L’autunno del 1946 entrai nel primo anno di liceo classico. Avevo tutti insegnanti nuovi. Invece di Målle, Satana, il Pigro e altri, arrivò gente come Fjalar, Fido, la Piccola, la Zia e il Caprone. Quest’ultimo era il più importante. Era il nostro professore di classe e doveva influenzarmi più di quanto non volessi ammettere all’epoca in cui mi scontravo con lui.
Avevamo avuto un breve attimo di drammatico contatto qualche anno prima che diventasse mio insegnante. Ero in ritardo e arrivai di corsa in un corridoio della scuola. Dall’altra parte arrivava di corsa un altro ragazzo, uno di una classe parallela. Era G., un noto prepotente. Frenammo di colpo uno di fronte all’altro senza poter evitare del tutto la collisione. Le frenate brusche hanno insita una forte aggressività, ed eravamo soli nel corridoio. G. colse l’occasione per picchiarmi.
Il suo pugno destro affondò duramente nel mio stomaco. Vidi tutto nero e crollai sul pavimento, svenendo come una damigella in un romanzo ottocentesco. G. si eclissò.
Quando le tenebre si dissiparono guardai in alto verso una figura china su di me. Una voce cantilenante e noiosamente lamentosa ripeteva in modo quasi disperato: “Come ti senti? Come ti senti?” Vidi un volto roseo e una barba bianchissima e molto ben curata. L’espressione preoccupata.
Quella voce, quel volto appartenevano al professore di latino e greco, Per Venström, alias Pelle il Sinistro, alias il Caprone.
Per fortuna non mi fece un interrogatorio e sembrò contento quando vide che potevo andarmene da lì con le mie gambe. Siccome era parso realmente preoccupato e quasi premuroso, si radicò in me la sensazione che il Caprone fosse nel fondo una persona buona. Qualcosa di quella convinzione rimase anche in seguito, quando entrammo in conflitto.
Il Caprone aveva un aspetto elegante e piuttosto teatrale. Oltre alla barba bianca portava di solito solito un cappello a tesa larga e un mantello corto. Un minimo di cappotto in inverno. Era facile fare associazioni con Dracula. Da lontano era maestoso e decorativo, da vicino il suo viso aveva spesso qualcosa di indifeso.
Il tono di voce semicantilenante che lo distingueva era un’evoluzione personale della pronuncia del Gotland.
Il Caprone soffriva di una malattia cronica alle articolazioni e zoppicava vistosamente. Il che non gli impediva di muoversi con rapidità. Faceva sempre un’entrata drammatica in classe, gettava la cartella sulla cattedra e già dopo qualche secondo era chiaro se l’umore era buono o cattivo. Il suo male era evidentemente influenzato dal tempo. Nelle giornate fredde e limpide le lezioni erano abbastanza allegre. Con bassa pressione e tempo nuvoloso strisciavano in un’atmosfera di sorda irritazione con inevitabili scoppi d’ira.
Apparteneva a quel tipo di persone che è impossibile immaginare in un ruolo diverso da insegnante. Si poteva addirittura dire che era impossibile immaginarlo come qualcosa che non fosse insegnante di latino.
Nel secondo anno di liceo cominciai a scrivere le mie prime poesie moderniste. Al tempo stesso ero attirato dalla poesia antica e quando le lezioni di latino passavano dai testi storici su guerre, senatori e consoli ai versi di Catullo e Orazio, mi lasciavo volentieri scivolare nel mondo poetico presieduto dal Caprone. L’analisi di versi era istruttiva. Andava così. Lo studente doveva prima leggere una strofa, per esempio di Orazio:
Aequam memento rebus in arduis
servare mentem, non secus in bonis
ab insolenti temperatam
laetitia, morituri Delli!
“Traduca”, gridava il Caprone.
“Con mente equa… hmm… ricordati con mente equa… no… umore costante… di mantenere una mente equa nelle circostanze difficili, e non altrimenti… hmm… no, altrettanto nella buona… nelle buone circostanze… eh… evitare l’esagerata… hmm… vivace gioia, o mortale Dellius!”
Così il luminoso testo romano era veramente portato terra terra. Ma l’attimo dopo, con la strofa successiva, ecco che Orazio ritornava in latino con la sua meravigliosa precisione di versi. Questa alternanza tra una sgangherata banalità e un icastico sublime mi insegnò molto. Erano i presupposti della poesia. Attraverso la forma (la Forma!) si poteva elevare qualcosa. Le zampette del bruco erano sparite, si aprivano le ali. Non si doveva perdere la speranza!
Purtroppo il Caprone non si accorgeva che ero affascinato dai versi classici. Per lui ero un giovanotto tranquillamente provocatore che aveva pubblicato sul giornale della scuola poesie incomprensibili nello stile della generazione degli «Anni Quaranta» –era l’autunno del 1948. Quando vide le mie composizioni, con le lettere sempre minuscole e la mancanza di segni di punteggiatura, si indignò. Facevo parte della barbarie avanzante. Uno così doveva essere refrattario a Orazio.
La mia immagine si oscurò ulteriormente a una lezione in cui analizzammo un testo in latino medioevale sulla vita quotidiana nel XIII secolo. Era una giornata nuvolosa, il Caprone era dolorante e la collera in agguato. Improvvisamente fu lanciata la domanda su chi fosse Erik Zoppo e Lisca nominato nel testo. Io risposi che era il fondatore di Grönköping. Era una reazione di riflesso per alleggerire l’atmosfera pesante.
Allora il Caprone non si arrabbiò solo momentaneamente, quel trimestre ebbi una «ammonizione» in latino. L’ammonizione era una breve comunicazione scritta a casa in cui si diceva che lo studente trascurava la materia. Dato che avevo avuto un voto alto negli scritti di latino, dovevo interpretare la nota come riferita alla vita in generale più che al latino.
Le nostre relazioni migliorarono decisamente nell’ultimo anno di liceo. Al momento dell’esame di maturità erano addirittura cordiali.
Fu più o meno allora che due tipi di strofa oraziana, la saffica e l’alcaica, entrarono a viva forza nella mia scrittura. L’estate dopo la maturità scrissi due poesie in verso saffico. Una è “Ode a Thoreau” – poi sfrondata in “Cinque strofe a Thoreau”, eliminando le parti più giovanili. L’altra era “Tempesta” nella suite “Arcipelago autunnale”.
Non so se il Caprone abbia mai letto quello che scrivevo quando finalmente uscì il primo libro. Metri classici. Come mi era venuta quell’idea? Era arrivata e basta. Consideravo Orazio un contemporaneo. Come René Char, Oskar Loerke o Einar Malm. Era così semplice da diventare sofisticato.
dalla ed. italiana
I Ricordi mi guardano –
Tomas Trainströmer
Tomas Tranströmer