Il Suicidio: John Barth e James Hillman

 

SEITON: La regina, mio signore, è morta.
MACBETH: Avrebbe dovuto morire poi; sarebbe venuto il momento per quella tal parola. Domani, e domani, e domani, s’insinua a piccoli passi di giorno in giorno fino all’ultima sillaba del tempo concesso; e tutti i nostri ieri hanno illuminato agli sciocchi la via che conduce alla polverosa morte. Spegniti, spegniti, corta candela!
La vita non è che un ombra che cammina, un attorucolo che si pavoneggia e s’agita per la sua ora sul palcoscenico, e poi non se ne ode più nulla. E’ una storiella raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore che non significa nulla.

 

7 Days of Death – Bruno Jacob

 

Accordando il mio pianoforte
 

[…] Ebbene, dove eravamo?… Santo cielo! Come si fa a scrivere un romanzo? Voglio dire, come è possibile non perdere il filo del racconto, se si è anche solo minimamente sensibili al significato delle cose? Quanto a me, vedo già che la narrazione non è il mio forte: ogni nuovo periodo che scrivo è pieno di divagazioni e complicazioni che tanto volentieri inseguirei fin dentro le loro tane insieme con voi, però un tale inseguimento implicherebbe nuove divagazioni e nuovi inseguimenti, in modo che di certo non riusciremmo mai a dare inizio al racconto, né tantomeno a terminarlo, se sguinzagliassi le mie inclinazioni. Non che ciò mi dispiacerebbe, di solito – per me un libro vale un altro – ma davvero ci tengo a spiegare quella giornata (o il 21 o il 22) del giugno 1937 in cui ho cambiato idea l’ultima volta. Dobbiamo dunque restare nel bel mezzo del canale, voi e io, sebbene la barca sulla quale navighiamo sia destinata alle secche, e rinunciare alle insenature e alle cale, per quanto possano essere graziose. (Questa metafora, a proposito, non è ingiustificata, ma lasciamo andare.) […]

Dunque. Todd Andrews, mi chiamo. […] Adesso, tenete gli occhi aperti e vedrete come so muovermi veloce quando faccio sul serio. Ho cinquantaquattro anni e sono alto un metro e ottanta, però peso soltanto sessantasei chili. Il mio aspetto è quello che penso avrà Gregory Peck, l’attore, quando arriverà a cinquantaquattro anni, soltanto tengo i capelli abbastanza corti da non dovermeli pettinare, e non mi rado tutti i giorni. (Il confronto col signor Peck non è inteso come elogio di me stesso, soltanto come descrizione. Se fossi Iddio, creando la faccia sia di Todd Andrews, sia di Gregory Peck, farei solo qualche piccolo cambiamento qua e là.) Vivo discretamente bene, secondo secondo i criteri comuni: sono socio dello studio legale Andrews, Bishop & Andrews (il secondo Andrews sono io) e la clientela mi fa guadagnare quanto desidero, sino a forse diecimila dollari l’anno, o forse meglio nove, ma non mi sono mai dato molta fatica per appurarlo. Vivo e lavoro a Cambridge […]
Ho quasi dimenticato di accennare alle mie malattie. La verità è che non godo di buona salute. Questo mi è tornato in mente ora, perché mentre meditavo sul nome Opera Galleggiante, seduto qui al mio tavolino nell’hotel Dorset, circondato dai grossi archivi della mia Indagine, ho cominciato a tamburellare con le dita sul tavolo, seguendo il ritmo di un’insegna luminosa intermittente al neon fuori della finestra. […]
Avevo una volta (probabilmente l’ho ancora) una specie di endocardite settica subacuta (in parole povere: mal di cuore) con una complicazione speciale. L’ho avuta sin da giovane. Mi ha fatto gonfiare le dita, e ogni tanto mi indebolisco, ma non troppo spesso. Però la complicazione è una tendenza all’infarto del miocardio. Che vuol dire? Vuol dire che un giorno qualsiasi posso cadere morto sull’istante, senza alcun preavviso, forse prima di terminare questa frase, forse a venti anni da oggi. Lo so fin dal 1919, cioè da trentacinque anni. Il mio altro guaio è un’infezione cronica della ghiandola prostatica. Mi ha causato problemi piuttosto gravi quando ero più giovane – diverse specie di problemi, come senza dubbio spiegherò più avanti – ma da molti anni ormai prendo semplicemente una pillola di ormoni (un milligrammo di dietilstilbestrolo, un estrogeno) tutti i giorni, e salvo una notte insonne ogni tanto, l’infezione non m’inquieta più. […]
Senza dubbio, quando avrò preso il ritmo della narrazione, dopo un capitolo o due, avanzerò più rapidamente e senza tante digressioni. […]
Sono uno che va a fondo nelle cose. Il mio primo compito, una volta che ebbi giurato di mettere per iscritto quella giornata di giugno, fu di raccogliere il più completamente possibile tutti i miei pensieri e le mie azioni di quel giorno, per essere sicuro di non avere omesso nulla. Quel piccolo compito mi ha occupato nove anni (non volevo andare di corsa) e gli appunti hanno riempito sette cassette da frutta là vicino alla finestra. Poi ho dovuto ogni tanto fare un po’ di letture; qualche romanzo, per prendere dimestichezza con questa faccenda di narrare le cose, e alcuni libri sulla medicina, sulle costruzioni navali, la filosofia, i canti popolari, la biologia marina, la giurisprudenza, la farmacologia, la storia del Maryland, la chimica dei gas, e una o due altre cose, per acquistare certe «conoscenze di fondo» e per essere sicuro di aver capito almeno approssimativamente che cosa era accaduto. Per questo mi ci sono voluti tre anni, anni piuttosto spiacevoli, perché ho dovuto abbandonare il mio solito metodo di scegliere i libri per dedicarmi a quella lettura relativamente specializzata descritta sopra. Gli ultimi due anni li ho passati restringendo i miei ricordi di quel giorno da sette cassette da frutta a una, commentandoli e interpretandoli sino a ritrovarmi di nuovo sette cassette da frutta piene, e infine riducendo il commento da sette cassette da frutta a due, dalle quali intendevo tirare fuori commenti piuttosto a caso ogni mezz’ora circa durante la lavorazione del libro.
Ahimè. Ogni cosa, temo, è significativa, e nulla è definitivamente importante. Sono discretamente sicuro oramai che i miei sedici anni di preparazione non saranno così utili, o almeno non nello stesso modo, come avevo pensato: capisco gli avvenimenti di quel giorno abbastanza bene, ma in quanto al commento ritengo che mi conviene non commentare per nulla, bensì semplicemente limitarmi ai fatti. In questo modo sono certo che farò comunque ampie digressioni (infatti la tentazione è sempre grande, e si fa irresistibile quando so che il fine è irrilevante) però ho almeno qualche speranza di arrivare sino alla fine, e quando sarò abbandonato dalla grazia, potrò almeno felicitarmi delle mie intenzioni.
Perché L’Opera Galleggiante? Potrei spiegarlo sino al Giorno del Giudizio, senza riuscire a spiegarlo completamente. Ritengo che per comprendere interamente una sola cosa, non importa quanto sia minuscola, occorra la comprensione di ogni altra cosa al mondo. Ecco perché a volte mi do per vinto di fronte alle cose più semplici; ecco perché non mi dispiace di passare una vita intera nel prepararmi a iniziare la mia Indagine. Dunque, L’Opera Galleggiante. Fa parte del nome d’uno showboat che un tempo viaggiava per le paludi costiere della Virginia e del Maryland: l’Unica e Inimitabile Opera Galleggiante di Adam; Jacob R. Adam, proprietario e comandante; ingresso, 20, 35 e 50 centesimi. L’Opera Galleggiante era ormeggiata al Molo Lungo il giorno in cui ho cambiato idea, nel 1937, e una parte di questo libro si svolge a bordo di essa. Ecco una ragione sufficiente per prenderla come titolo. Però c’è anche una ragione migliore. Mi è sempre parsa una magnifica idea costruire uno showboat con una sola grande coperta piatta, su cui rappresentare una commedia ininterrottamente. Il battello non sarebbe ormeggiato, ma andrebbe su e giù per il fiume con la marea, e il pubblico sarebbe seduto sulle due sponde. Potrebbe afferrare quella parte della trama che il caso vuole si svolga mentre il bastimento passa, e poi dovrebbe aspettare il riflusso della marea per vederne un’altra parte, se per caso fosse ancora seduto in quel posto. Per colmare le lacune, gli spettatori dovrebbero servirsi della propria immaginazione, o domandare ai vicini più assidui, o sentir passare la parola da monte o da valle. Per lo più non capirebbero affatto quel che vi si svolge, o crederebbero di capirlo, mentre in verità non ne saprebbero niente. Moltissime volte potrebbero vedere gli attori, ma non sentirli. Non c’è bisogno di spiegare che molte volte la vita è così: i nostri amici ci passano davanti come sulla corrente di un fiume, e noi restiamo coinvolti nella loro vita; poi passano oltre, e noi dobbiamo fidarci di qualche chiacchiera per sentito dire o perderli completamente di vista; tornano indietro sempre sulla corrente, e ci tocca o rinnovare l’amicizia, aggiornandoci su quello che è successo nel frattempo, o scoprire che non ci comprendiamo più. E questo libro farà il medesimo effetto, ne sono sicuro. È un’opera galleggiante, amici, piena zeppa di curiosità, di melodramma, di spettacolo, di istruzione e di divertimento, ma scorre via volente o nolente secondo la marea della mia prosa vagante: l’avvisterete, poi la perderete di vista, poi la rivedrete; e senza dubbio vi ci vorranno grandissimi sforzi di attenzione e di fantasia – insieme a non poca pazienza, se siete lettori comuni – per non perdere di vista la trama mentre vi naviga sotto gli occhi e poi vi sfugge alla vista.
 

Il circolo esploratori di Dorchester
 

Penso che mi sarò svegliato alle sei, quella mattina del 1937 (voglio chiamarla il 21 giugno). Avevo passato una brutta nottata, era quello l’ultimo anno dei miei disturbi alla prostata. Mi ero alzato più d’una volta per fumare un poco, per passeggiare su e giù per la camera, per mettere per iscritto degli appunti della mia Indagine, o per guardare dalla finestra verso l’ufficio postale, di fronte all’albergo dall’altro lato di High Street. Poi ero riuscito a prendere un po’ di sonno subito prima dell’alba, però la luce, o chi sa che cosa, mi svegliò alle sei in punto, come fa ogni mattino. Avevo precisamente trentasette anni allora e, secondo la mia abitudine, salutai il nuovo giorno con un sorso di Sherbrook dal litro che si trovava sul davanzale della finestra. Vi tengo un litro anche in questo momento, ma non è lo stesso litro: ce ne corre. L’abitudine di salutare il giorno alzando il gomito era un residuo dei tempi delle associazioni universitarie: avevo imparato a prenderci un vero gusto, ma qualche anno fa ci ho rinunciato. Ho perso l’abitudine deliberatamente, in verità, soltanto per il piacere di interrompere un’abitudine. Aprii gli occhi, dunque, stappai la bottiglia e feci un lungo sorso, mi scossi bene dalla testa alla punta dei piedi e mi guardai attorno nella camera. Era una mattina di sole [-]
Quella mattina, dunque, mi svegliai, trangugiai il mio whisky, mi guardai intorno, mi alzai tranquillamente dal letto e mi vestii per andare all’ufficio. Mi ricordo persino dei vestiti che indossai, sebbene quella maledetta data, il 21 o il 22, mi sfugge, dopo sedici anni di ricordi: indossai un abito di crespo di lino grigio e bianco, una camicia sportiva di lino beige, una cravatta qualsiasi, calze beige e la mia paglietta. Son certo di essermi spruzzato la faccia con l’acqua fredda, di essermi sciacquato la bocca, di essermi ripulito gli occhiali da lettura con la carta igienica, di essermi strofinato il mento per convincermi di non avere bisogno di radermi, e di essermi lisciato i capelli con le mani invece di pettinarli, perché ho fatto queste cose, in quest’ordine, quasi ogni mattina sin da forse il 1930, quando mi sono trasferito nell’albergo. Fu in un momento di questo rito – l’istante in cui l’acqua fredda mi colpì la faccia sembra quello più probabile – che tutte le cose nel cielo e sulla terra improvvisamente mi si fecero lampanti, e mi resi conto che di quel giorno avrei fatto il mio ultimo; che quel giorno mi sarei annientato.
Stetti dritto e sorrisi alla mia faccia sgocciolante nello specchio.
«Ma certo!»
Euforia! Mi scappò una risatina soffocata.
«Perbacco!»
Giorno fatale! Che ispirazione, aver chiuso gli occhi sul vecchio problema; averli riaperti sulla nuova e ultima e unica soluzione!
Il suicidio! […]

 

 

Avrei voluto attraversare il corridoio a passo di danza. Il mio parere? Il mio parere? SUICIDIO! Oh, un passo leggero, lettori! Lasciate ch’io ve lo dica: tutta la mia vita, o almeno una gran parte di essa, è stata diretta verso la soluzione d’un problema; o piuttosto verso il dominio d’un fatto. È questione di atteggiamenti, di posizioni, di maschere, se volete, ma la parola ha un elemento dispregiativo che non voglio accettare. Durante tutta la mia vita ho assunto quattro o cinque di tali posizioni, basate su determinate conclusioni: tendo infatti, temo, ad attribuire a idee astratte un’importanza di vita o di morte. Ogni posizione mi sembrava sul momento rappresentare la soluzione del mio dilemma, il dominio di quel dato di fatto; ma sempre accadeva qualcosa che dimostrava l’inadeguatezza della mia conclusione, o altrimenti la posizione perdeva impercettibilmente la sua forza di persuasione finché a un certo punto non funzionava più (un mutamento quantitativo, come ha detto Marx, improvvisamente diventa un mutamento qualitativo); e poi avevo di nuovo il compito di cambiare maschera: un processo lento e, per me, doloroso, anche se spesso involontario. Contentatevi di comprendere, se non vi dispiace, che nel corso di diversi anni precedenti il 1937 avevo assunto un atteggiamento che, ritenevo, rappresentava una soluzione reale e permanente al mio problema; che durante la prima metà del 1937 quell’atteggiamento aveva cominciato a perdere la sua efficacia; che durante la notte del 20 giugno, la notte prima del giorno del mio racconto, mi accorsi totalmente e forzatamente della sua insufficienza: ero tornato, di fatto, al punto dal quale ero partito nel 1919; e che, finalmente e miracolosamente, dopo non più d’un’ora di sonno prima dell’alba, mi svegliai, mi spruzzai dell’acqua fredda sulla faccia, e mi resi conto di avere trovato la risposta ideale, definitiva, irrefutabile; l’ultima parola possibile; la mossa che metteva fine a tutte le mosse. Se non fosse stato necessario camminare sulla punta dei piedi e sussurrare, avrei ballato un trepak e cantato un inno: Venite, voi tutti! Non vi ho detto che non avrei risparmiato i colpi? Che vi avrei messo a parte di tutte le mie risposte? Suicidio! Povero signor Haecker, dovrà aspettare per conoscere il mio parere (aspettare, misera anima, sino al Giorno del Giudizio, temo), ma voi no, lettori. Suicidio fu la mia risposta; la mia risposta fu suicidio. Non l’apprezzerete finché non avrò spiegato il problema; e lo spiegherò davvero, un poco alla volta, secondo i miei modi, i quali, ricordatevelo, non sono privi di metodo, ma semplicemente coerenti col mio metodo personale, forse poco ortodosso.
 

da L’Opera galleggiante
John Barth

 

Death – Hakuin Ekaku

 

(Yukio Mishima. Una vita in quattro capitoli di P. Schrader)

 

The Death – Alaa Awad

 

[…] La filosofia ci rammenta che noi ci costruiamo di giorno in giorno in vista della morte. Costruiamo dentro di noi la nostra «nave della morte». […]
Andando incontro alla morte consapevolmente, dice la filosofia, possiamo costruire la nave migliore. Idealmente, con gli anni, la costruzione diventa più incorruttibile, sicché il passaggio dalla carne sempre più debole alla morte può avvenire senza paura, felicemente e icon facilità. Questa morte che costruiamo dentro di noi è quella struttura permanente, quel corpo sottile («subtle body»), in cui l’anima trova alloggio in mezzo alla corruzione dell’impermanenza. Ma la morte non è una cosa facile; e il morire è una faccenda straziante, sporca, crudele e piena di dolore. Andare incontro alla morte consapevolmente, come propone la filosofia, deve dunque essere una grande conquista umana […]
Per alcuni, il suicidio può essere un gesto inconsciamente filosofico, un tentativo di comprendere la morte congiungendosi con lei. L’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte.
Senza l’angoscia della morte, senza le prevenzioni di posizioni precostituite, senza alcun pregiudizio patologico, ecco che il suicidio diventa «naturale». Naturale, perché è una possibilità della nostra natura, una scelta aperta a ciascuna psiche umana. La preoccupazione dell’analista non riguarda tanto la scelta suicida in sé, quanto il come aiutare l’altro a comprendere il significato di quella scelta, l’unica che pretende l’esperienza diretta della morte.
Uno dei significati principali di quella scelta è l’affermazione dell’importanza della morte per l’individualità. Con la crescita dell’individualità, cresce anche la possibilità del suicidio. La sociologia e la teologia, come abbiamo visto, riconoscono questo fatto. Dove l’uomo è padrone di se stesso, dove è responsabile in prima persona delle proprie azioni (come avviene nelle culture urbane, nel bambino non amato, nelle culture protestanti, nelle persone creative), la scelta della morte diventa un’alternativa più frequente. In questa scelta della morte si cela, naturalmente, il suo contrario. Finché non possiamo scegliere la morte, non possiamo scegliere la vita. Finché non possiamo dire di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì, ma siamo soltanto stati trascinati dalla sua corrente collettiva. Per l’individuo che si oppone a questa corrente la morte diventa la prima di tutte le alternative, perché colui che si oppone alla corrente della vita è il suo nemico e finisce per identificarsi con la morte. Di nuovo, l’esperienza della morte è necessaria per distaccarsi dal flusso collettivo della vita e scoprire l’individualità.
L’individualità richiede coraggio. E fin dall’epoca classica il coraggio è sempre citato, in tutti i dibattiti sul suicidio: occorre coraggio per scegliere il cimento della vita e occorre coraggio per entrare nell’ignoto per propria autonoma scelta. Alcuni scelgono la vita perché hanno paura della morte e altri scelgono la morte perché hanno paura della vita. Non possiamo valutare con equità la viltà e il coraggio dall’esterno. Ma possiamo comprendere come mai il suicidio sollevi il problema del coraggio; il suicidio, infatti, ci obbliga a trovare la nostra posizione individuale sulla questione di fondo: essere o non essere. Il coraggio di essere (come ci si compiace di dire oggi) non significa semplicemente scegliere la vita nel mondo. La vera scelta è scegliere se stessi, la propria verità individuale, compreso il più brutto degli uomini, come Nietzsche chiama il male che è dentro di noi. Continuare a vivere, sapendo che razza di mostri siamo, richiede davvero coraggio. E non pochi suicidi possono discendere dall’esperienza schiacciante della propria malvagità, un’intuizione che coglie più facilmente le persone dotate sul piano creativo, quelle psicologicamente sensibili e le persone schizoidi. Chi è, allora, il codardo e chi scaglia la prima pietra? Noi, tutti noi che simili a bestie sopravviviamo, ridotti nella nostra ottusità all’ombra di noi stessi. […]
 

da Il suicidio e l’anima
James Hillman

 

Solitudine – Luc Tuymans

 

Solo nella mia stanza, allora, mi sedetti sul davanzale della finestra e fumai un sigaro per qualche minuto, guardando la notte che rinfrescava, i semafori giù in strada, il buio cimitero della chiesa episcopale dietro l’angolo e la distesa nera del cielo, tanto più nero perché nuvole di tempesta oscuravano le stelle. Un lampo brillò sopra l’ufficio postale e dietro il campanile, e di tanto in tanto un tuono lontano anticipava l’avvicinarsi del temporale sopra la baia del Chesapeake. Tipico della poderosa natura, cambiare tanto drammaticamente il tempo quando io avevo così delicatamente cambiato opinione! Ricordai le note prese durante la serata, e tornandovi subito sopra aggiunsi una parentesi alla quinta proposizione:
V. Non c’è alcuna ragione ultima per vivere (o per suicidarsi).

da L’Opera galleggiante
John Barth

 

The Radiance of Attention – Luc Tuymans

 

LA STANZA DEL SUICIDA

Certo pensate che la stanza fosse vuota.
E invece c’erano tre sedie con robusti schienali.
Una lampada buona contro il buio.
Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali.
Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.
Sette elefanti portafortuna, nel cassetto un’agenda.
Pensate che non ci fossero i nostri indirizzi?
Pensate che mancassero libri, quadri, dischi?
E invece c’era una trombetta consolatrice in mani nere.
Saskia e il suo cordiale piccolo fiore.
La gioia, scintilla degli dèi.
Ulisse sul ripiano nel sonno ristoratore
dopo le fatiche del quinto canto.
I moralisti,
nomi scritti a lettere d’oro
sui dorsi ben conciati.
Lì accanto i politici stavano ben ritti-
E quella stanza
non sembrava priva di vie d’uscita, magari dalla porta,
né senza prospettive, magari dalla finestra.
Gli occhiali da vista erano sul davanzale.
Una mosca ronzava, ossia era ancora viva.
Pensate che almeno la lettera spiegasse qualcosa.
E se vi dico che non c’erano lettere –
e noi, gli amici – tanti -, ci ha tutti contenuti
la busta vuota appoggiata a un bicchiere.

Wislawa Szymborska

 

 

 

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* in copertina
SuicideLuc Tuymans