“Dimmi qualcosa in un altro disordine d’idee, Margareta” – Paul Celan

«Questa qui è la mappa del silenzio» disse il saggio, mentre attaccava un grande foglio nero alla parete. «Calcolate la scala!»
Uno dei discepoli la calcolò.

 

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Ascolta:
è un’epoca da cui s’intagliano bare. Nell’ultima bara viene messo il coltello appena usato, e questo, il più grande di tutti i morti, l’umanità segue a lutto. Il tempo è bello, il cielo azzurro, il corteo funebre infinitamente lungo. A metà strada viene intonato un canto. Che bello, che solenne. Non un cantare triste ma neanche allegro, ma un cantare comunque.
La ritieni un’allegoria? Cerchi la chiave di queste bare, l’origine del coltello, la provenienza di chi avanza lentamente e canta? Stolto! Lascia perdere, non lo saprai mai, quel che ritieni il tuo intelletto non ci arriva di certo. Alto sopra il tuo capo si compie tutto ciò. Non lo vedi, non lo senti, non lo noti. E a qual pro? Intaglia anche tu un coltello. Segui anche tu una bara. Intona anche tu un canto.
 

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Una sera anche tu terrai in mano la lettera che ti reca il messaggio.
La porta si apre di schianto, il messaggero entra nella tua camera, odi i suoi stivali scricchiolare per il ghiaccio rappreso, il foglio che estrae da sotto il manto splende, una fiammella chiara, vuole far luce, illuminare, scovarti nel buio dove sei rannicchiato, nella tenebra che tu stesso hai tessuto, che è la tua propria opera, la tua opera originale, l’orgoglio della tua anima, vuole far luce, la piccola fiammella, vuole dar luce, quel piccolo foglio, ma già sei balzato su – quanti fili pazientemente tesi ingarbugli così, spezzi così! -, già gli stai accanto, dalle sue mani tremanti di freddo hai strappato il foglio.
Le tue dita lo stropicciano e intanto si stringono a pugno, senti le pareti dei ventricoli tremare sotto l’afflusso del sangue, spalancate le chiuse, una mareggiata selvaggia infuria, mugghia attraverso te, scorre giù nel tuo pugno, si dirama per le dita che si gonfiano, il pugno colpisce l’uomo al petto, la porta è ancora aperta, il messaggero barcolla via. «È il messaggio» lo senti gemere, «il messaggio dei fratelli!»
 

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[…] Giù per strada incontrai Karin.
Cioè: non la incontrai propriamente, dapprima non l’avevo affatto notata, ero passato oltre. Di colpo sentii qualcosa tirarmi per dietro – il mio bastone, che non mi obbediva più. Mi voltai e scorsi Karin: aveva afferrato il bastone all’estremità inferiore e non l’aveva più lasciato; a schiena curva stava ora dietro me, i piccoli pugni stretti all’estremità del bastone, senza alzare lo sguardo.
Un buon segno, pensai; il primo scherzo cui mi fosse consentito partecipare.
Sentii che sorridevo. Lentamente iniziai a girare il bastone – i pugnetti di Karin accompagnavano questo movimento. Meraviglioso! Ora agguantai il bastone anche con la sinistra, circa a metà, e presi a sollevarlo piano piano con la destra – anche qui mi obbediva Karin. Mentre prolungavo questo movimento, mi volsi completamente verso di lei.
Il suo sguardo era ancora chino. Presto l’avrei incrociato–il mio sorriso diventava sempre più largo. […]

*

Avevamo raggiunto la sommità del colle, Karin e io, mano nella mano eravamo saliti senza rivolgerci una parola e scambiando uno sguardo solo di tanto in tanto, quando passavamo accanto ai cespugli di pruno nero, che a quel tempo avevano una fioritura eccezionalmente ricca.
Era la nostra ultima camminata insieme in questo luogo e l’avevamo intrapresa non per dire addio alle cose che nelle tre settimane di nostra permanenza ci erano divenute così familiari, ma piuttosto per tributare grazie a tutto quanto intorno giacché ci aveva aiutato a […] il paesaggio che ci aveva permesso di ottenere certezza su quanto credevamo di essere l’uno per l’altra.
Mentre tutto il passato davanti alle cose qui aveva vissuto il suo definitivo compimento, il pruno nero era l’unico sopravvissuto indenne di allora: in lui nulla s’era chiarito, lo avevamo risparmiato ed esso stesso poi per tutto il tempo non era uscito dallo ieri: diversamente da frassini e platani non ci aveva seguiti passo passo ed era stato possibile trovarlo solo in questo posto.
 

*

Pensieri, storpi d’ala, che pendono sui punti di rottura della vita. Immota l’aria, il ciottolo di ghiaia fiancheggiato da ortiche dietro casa, che cento passi avanti si perde tra i cespugli, non calcato da giorni.
È sera, ascolti, per fuggire da te, il vicino tubare del colombaccio, è estate.
È estate, metà anno, l’anno è un pezzetto in più oltre quell’unità di tempo che si chiama secolo, questo secolo in cui cade la tua nascita è, secondo un calcolo su cui non rifletti oltre, il ventesimo, dovrebbe differenziarsi nettamente, come sempre più spesso viene detto e scritto, da tutti i precedenti, le stelle si sono avvicinate, le mani dei viventi già stanno protese, tu diffidi di queste mani, ma altre, anche certune che stringi volentieri, mani di amici, faranno probabilmente uguale, accanto a te cresce tuo figlio, il suo occhio si spalanca ancora quando osserva il volo delle rondini, ma la rondine chissà se domani torna, altro verrà che forse ha già il suo nome, ché attorno a te cadono parole e nomi nuovi, ripetuti anche da te, li ripeti e sei straniero, eppure in parte sei ancora a casa, a casa nei pensieri che pendono sui punti di rottura della tua vita, in un a casa frantumato dunque, e se ci sia qualcosa, un occhio forse che ti vede nuovamente unito, non sai.
Non lo sai, né sai perché non lo sai, in ognuno dei punti in cui si adunano i pensieri (o quanto così chiami) questa ignoranza ti si palesa nella sua non più riconoscibile causalità, ogni volta sotto altra, benché solo confusamente delineata forma, in un baleno hai già volto lo sguardo, lo fai vagare a dritta e a manca, di qua e di là, in tutte le direzioni in cui ti sai presente, t’illudi presente, verso tutti i punti dove ti sei trovato, dove ti hanno spinto, portato, lasciato lì.
Lasciato lì? No, perché intanto ti sei ripreso, alzato. Sì, ti vedi stare lì, già dalla lontananza che attraversi con la velocità del vento ti sei visibile, stai lì ben ritto e ti fai cenno, quel che succede è una spola continua tra te e te, tra te e te e te.

Te e te e te. Un viaggiare senza quiete e senza sosta dall’uno all’altro. Eppure, mentre si verifica tutto ciò, accade anche questo: è sera, ascolti, per fuggire da te, il vicino tubare del colombaccio, è estate. È un attimo per prender fiato, largo e prolungato, nessun desiderio in te che ti sia d’ostacolo, hai gioco libero.
Gioco libero, sì, un’ultimissima volta forse, quel che ti è concesso praticare qui è un gioco, ma senza fiato, un gioco con te stesso, sai che devi perdere.
Hai perso spesso. Cioè: giungevi a fermarti in quel punto in cui l’impresa non voleva, non poteva continuare con te nella direzione di prima. Si bloccava, per paralisi. Non eri solo, altri ti avevano seguito fin qui, tu li avevi seguiti fin qui, ora stavate fermi, e non c’era un dopo. Che facevano ora gli altri? Si giravano, tornavano nella loro vita, senza te. O compivano ancora un passo, un unico, minuscolo passo appena percepibile, era come un marciare sul posto: era la morte che si era aperta a loro, che li aveva lasciati entrare. Così dunque si erano regolati gli altri in quei punti: erano tornati nella loro vita o entrati nella loro morte. Tu no.
Tu non tornavi e non entravi, tu proseguivi il cammino. E mentre proseguivi il cammino, eri un altro, un uomo la cui vita era iniziata da capo poiché i suoi compagni di strada erano scomparsi.
Come scomparsi? I morti: non hai dunque una memoria dove li custodisci, dove ti rimangono presenti, parlando e tacendo, stando con te e contro te, esercitando fedeltà e tradimento, corteggiati ed evitati, vicini e lontani e in tutte le stazioni tra lontananza e vicinanza? I morti: non hai dunque sogni che ti assillano di notte e di giorno, sogni che ti costruiscono un’arca ove sopravvivere al diluvio spumeggiante dagli abissi dell’accadere, sempre più rossi, traversati da corpi e ombre di corpi, traversati da torso e capo e sesso, da ombre di torso e capo e sesso, da consanguineo e no, da uomo, mezzuomo e mostro, da impiccato, decapitato e profanato, percorsi da larve di gassato, cremato e sparso al vento, sogni che ti costruiscono quest’arca, e ora stai rannicchiato dentro, un sopravissuto, protetto, un occhio rivolto fuori, un occhio dentro, e quello rivolto fuori ti nega il servizio, si chiude, e all’altro si palesa ora la visione, vengono scambiati sguardi, non sei più solo, protetti con te sono i dispersi, i morti, i tuoi morti?
Hai questa memoria che ti custodisce i morti, hai il sogno costruttore d’arca.
E i vivi?
E i vivi? Sono dunque così lontani, così irraggiungibili? Per quanto siano lontani, ci devono essere nondimeno mezzi e vie per raggiungerli, pure tu sai che ci sono. Eviti le fatiche del cammino? Non sei vecchio, quarant’anni non sono niente, potresti partire subito, in questo istante, un paio di mesi, un paio d’anni forse, e sei da loro. Ci sono ostacoli, dici? Cosa sono gli ostacoli! Li si supera, basta averne la voglia. E se anche non dovessi superarli tutti, non arrivassi a tutti quelli che bisognerebbe raggiungere, se dei tanti dovessi raggiungerne solo uno! Parti, va’ da quell’uno. Non puoi andartene, dici? E quando stai a sentire il colombaccio: ciò non significa per te un andartene?
Sarebbero lontani, i vivi? E un paio di giorni fa, attraversavi una via distratto, sopraggiunse sfrecciando un’auto, cominciasti a correre, giungesti sano e salvo di là, sbattesti contro una passante, lei vacillò, ritrovò l’equilibrio, stette ferma e ti guardò negli occhi: non era Karin? Era Karin, ti osservò per dei minuti, con occhi umidi di cerbiatta, i capelli leggermente ossigenati le cadevano sulla fronte, portava il vestito a grandi girasoli, erano solo tre passi da lei, tre passi da Karin, la lontana, sommersa, irraggiungibile, e tu non ti muovesti di posto, sono le cinque, pensavi, il giornale della sera dev’essere già uscito, qui non c’è un chiosco nei paraggi? giusto, al primo incrocio sulla sinistra, ho soldi con me? ovvio, ho appena cambiato la banconota grossa, ma lì c’era ben Karin appunto, dov’è? avrà girato l’angolo, Karin, la vicina, è lontana.
Hai una memoria; hai sogni; hai tempo e forza abbastanza per andare da quelli che sono lontani; hai vie che attraversi.

Non illuderti, non puoi rispondere a questa domanda, devi passarci sopra. Può anche darsi che sia posta male o ad ogni modo troppo presto. Comunque sia, fai certo meglio a metterla provvisoriamente fra parentesi. Non preoccuparti, si ripresenta presto, conosce le vie d’accesso.
Al dunque: che avrebbero di particolare quei punti di rottura? Quanto successe agli altri, a quelli che ti avevano seguito o che avevi seguito, lo sappiamo all’incirca. Fecero dietrofront, continuarono a vivere, la loro vita rimase sullo stesso binario. O morirono, andarono a picco, là dove sparirono prolifera l’erba, spunta il sasso, cresce un altro tempo. E tu – cosa ne fu di te?
Qualcosa si fermò in te, qualcosa che non era il tuo cuore e neanche il tuo cervello rimase immobile per un istante, una mano ti afferrò, ti afferrò e ti lasciò di nuovo, tu non ti eri mosso di posto, ma fosti un altro, fosti solo, all’inizio di una solitudine che non prese atto di nulla più che di se stessa.
 

*

Da capo questo ritrarsi dell’evidente e del concreto cui – per quale irrigidimento? – s’era pronti ad attribuire così tanta importanza. Un certo nervosismo esige ancora, sono trascorsi appena quattro giorni, la sua parte, ma già si sa: è in diminuzione, dopodomani si sarà guadagnata distanza, all’occhio che guarda indietro si offrirà questa immagine: un punto cieco nell’esistenza, insulare, senza vegetazione emotiva, occupabile con ricordi, un vuoto pezzo di tempo, conservato per dopo.
Dopo – quando? Che ci si aspetta mai? Chiarezza di vedute? Se si considera quante occasioni ci si è già lasciati scappare, bisogna confessare che si pretendono da sé possibilità che non si hanno. Eppure: mica si può mollare, si vive, no? Dunque, malgrado tutta l’inesattezza di idee simili: chiarezza di vedute. Nessun giorno somiglia all’altro, forse un giorno si giungerà ad avere vista da tutti i lati, a riconoscere le dimensioni, i contorni, il peso del vissuto. C’è poi realmente così tanto caos? Qualcosa si è già visto coagulare, diventare solido, non tutto sprofondò nel vuoto, anche la morte crea ordine. Un occhio aperto può aiutare. Le cose forse si sommano da sé, non dipende certo dalla mano che tira la linea.
Le cose, le cose: un nome generico, indifferenziato – che mai non potrebbe starci dentro? Oggetti ed eventi, persone, commosse e non commosse, gente attesa e gente giunta, quanto emerge e affonda in migliaia di forme. Si vorrebbe poter gestire un poco tutto ciò – non si può quindi davvero? Quarant’anni vissuti, si è stati di qua e di là, volenti o nolenti, si abita come tanti non nel luogo dove si stava bene, se ne ha abbastanza, cosa mai potrebbe ancora arrivare, al massimo varianti del già noto, un biondo più chiaro, un marrone più scuro, un pezzettino di ambiente, una traccia di esotismo, lì ululavano gli sciacalli, qui strisciano le tigri, qui soffiano sul collo i generali, lì i civili.
Non andarsene, restare, tutto è mischiato con tutto, l’appetito viene ovunque a sue spese, vivere del proprio non è affatto così dura. Pare impossibile quante scorte ci si trascina dietro; in ogni caso bastano per ogni situazione. Lei non dovrebbe sottovalutare la gente, signore. La gente non è affatto sorpresa, saprà gestirsi.
Ora, comunque, non si deve andare troppo avanti, qualcosa è aperto, bisogna ancora andarci dentro – dentro e magari attraverso. Che dipenda dalla nuance, proprio da lei? Bello – nuance, prego!

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Ancora dieci giorni al venti, poi si partirà. Portare: biancheria, non troppa. Anna la provura volentieri per pochi soldi, un libro inoltre, possibilmente con tante parole, le parole tirano i pensieri, ci si prefigge appunto di aver pensieri, i pensieri vogliono andare avanti, allora le parole fanno un buon servizio, come mezzi di locomozione appunto,
sempre così elastiche; e carta, potrebbe venire inoltrata una lettera che vuole risposta: «Sarò…», «Sono contento di…», «Mi spiace che…».
Dieci giorni, un lasso breve, bisognerebbe sempre avere davanti a sé tratti di strada così brevi, già solo per l’univocità con cui tutto si presenta: «Verrò un’altra volta prima della tua partenza, mercoledì prossimo». Mercoledì prossimo è il confine, giovedì si è nuovamente fuori, soli, violazioni di confine sono impensabili. Nessun dubbio, si fa del proprio meglio per evitare sconfinamenti: ogni singola cosa rimanga in sé, ci sono fin troppi nessi.

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Confortevolmente a casa in puro stile saccente, si scriveranno necrologi sui grandi estinti e, bazzicando in eletta compagnia i luoghi commemorativi, non verrà scordato durante la deposizione della corona di tirare un’elegante botta al fianco del giovane vicino, di sera si pregherà brevemente ma sostanziosamente il proprio dio raggiunto tramite parecchie (tempestive e seguitissime) conversioni, e di mattina, commentando le ultime notizie con citazioni bibliche, goethiane e personali, si berrà vero caffè, colazione e consolazione in uno.

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Oscurato. Stanno venendo da me i caprifogli, lo so. È a pezzi il mondo in me, il mondo. Fatto di paglia, piglierò presto fuoco, il fuoco di macchia mi è già alle costole. Cappelli a cilindro si avvicinano ballando. A Kritzendorf emerge dall’acqua il ben noto caschetto di ciclista. «Quanto ancora per Vienna?» «Venti seghe.»

 

 

Alla fin fine si appartiene pur sempre a un’epoca in cui la luna non è ancora raggiunta; a un’epoca in cui si muore ancora.

 

da Microliti: Aforismi, Abbozzi Narrativi e Frammenti di Poetica
Paul Celan

Trad. Dario Borso

 

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ph. Andrés Marroquín Winkelmann
nella serie Conditions