Specie di Spazi: George Perec e Fernando Espuelas

 

Essere e non Essere
Si generano l’un l’altro.
Lao-Tsu

 

 

Su uno spazio inutile
 

Più d’una volta ho provato a pensare a un appartamento nel quale ci fosse una stanza inutile, assolutamente e deliberatamente inutile. Non sarebbe stato un ripostiglio, non sarebbe stata una camera da letto supplementare, né un corridoio, né uno sgabuzzino, né un angolino. Sarebbe stato uno spazio senza funzione. Non sarebbe servito a nulla, non avrebbe rinviato a nulla.
Mi è stato impossibile, nonostante i molti sforzi, seguire fino in fondo questa idea, quest’immagine. Il linguaggio stesso, mi sembra, si è rivelato inadatto a descrivere questo nulla, questo vuoto, quasi si potesse parlare soltanto di quel che è pieno, utile e funzionale.
Uno spazio senza funzione. Non «senza funzione precisa», ma precisamente senza funzione; non pluri-funzionale (questo, lo sanno fare tutti), ma afunzionale. Non sarebbe certo stato uno spazio unicamente destinato a «liberare» gli altri (stanzino, ripostiglio, armadio a muro, guardaroba, ecc.) ma uno spazio, ripeto, che non sarebbe servito a nulla.
Riesco talvolta a non pensare a nulla, senza neppure dover pensare, come L’Amico Pierrot, alla morte di Luigi XVI: tutto a un tratto mi rendo conto che sono lì, che il «metrò» si è appena fermato e che avendo lasciato la stazione Dugommier circa novanta secondi prima, adesso sono né più né meno a Daumesnil. E ciò nonostante, non sono riuscito a pensare il nulla. Come pensare il nulla? Come pensare il nulla senza mettere automaticamente qualcosa intorno a questo nulla, senza farne un buco nel quale ci si affretta a mettere qualcosa, una pratica, una funzione, un destino, uno sguardo, un bisogno, una mancanza, un sovrappiù…?
Ho provato a seguire docilmente quest’idea molle. Ho incontrato molti spazi inutilizzabili, e molti spazi inutilizzati. Ma non volevo né l’inutilizzabile, né l’inutilizzato, bensì l’inutile. Come scacciare le funzioni, i ritmi, le abitudini, come scacciare la necessità? Ho immaginato che abitavo un appartamento immenso, talmente immenso che non riuscivo mai a ricordarmi quante stanze ci fossero (l’avevo saputo un tempo, ma l’avevo dimenticato, e sapevo di essere ormai troppo vecchio per ricominciare un conteggio così complicato): tutte le stanze, eccetto una, sarebbero servite a qualcosa. L’essenziale era trovare quest’ultima. Non era più difficile insomma, che per i lettori della Biblioteca di Babele trovare il libro che desse la chiave di tutti gli altri. C’era effettivamente qualcosa di abbastanza vicino alla vertigine borgesiana a volersi rappresentare una sala riservata all’ascolto della Sinfonia n. 48 in do, detta Maria Teresa, di Joseph Haydn, un’altra consacrata alla lettura del barometro o alla pulizia del mio alluce destro…
Ho pensato a quando il vecchio principe Bolkonskij, inquieto per la sorte del figlio, cerca invano per tutta la notte, di camera in camera, con una fiaccola in mano, seguito dal servo Tichon che porta delle coperte di pelliccia, il letto dove finalmente prenderà sonno. Ho pensato a un romanzo di fantascienza nel quale la nozione stessa di habitat sarebbe scomparsa; ho pensato a un’altra novella di Borges (L’immortale) nella quale uomini ormai privi della necessità di vivere e di morire, hanno costruito palazzi in rovina e scale inutilizzabili; ho pensato a certe stampe di Escher, a certi quadri di Magritte; ho pensato a una gigantesca scatola di Skinner, una camera interamente tappezzata di nero, con un unico pulsante su uno dei muri: premendo il pulsante, appare per un breve istante qualcosa come una croce di Malta grigia, su fondo bianco…; ho pensato alle grandi Piramidi e agli interni delle chiese di Saenredam; ho pensato a qualcosa di giapponese; ho pensato al vago ricordo che avevo di un testo di Heissenbüttel nel quale il narratore scopre una stanza senza porte né finestre; ho pensato a sogni che avevo fatto sullo stesso tema, in cui scoprivo proprio nel mio appartamento una stanza che non conoscevo…
Non sono mai giunto a qualcosa di veramente soddisfacente. Ma non penso d’aver perso del tutto il mio tempo provando a oltrepassare questa linea improbabile: attraverso questo sforzo, mi sembra che traspaia qualcosa che potrebbe essere uno statuto dell’abitabile…

*

Traslocare 1
 

Lasciare l’appartamento. Sloggiare. Svignarsela. Fare piazza pulita. Togliersi dai piedi.
Inventariare riordinare classificare selezionare.
Eliminare gettare rifilare
Rompere
Bruciare
Demolire smurare schiodare scollare svitare sganciare
Disinserire staccare tagliare tirare smontare piegare tagliare
Far rotolare
Impacchettare imballare stringere annodare accatastare riunire ammucchiare legare avvolgere proteggere ricoprire avviluppare premere
Rimuovere portare sollevare
Spazzare
Chiudere
Partire

*

Traslocare 2
 

pulire verificare provare cambiare sistemare firmare aspettare immaginare inventare investire decidere flettere piegare curvare rivestire attrezzare denudare spaccare voltare rivoltare battere borbottare scurire impastare orientare proteggere coprire rovinare strappare troncare collegare nascondere attivare azionare installare riparare incollare rompere allacciare passare stipare ammucchiare stirare levigare consolidare piantare tassellare appendere ordinare segare fissare attaccare marcare annotare calcolare arrampicarsi stimare contenere vedere misurare far pressione cospargere scartavetrare dipingere strofinare raschiare connettere arrampicarsi inciampare scavalcare perdere ritrovare rovistare arare il mare spazzolare stuccare sguarnire camuffare stuccare far combaciare andare e venire lucidare lasciar asciugare ammirare stupirsi innervosirsi spazientirsi soprassedere apprezzare addizionare intercalare sigillare inchiodare avvitare imbullonare cucire accovacciarsi appollaiarsi disperarsi centrare accedere lavare sciacquare valutare calcolare sorridere sostenere sottrarre moltiplicare restare lì impalato abbozzare comprare acquistare ricevere riportare sballare disfare bordare incorniciare aggraffare osservare considerare sognare fissare scavare farne le spese campeggiare approfondire alzare procurarsi sedersi addossarsi inarcarsi risciacquare stappare completare classificare spazzare sospirare fischiettare lavorando inumidire invaghirsi strappare affiggere incollare bestemmiare insistere tracciare scartavetrare spazzolare dipingere scavare collegare accendere innescare saldare curvarsi schiodare arrotare puntare bighellonare diminuire sostenere agitare prima dell’uso affilare estasiarsi rifinire abborracciare raschiare spolverare manovrare polverizzare equilibrare verificare inumidire tassellare vuotare frantumare abbozzare spiegare alzare le spalle fissare il manico dividere camminare su e giù fare tendere cronometrare sovrapporre avvicinare assortire sbiancare laccare ritappare isolare giudicare appuntare ordinare imbiancare appendere ricominciare intercalare stendere lavare cercare entrare riprendere fiato
installarsi
abitare
vivere

*

porte
 

Ci si protegge, ci si barrica. Le porte bloccano e separano.
La porta rompe lo spazio, lo scinde, vieta l’osmosi, impone la compartimentazione: da un lato, ci sono io e casa mia, il privato, il domestico (lo spazio sovraccarico delle mie proprietà: il mio letto, la mia moquette, il mio tavolo, la mia macchina da scrivere, i miei libri, i miei numeri spaiati di «La Nouvelle Revue Française»…) dall’altro, ci sono gli altri, il mondo, il pubblico, il politico. Non si può andare dall’uno all’altro lasciandosi scivolare, non si passa dall’uno all’altro, né in un senso, né nell’altro: ci vuole una parola d’ordine, bisogna oltrepassare la soglia, bisogna farsi riconoscere, bisogna comunicare, come il prigioniero comunica con il mondo esterno.

Evidentemente è difficile immaginare una casa senza porta. Ne ho vista una, un giorno, parecchi anni fa, a Lansing, Michigan, Stati Uniti d’America. Era stata costruita da Frank Lloyd Wright: si cominciava col seguire un sentiero leggermente sinuoso alla sinistra del quale s’innalzava con forte progressione, e perfino con una noncuranza estrema, un leggero declivio che, dapprima obliquo, si avvicinava poco per volta alla verticale. A poco a poco, come per caso, senza rendersene conto, senza che a un istante preciso si fosse in grado d’affermare di aver percepito qualcosa che assomigliasse a una transizione, a una rottura, a un passaggio o a una soluzione di continuità, il sentiero diventava pietroso, ovvero: dapprima non c’era altro che erba, poi iniziavano a esserci delle pietre in mezzo all’erba, poi c’erano un po’ più di pietre e diventava come un vialetto lastricato ed erboso, mentre sulla sinistra, la pendenza del terreno cominciava a somigliare, molto vagamente, a un muretto, poi a un muro in opus incertum. Poi appariva una specie di tetto graticciato praticamente indissociabile dalla vegetazione che l’invadeva. Ma di fatto, era già troppo tardi per sapere se si era fuori o dentro: in fondo al sentiero, le lastre combaciavano e ci si trovava in ciò che si è soliti chiamare un’entrata, la quale si apriva direttamente su una stanza piuttosto gigantesca, uno dei prolungamenti della quale sfociava su una terrazza oltre tutto ravvivata da una grande piscina. Il resto della casa non era meno degno di nota, non solo per la comodità, e neppure per il lusso, ma perché si aveva l’impressione che si fosse rannicchiata nella collina come un gatto che si raggomitola su un cuscino. La chiusa di questo aneddoto è tanto morale quanto prevedibile: una decina di case pressoché identiche erano disseminate nel perimetro d’un club privato di golf. Il golf era completamente recintato; delle guardie di cui non era difficile immaginare che fossero armate di carabine a canne mozze (ho visto molti film americani in gioventù), sorvegliavano l’unico cancello d’entrata.

*

scale
 

Non si pensa abbastanza alle scale.

Niente era più bello, nelle vecchie case, delle scale. Niente è più brutto, più freddo, più ostile, più meschino, nei palazzi d’oggi.

Si dovrebbe imparare a vivere di più nelle scale. Ma come?

*

muri
 

Dato un muro, che cosa succede dietro?
Jean Tardieu

Metto un quadro su un muro. Poi dimentico che c’è un muro. Non so più che cosa c’è dietro il muro, non so più che c’è un muro, non so più che questo muro è un muro, non so più che cos’è un muro. Non so più che nel mio appartamento ci sono dei muri, e che se non ci fossero muri, non ci sarebbe l’appartamento. Il muro non è più ciò che delimita e definisce il luogo in cui vivo, ciò che lo separa dagli altri luoghi in cui gli altri vivono, non è più che un supporto per il quadro. Ma dimentico anche il quadro, non lo guardo più, non lo so più guardare. Ho messo il quadro sul muro per dimenticare che c’era un muro, ma dimenticando il muro dimentico anche il quadro. Ci sono i quadri perché ci sono i muri. Bisogna poter dimenticare che ci sono dei muri e quindi non si è trovato niente di meglio che i quadri. I quadri cancellano i muri. Ma i muri uccidono i quadri. Oppure, bisognerebbe cambiare di continuo, o il muro, o il quadro, mettere senza posa altri quadri sui muri, o cambiare sempre il quadro di muro.
Si potrebbe scrivere sui propri muri (come si scrive a volte sulle facciate delle case, sulle palizzate dei cantieri, sulle mura delle prigioni), ma non lo si fa che rarissimamente.
 

da Specie di spazi –
George Perec

 

 

Non ha nulla la mia cap-
anna in primavera.
Ha tutto.
Sodo

 

 

La cultura giapponese – ed in particolare la sua tradizione scintoista – offre una delle concezioni più ricche del vuoto. La sua qualità consiste nel modulare una cornice speciale per i fenomeni spirituali, risaltando col sapiente uso del vuoto una particolare forma di trascendenza.

Contemplando l’interno di una casa giapponese si sente come lo sguardo possa vagare con una fluidità maggiore che abitualmente. Si muove nell’interno senza nulla che attiri la sua attenzione, fino a posarsi soavemente sul fondo dei piani che delimitano l’edificio. Questi, definiti geometricamente tramite divisioni e trame rettangolari ed in colori tenui (nocciola e marrone), si armonizzano in un omogeneo silenzio figurativo. Tatami, shoji, fusuma, costituiscono il fondo adeguato per un doppio vuoto. Un interno vuoto di mobili ed oggetti, che parla di un altro vuoto, quello dell’assenza umana. L’interno dell’architettura domestica giapponese non ammette mobili ed oggetti, che tendono a diventare idoli nel momento in cui impongono il proprio protagonismo come succedaneo della presenza dell’uomo. L’interno giapponese si presenta come una patina sulla quale la vita risalta con la massima intensità. Si fanno scorrere i pannelli e l’immagine del giardino penetra senza interferenze. Entra l’uomo e l’interno diventa uno scenario intimo e propizio. I movimenti possono essere precisi, coscienti, rituali, poiché non ci sono ostacoli da evitare, né mobili da usare. Gli oggetti sono disposti secondo una stretta necessità per la persona che li utilizzerà, ed immediatamente dopo aver compiuto il proprio compito vengono ritirati fino alla prossima volta in cui se ne avrà bisogno. In questo modo, scomparsa la loro presenza, gli oggetti non si arrogano il protagonismo dovuto all’immanenza dell’uso ormai
concluso. […]

L’architettura tradizionale giapponese ha saputo permeare gli interni con la sensibilità del non compiuto. In Occidente, un interno non abitato può essere autosufficiente. L’interno della casa giapponese è trattato in modo da sembrare vuoto quando è effettivamente vuoto. Con l’assenza delle persone il silenzio figurativo è totale.

È uno spazio, quello dell’interno giapponese, che non è attivato se non dalla presenza umana. L’instabilità statica determinata dal vuoto diventa, con la presenza, pienamente dinamica. Attesa ed azione costituiscono le due forme, una latente e l’altra presente, del continuo cambiamento. Il vuoto, quindi, è un valore fondamentale per la comprensione dello spazio dell’architettura giapponese. Etimologicamente sukiya significa ‘‘casa del vuoto’’. “Lo spazio giapponese è sempre legato a questa sublimazione del vuoto. Per vivere, infatti, in uno spazio con la massima libertà possibile, occorre innanzitutto creare il vuoto; in seguito il vuoto sarà in qualche maniera occupato, ma la vibrazione del vuoto e la sua presenza devono restare sensibili” […]

 

*

 

 

Non c’è albero del Bodhi
Né un limpido specchio;
Poiché in realtà tutto è vuoto
Su che cosa può cadere la polvere?

 

” In giapponese la parola ma è un concetto che incorpora lo spazio ed il tempo, in termini strettamente spaziali; è la distanza naturale tra due o più cose che si trovano in continuità, o lo spazio delimitato da pilastri e paraventi (la stanza) o, in termini temporali, la pausa naturale o intervallo tra due o più fenomeni che si succedono in continuità. Il Giappone antico non conosceva il sistema seriale occidentale di tempo e spazio. Entrambi, tempo e spazio, erano concepiti come intervalli, e ciò si riflette nel Giappone attuale nei concetti di base dell’ambiente e della progettazione del giardino, nelle arti della vita quotidiana, in architettura, nelle belle arti, nella musica e nel teatro. Tutte queste discipline possono essere chiamate arti del ma“.
A sua volta, lo spazio concepito come ma ha un aspetto sintattico: è uno spazio referenziale. ” In Giappone, tutte le cose dipendono sempre dal ma, dallo spazio. L’arte del combattimento, l’architettura, la musica o l’arte stessa di vivere, l’estetica, il senso delle proporzioni, la disposizione delle piante in un giardino dipendono sempre da un insieme di significati collegati tra loro e risultanti dal ma. (…) Dietro ogni cosa esiste il ma, lo spazio indefinibile che è come l’accordo musicale di ogni cosa, l’intervallo giusto e la sua migliore risonanza”.

In architettura ma è il luogo dove si vive quotidianamente, la casa. Il senso concreto e quotidiano di questo modo di concepire lo spazio prevale, comunque, sul mero aspetto quantitativo. ‘‘Ma – uno spazio dove si vive – non ha senso fintantoche non individua indizi di vita umana”, […]

“La chiave che l’uomo ha avuto per la percezione dello spazio è stata la natura visibile, ed il modo in cui questa interpretazione è stata fatta è dipeso fortemente dalle distinte visioni della natura e del cosmo che si sono susseguite nelle varie epoche della storia umana. Probabilmente il giapponese antico si avvaleva della natura per dare corporeità visiva e forma alle divinità (kami), ed il modello immaginario arrivava a comprendere l’universo intero per simboleggiare questi kami.
“Inteso come modello di tutti i kami, il sole col suo movimento determinava i concetti di tempo e spazio e originava una serie di opposizioni, come giorno e notte, luce e buio, mondo divino e mondo terreno (il mondo dell’uomo). Il giapponese antico individuò indizi di tali divisioni nel contesto naturale. Montagne sacre, rocce ed alberi avevano connotazioni divine, in essi risiedevano elementi di spiritualità; erano essi stessi kami, discesi in terra in accordo con le specifiche caratteristiche di ogni elemento. I luoghi sacri (yorishiro) erano talvolta individuati da un recinto formato da quattro pali e da una corda semplicemente tesa tra di essi. Era credenza che i kami scendessero in tali recinti, che generalmente erano vuoti. La preparazione di questo spazio e l’attesa della discesa dei kami ebbero un’enorme influenza sulle future forme di concezione dello spazio-tempo’’.
Lo spazio era concepito come un vuoto – il luogo sacro vacante – e gli oggetti sacri erano concepiti per stare dentro questo vuoto. Si credeva che i kami discendessero per sentire questi vuoti con forza spirituale (chi). La percezione del momento in cui ciò avveniva finì col diventare determinante per le diverse arti. Lo spazio era percepito con l’identificazione di ciò che in esso accadeva; ovvero, lo spazio era percepito esclusivamente in relazione al fluire del tempo’’
L’invecchiamento delle cose, l’appassire dei fiori, il fluttuare del pensiero, le ombre sull’acqua o sulla terra sono i tipi di fenomeni che più impressionano il giapponese. ‘‘La passione per il movimento in questo tipo di fenomeni impregna la concezione giapponese di spazio architettonico […]”
La manifestazione di questa ragione vitale è ‘‘la coscienza che tutte le cose sono come le onde di un oceano che simboleggia l’eternità. Su questo sfondo immutabile, tutte le cose manifestano ed esprimono un divenire senza fine’’. La consapevolezza della non permanenza delle cose è alla base dell’escatologia giapponese, secondo la quale l’uomo deve adattarsi a vivere momento per momento, senza attendere la salvezza dall’inevitabile catastrofe. […]

da Il Vuoto: riflessioni sullo spazio in architettura
Fernando Espuelas

 

 

E rimane il nulla e il vuoto che la radura nel
bosco offre come risposta a ciò che si cerca.
María Zambrano

 

 

“La Via è vuota, nonostante l’uso non si riempie mai.
Quanto è profonda, come permanesse sempre!”
Lao-Tsu

 

 

[…] Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti:

Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti…

Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.

I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato. Non ci sarà più la scritta in lettere di porcellana bianca incollate ad arco sulla vetrina del piccolo caffè della rue Coquillière: «Qui si consulta l’elenco telefonico» e «Spuntini a tutte le ore».

Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi:

Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno.

George Perec

 

 

                      della frescura
                      faccio la mia casa,
                      e qui riposo

                     

 

 

 

 
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* l’ultimo haiku è di Basho
** tutte le fotografie sono tratte dal libro di Espuelas
esclusa foto in bianco e nero del dipinto
“Stanze sul mare” di Edward Hopper