Inverno – Beppe Salvia

 

In quel luogo che per
mancanza di parole
chiamavamo cuore.
Balzac

 

 

L’inverno è fredda stagione. E, dalle mie parti essa è il gelo per mesi. Ma nel mio cuore, fin quando vissi in patria, non v’era gelo. La neve intorno, assenza d’ogni cosa, era incantata lavagna. Non ch’io mi decidessi mai a scrivere allora del mio, ma era in me sempre quella meraviglia, prima tra tutte le passioni, che sempre cresceva desiderio e poi amore, odio gioia tristezza. Da dietro i vetri o dentro proprio a quel paese bianco io vissi, e questo spiega niente e spiega tutto, i miei anni più belli, non i felici tra i giorni ma le perenni ore del cuore, dove l’abbandonarsi a tutto, cedere senza scampo a miglior vita che qualunque sogno o chimera, al vivere che detta una passione selvatica ancora e immotivata, fu per me causa di salute eccessiva, che altri diceva malattia.
A quel tempo vivevo nel mio borgo come fosse il mio cuore. Ero uno spettro magro, un pavone senza colori. Giravo per le strade del borgo, luogo di mercati e del giorno, e a notte nel parco accompagnandomi alla più bella. Altrimenti nelle ore prestissime, a casa, io leggevo. Leggevo i libri di storia naturale e romanzi. Sapevo di non capire il mondo fisico almeno quanto ignoravo, e disprezzavo, le trame romanzesche i luoghi e i discorsi degli uomini nei romanzi.

Avevo la testa in forme dell’insonne e del solitario cui tutto brucia, che niente ha volontà di trattenere a sé. Passavo le ore di scuola innamorato di un vezzo di pensiero che diceva biasimo e beffe di tutta sapienza. Scolpire il banco con un chiodo nella furiosa incapacità di metter ferma una furia. Attendevo l’uscire con Bella, di non fare ritorno a casa. Ma ogni giorno ero a casa per un paio di ore, più felice che in ogni altra dimora. Sapevo che la vita ordinata della mia famiglia permetteva una più vasta coscienza quanto il mio disprezzo per tutto faceva comprendere a essa. Ma non credevo dover ricondurre a ragione solo il rispetto a un mondo pur chiaro, tramontato. Desideravo condurre il mondo, a una ragione nuova. E Bella mi diceva dei suoi amanti e quelle loro storie di uomini bestiali che di lei chiedevano la bestia. Non conciliavo in quel fantasma l’amore la possibilità d’un sentimento alla vastità di intelligenza delle cose che quello mi permetteva.
In quanto complici, noi due, nella parte del silenzio, per tutto sapere e sempre incoscienti. Io non capivo quanto il buio in me accresceva il desiderio mi allontanava dalla grandiosa distanza alle cose proprie della giovinezza, in me, vivere e morire. Io vivevo immemore leggero fortunato in una destrezza come di chi ha già tutto saputo. L’attrezzo mio filosofico era pure e naturale come la lama del beccaio netta dopo ogni taglio, e in ogni taglio precisa come sapesse tutte le vie gli umori le connessure d’ossa dell’animale che seca.
Il parco il naturale buio bosco dove la luce filtra in accidentale meraviglia e bagna uomini e cose a suo verso, i sentieri e i dirupi, il fiume erano il nostro mondo. E non più leggere, studiare, e andavo vagabondo.
E le poche cose e poche volte che tornavo a casa passavo tutto il mio tempo a far niente, nascosto. Distante ad ogni cosa, cercando d’occultarmi ogni rumore tranne quel suono, quasi inodore, delle consuetudini quotidiane. Ma sentivo in quel sonno d’essere nutrito a un patimento. Ristorato e le cose lievemente semplici, a me chiare, perch’io potessi di nuovo soffrire, ritesserle, distruggere e riedificare. Le forme dentro di me mutevoli e selvatiche m’ingannavano il mondo quando tutto e quando il contrario di tutto. Pretesto quel niente a imprese e pensieri più azzardati, per sapere in che limite fosse contenuto il mio nome, e il nome di quanto io e Bella vivevamo.

Pensavo spesso a quelle civiltà che per il pregio di essere risolte, evolute in sommo grado, non dovettero soffrire altro che il trionfo mortale delle barbarie che le aveva finite. Volevo essere principe di una civiltà così grande, o altrimenti di una grande barbarie. Ma mi piaceva sognare l’Atlantide infinita ove nulla volga a mutarsi, il popolo che visse in consapevole di essere nel vulcano che un giorno tremò e lo distrusse. La luna disprezzavamo per quella luce parsimoniosa che si celava, nel buio, e le vere nostre forme e l’essere pienamente sconosciuti, la luna che dipinge gli umani sogni di candore nelle notti della vita, astro spregevole senza luce, glabro ospite della morte e del freddo, la luna, quella sera di cui solo voglio ricordare, splendeva insidiosa e infantile come le guance di un vecchio cassiere in un negozio di dolci, o gli occhi inutili di un sagrestano orbo. A quel buco bianco nel cielo ho sempre preferito, e lo fuggiva in quei giorni, il sole profondo e inesorabile, la canicola che fa cenere del mondo. Ma quel mondo a quel borgo di mia giovinezza, il gelo era principe. La notte la luna erano la vita. Invidiavo l’arte immodesta di mio padre che sdegnava la complicità d’altri uomini per vivere forse molte vite immaginarie e labili, che descriveva in racconti inesauribili e pedanti, nei quali a leggerli vi si leggeva l’abitudine all’oppio e all’irrisione, ma invidiavo assolutamente chi solo dei propri mercati, e quanto spesso illegali, viveva e prosperava, avendo fatto di tutta la sapienza del mondo utile al proprio utile. Non era terra di scienza la mia e non altri che questi mercanti beffardi avevano saputo costringere a ragione l’ingorda follia della natura.

La luce splendeva nel parco, coltre di bianco, neve di luce, mai come ogni sera destati, in quel buio, il torpore del giorno e del borgo, giunti al bosco, lontano alle case, per mezzo d’un ponte che solo meraviglia poteva credere vero; in quel vento, in quel vuoto, ed era un ponte vero di pietra, tra i due vertici del monte e del mondo, giunti al bosco per fuga e per forza, altro non v’era che di scegliere, stavamo seduti e un po’ correvamo tra gli alberi del mondo strinati do un fuoco nero, chiodi mistici in un mondo bianco. Sembravamo due schiavi allora abbandonati dalla nave negriera sul suolo del mondo avverso, incatenati e stanchi, incantati dalla beffa. E nelle ossa affrante l’agile libertà che è pronta, comunque e in ogni dove a staccare il suo metro di sogno. Sognavamo quella sera, il buio bianco più che ogni altra sera. Eravamo la pietra ormai che è pace. Per tanti giorni si era detto d’azzardare una beffa a noi stessi, di vivere sposi. Ma ciò che non si crede non si fa. Ciò che non si è non si desidera. Rimanevamo uniti sotto il cielo. E sulla terra provvedevamo a sognare il mondo che non torna agli uomini. Quella notte noi volevamo soltanto attendere e scaldare nella corte del vento i corpi amanti. Talvolta s’amano i fianchi senza mai accennare a un moto d’avvicinamento, senza un bacio. L’animale che è re della natura tutta umana, io stimo.
L’animale avverso a ogni memoria se non quella sua opera vagabonda che lo conduce, duttile misura d’una ragione grande della vita, salvo comunque, e da vita a morte. Ma noi prossimi al desiderio noi amanti sconosciuti l’uno all’altro dovevamo essere l’animale e il dio, passare le sbarre, crescere in noi la sapienza, la vergine forza che ogni volta genera in un mondo vuoto la vita.

Era dunque una di quelle notti in cui, pallida fantasima, la luna splende nel buio, come un cielo in cielo. E nel gelo noi gelavamo, nel parco i passi di viandanti miserabili erano a noi cosa paurosa, spezzarsi delle foglie sotto i passi. Misuravamo in una lontananza l’essere noi lontani l’uno all’altro, lontananza di cielo e terra di buio e lume di passi e volti di gelo e cuore, cose contigue e separate, noi come tutte cose eravamo. E i nostri occhi chiedevano guardavano, e per quanto miti adesso e quanto limite in noi conosciuto stringevamo in un abbraccio d’ansia, e più ancora insistendo in quello spasimo di più, e solo per quello, ci sentivamo vivi.
Poi d’un tratto e portando una cieca, pencolante ai suoi passi, e mestiere il suo di una lentezza destra che già metteva paura, a noi si avvicinò un vecchio sconosciuto. A un metro da noi lo sapemmo magro e nero, di cera il viso a quel lume di cera. Prese a parlare con la parola mozza da un singhiozzo d’ilarità come volesse dire e ne ridesse di doverlo fare. Come fosse il suo mestiere e, celebrante astuto sapesse di non poter essere creduto.
Ma era pazzo costui, e prese a gridare. E quel suo farnetico disumano e stridente segnava di gelide parole le cose. Ad ogni verso egli pareva dolersi e godere. Ci mise addosso una paura vera, volevamo fuggirlo e quello ci traeva a sé. Il volto sgomento il fiato scuro l’anima morta, e quell’insano urlare, ghiacciavano i nostri corpi. Bella già piangeva, e per quanto io mi facessi forza anch’io già tremavo dentro e mi accorgevo della mia grande solitudine, e di lei che non sapevo proteggere. Poi fuggimmo corremmo via tenendoci per mano uno lontano all’altro ma non mai rivolgendoci tra noi
Noi uscimmo allora, e senza quasi accorgerci, da un sogno. Camminavamo via, per mano e muti, e quasi senza più pensare, laceri e non affranti, desideravamo ancora ma di tutto volevamo il sonno, per un tempo assoluto il sonno delle cose, che ci prendesse a vivere nel muto sentiero d’un paradiso di vero silenzio o tra i berci veri d’un inferno. E in tanto vasto mondo ricondurre al borgo noto, anime troppo chiare su cui tutto brucia, il nostro poco amore. Portavamo via vivo da un sogno un pensiero nero, e vivi nient’altro che una luce di lanterna una luce di luna il bianco sgranato dei occhi.

Bella volle correre a casa. Piangeva e anch’io mi affrettai a correre via. Fui d’improvviso davanti alla mia casa. L’architrave del portone bianco di luna recava il segno familiare, gli stipiti aprivano a quel varco. L’attraversavo adesso con un sentimento dentro di nausea. Da un esterno noto e pauroso, vissuto nel giorno e nella notte e nuovo d’ogni cosa, entravo dove tutto è familiare e in camere vaste assai più del mondo, e dove tutto a me pareva adesso ignoto come ignoto è il destino, un segno vano di luce accecante e che non brucia. Come limpida acqua tutto di me versava nel buio. L’inverno del cuore d’un pazzo m’aveva avveduto alla morte. Singhiozzai e sorridevo, cime di lesti giovani cipressi svettavano dietro gli spalti del borgo, guardavo la finestra senza fine rotonda della luna. Sul colle nel bosco già m’appariva desto l’ultimo dell’anno.
 

da I pescatori di perle –
Beppe Salvia

 
 

 
 

Inverno
 

*

Mi sono provato a costringermi al vento di queste contrade. Tante’è, cosa perdo? Ho seguito i miei passi in malcelate strade. E conducevano al tempio. Tutte. Alla biblioteca imperiale. Dove non v’è pagina inutile. Ma, sono vestito con i cenci del guerriero e ho attraversato la peste. Mi sarà difficile entrare. E poi che leggere più, che consultare quali garbugli dirimere? In un tonfo nelle acque fredde di Kades l’esercito è perito. Io, il disertore, ho potuto vedere, e vivere quella sconfitta. Da allora io so che mi attende. Al capestro niente altro che è un grido. E. pel resto, mi paiono bianche le notti e buio da alba a tramonto.

 

*

Si può vivere in una gabbia di tizzoni infuocati. Al limitare di neve e foresta. O sotto la neve, dentro la foresta. Si può tutto dimenticare, essere dimenticati. Si può spezzare negli occhi una fiala di acqua venefica piccola, e chi li bruci.
Si può vivere ciechi. Si può essere appena viventi sotto un soffitto di ferro, spostandosi a passi a tentacoli mossi. Si può non aver assistito non avere un nome non credere. Si può essere al mezzo di un segnale di fascine che brucia. Al limitare di neve foresta. Un fuoco a forma di X. Si può morire dunque.

 

*

Io scrivo di notte, mi suggerisco che scrivere. Io vivo in quei fogli davanti. Mi piacciono bianchi, mi piacciono scritti. Mi piace se canta Lydia Lunch alla radio o Victoria Spivey. Non sono ordinato. Le mie righe lo sono. Distante le une dall’altre. Perché è peccato sciupare una notte per non dire che il vero. Il mio mestiere l’ho preso soltanto da me. Io distinguo due cose nel buio. Io penso, e posso, ordinatamente, contraffare tutto ciò che mi circonda. Io ricordo, ed ogni memoria niente m’è possibile mutare. Questo v’insegno: v’è arte e sappiatela usare; è possibile altrimenti sapere di sé, a tal modo affranti che dolore ormai tutto comprendendo, al cuore soltanto affidi la beffa sua più bella e più misera, dimenticare.

 

*

hanno corso hanno inseguito le volpi nella baia di neve tra alberi quieti, poi notte e nel sonno dei vieti cacciatori tornarono gli odori della neve, la spina del gelo negli occhi, nei cuori il colore del sangue il sangue tra i denti veri dei segugi, e in gocce giù buca la neve, fredda a latrare le urla dei cani.
 

da Cuore
Beppe Salvia

 

Dipinto di Rocco Salvia

 

in cielo i nuvoli son grandi vele
bianche, velieri. Io voglio per mare
un fondo di bottiglia e davvero
esitare a scrivere, non vere
le parole hanno bisogno di severe
prigioni dove snebbiare; più terse
allora seguiranno il verso giusto,
più vere eviteranno le maldestre
oasi d’ ambiguità che son rare
ai deserti e frequentissime dove
il deserto è la folla degli errori,
e degli uomini incerti qui nei mari
d’assenza e di dolore. Come fiori
di mandarlo e di pesco le parole.

 

 

 
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* in copertina e nel post
opere di Edition Moncrier
** la citazione è di Beppe Salvia
*** l’ultima opera è di
Rocco Salvia, fratello di Beppe