi in Cielo di Can Xue.