Ogni uscita è un’entrata – Anne Carson, e Roseanne Lynch

 
 

Insonnia
La luna nello specchio del comò
guarda lomtano un milione di miglia
(e forse con orgoglio, a se stessa,
ma non sorride mai, proprio mai)
lontana e distante oltre il sonno,
forse è una che dorme di giorno.
Se l’universo la abbandonasse
gli direbbe di andare all’inferno,
e troverebbe un corpo d’acqua,
o uno specchio, su cui indugiare.
allora avvolgi gli affanni in una ragnatela
e lasciali cadere nel pozzo
in quel mondo alla rovescia
dove la sinistra è sempre la destra,
dove le ombre sono in realtà dei corpi,
dove restiamo svegli per tutta la notte,
dove i cieli sono profondi appena quanto il mare
è ora un abisso, e dove tu mi ami.

 

Elizabeth Bishop

 
 

 

Voglio scrivere un elogio del sonno. Non come praticante – ammetto di non essere mai stata «una buona dormiente», e forse potrei tornare più tardi su questo curioso concetto – bensì come lettrice. C’è così tanto sonno da leggere, ci sono così tanti modi per farlo. Secondo Aristotele, il sonno richiede un tipo di lettura «demonico ma non divino». Kant si riferisce al contenuto del sonno come a una «poesia involontaria in uno stato di benessere». Keats scrisse un sonetto, Al sonno, invocando i suoi poteri contro la logica analitica della giornata:

«O dolce imbalsamatore della quieta mezzanotte! …
Salvami allora, o il giorno passato risplenderà
sul mio guanciale, generando molti dolori;
salvami dalla coscienza curiosa, che ancora accumula
la sua forza contro il buio, scavando come la talpa;
gira abilmente la chiave nell’oliata serratura,
e sigilla il placato scrigno della mia anima».

In questo saggio ho intenzione di scavare come una talpa tra i diversi approcci all’interpretazione del sonno, tra i suoi diversi lettori, siano essi salvi, sani, demonici, buoni dormienti oppure no. Keats attribuisce al sonno l’atto di imbalsamare. Ciò ha un duplice significato: il sonno lenisce e profuma le nostre notti; il sonno può nascondere il fetore della morte in noi connaturato. Entrambe le azioni sono salvifiche, secondo Keats. Entrambe, credo, meritino un elogio.

 

 

Il mio primo ricordo riguarda un sogno. Accadde nella casa dove abitavamo quando avevo tre o quattro anni. Sognai che dormivo in una stanza al piano superiore di quella casa; che mi svegliai, scesi al piano di sotto e mi fermai in soggiorno. Le luci erano accese, ma la stanza era silenziosa e vuota. Il solito divano, le solite sedie verde scuro si trovavano lungo le solite pareti verde pallido. Era il solito vecchio soggiorno di sempre, lo sapevo bene, non c’era niente fuori posto. Eppure era completamente, e certamente, diverso. In confronto al suo aspetto abituale, il soggiorno era cambiato, come se fosse impazzito.

Più tardi, nel corso della mia vita, quando stavo imparando a fare i conti con mio padre che era affetto da demenza e alla fine ne morì, è riemerso il ricordo di questo sogno, forse perché mi sembrava che richiamasse, sussurrando, la sensazione che si prova guardando un volto noto, il cui aspetto è, in ogni caratteristica e dettaglio, esattamente come dovrebbe essere, eppure, in qualche modo, profondamente e luminosamente strano.

Il sogno del soggiorno verde è stata la mia prima esperienza di una simile stranezza, e lo trovo inquietante tanto oggi quanto all’età di tre anni. Ma a quel tempo non potevo ricorrere al concetto di follia o demenza. Quindi, per quanto possa ricordare, mi sono spiegata quel sogno dicendomi che avevo sorpreso il soggiorno a dormire. Ci ero entrata dal lato del sonno. E mi ci sono voluti anni per riconoscere, o anche solo per concepire la domanda sul perché io abbia trovato questo ingresso nella stranezza così estremamente consolante. Infatti, nonostante l’inquietudine, l’inesplicabilità e il successivo, tragico referente del soggiorno verde, era e rimane per me una consolazione il pensarlo lì, fermo, immerso nel suo verde, a respirare il proprio ordine, senza rispondere a nessuno, all’apparenza penetrabile ovunque, eppure così perfettamente camuffato in tutta la propaganda della sua stessa vita cosciente, tanto da diventare qualcosa che si trovava in incognito nel cuore stesso della nostra casa addormentata.

 

 

È in questi termini che desidero elogiare il sonno, come uno scorcio su qualcosa in incognito. Entrambe le parole sono importanti. Incognito significa «non riconosciuto», «nascosto», «sconosciuto». Qualcosa non significa «nulla». Ciò che è in incognito si nasconde da noi perché possiede qualcosa che vale la pena nascondere, o almeno così crediamo. Come esempio di questa convinzione, citerò due strofe della poesia di Elizabeth Bishop The Man-Moth. L’Uomo-Falena, scrive, è una creatura che passa la maggior parte del tempo sottoterra compiendo solo visite occasionali in superficie, dove tenta di scalare le facciate degli edifici e raggiungere la luna, perché capisce che la luna deve essere un buco nella sommità del cielo, attraverso il quale è possibile scappare. Non riuscendo a raggiungere la luna, ogni volta cade ripiombando nelle pallide segrete della sua esistenza sotterranea. Ecco la terza strofa della poesia:

«Su per le facciate,
la sua ombra trascinata come il panno di un fotografo,
si arrampica timoroso, pensando che stavolta riuscirà
a spingere la testolina attraverso quell’apertura rotonda e netta
e a infilarsi, come da un tubo, in nere volute verso la luce.(L’uomo, in piedi sotto di lui, non si fa simili illusioni).
Ma l’Uomo-Falena deve fare ciò che più teme, anche se
fallisce, è ovvio, e ricade spaventato ma illeso».

L’Uomo-Falena non sta dormendo, né si tratta di un sogno, potrebbe invece rappresentare il sonno stesso, un gesto del sonno, che scivola di notte lungo le facciate del mondo alle prese con la sua strana ricerca. Dà rifugio a un contenuto segreto, un contenuto prezioso, che è difficile da estrarre anche se vie ne catturato. Ecco la strofa finale della poesia:

«Se lo catturate,
avvicinategli una torcia all’occhio. È tutto una scura pupilla,
una notte intera, il cui orizzonte peloso si restringe
mentre a sua volta vi riguarda, e chiude l’occhio.
Poi dalle palpebre
scivola una lacrima, suo unico bene, come all’ape il pungiglione. Astutamente la cela nel palmo, e se non si presta attenzione,
la ingoierà. Tuttavia, se lo si osserva, sarà pronto a consegnarla, fredda come da sotterranee sorgenti e pura abbastanza da bere».

 

 

Bere la lacrima del sonno, separare il prefisso in dall’incomprensibilità e dai suoi scopi sotterranei, è stato il piano di molte tecnologie e terapie, dall’antico tempio di Asclepio a Epidauro, dove i malati dormivano la notte per sognare la propria cura, alle algebre psicoanalitiche di Jacques Lacan, che intende il sonno come uno spazio da cui il dormiente può percorrere due direzioni, entrambe una sorta di veglia. Se dovessi elogiare uno di questi metodi di guarigione, lo farei sulla base della loro predisposizione alla speranza. Sia i sacerdoti di Asclepio che gli analisti lacaniani postulano una continuità tra i regni della veglia e del sonno, per cui un po’ di quel qualcosa in incognito può passare dalla notte al giorno e cambiare così la vita del dormiente. Ecco l’antico resoconto di una delle cure del sonno a Epidauro: ,

«Venne come supplice presso il dio Asclepio un uomo così guercio che a sinistra aveva solo le palpebre, sotto non c’era niente, solo il vuoto. La gente nel tempio lo derideva perché l’uomo pensava di poter tornare a vedere con l’occhio che non c’era. Ma in una visione che gli apparve in sonno, il dio sembrava intento a far bollire una medicina e, sollevando i coperchi, gliela versava nel cavo dell’occhio. Quando si fece giorno, l’uomo uscì, vedendo da entrambi gli occhi».

Cosa può infondere maggior speranza di questa storia di un occhio vuoto che, nel sonno, è riempito della vista? Un analista lacaniano potrebbe dire che l’uomo con un occhio solo ha scelto di percorrere fino in fondo la direzione del suo sogno e così si è risvegliato in una realtà più reale del mondo della veglia. Si è tuffato nel nulla del suo occhio ed è stato risvegliato da un eccesso di luce. Lacan loderebbe il sonno come una cecità capace di guardarci.

 

 

Che cosa vede il sonno quando ci guarda? È una domanda che si pone Virginia Woolf in Gita al faro, romanzo che si addormenta a metà, per venticinque pagine. La storia è divisa in tre parti. La prima e la terza riguardano la pianificazione e lo svolgimento di una gita al faro da parte della famiglia Ramsay. La seconda è raccontata interamente dal punto di vista del sonno. Si intitola Il tempo passa. Inizia come una notte che si espande in molte notti, poi si trasforma in stagioni e poi in anni. Durante questo lasso temporale, i cambiamenti fluiscono nella casa della storia e penetrano nelle vite dei personaggi, proprio mentre dormono. Questi cambiamenti si intravedono come se li si osservasse dal basso; il focus della narrazione di Virginia Woolf è un catalogo di camere da letto silenziose, di cassettiere immobili e mele lasciate sul tavolo della sala da pranzo, il vento che soffia su una veneziana, la luce della luna che scivola sulle assi del pavimento. Attraverso questi fenomeni giungono dei fatti dal mondo della veglia, come le bracciate di un nuotatore in un lago di notte. I fatti sono brevi, drastici e racchiusi tra parentesi quadre. Per esempio:

«[Il signor Ramsay, incespicando lungo un corridoio in una mattina buia, allungò le braccia, ma poiché la signora Ramsay era morta piuttosto d’improvviso la notte prima, le sue braccia, benché protese, rimasero vuote]».

Oppure:

«[Una granata esplose. In Francia furono fatti saltare in aria venti o trenta giovani, tra i quali Andrew Ramsay, la cui morte, misericordiosamente, fu istantanea]».

O ancora:

«[Il signor Carmichael quella primavera pubblicò un volume di poesie che ebbe un inaspettato successo. La guerra, dicevano tutti, aveva ridestato l’interesse per la poesia]».

Queste parentesi quadre trasmettono sorprendenti informazioni sui Ramsay e i loro amici, eppure fluttuano oltre la narrazione come il colpo attutito di un suono che si ascolta nel sonno. Nessuno si sveglia. La notte avanza, assorta nei suoi accadimenti. Non c’è scambio tra la notte e i suoi prigionieri, non si toccano le palpebre, non si beve la lacrima del sonno. Vista dalla prospettiva del sonno, un’orbita oculare vuota è solo un dato di fatto relativo a una certa persona, non un desiderio da soddisfare, non una sfida terapeutica. Virginia Woolf ci offre, attraverso il sonno, lo scorcio di un vuoto che le interessa. È il vuoto delle cose prima che le si impieghi, uno squarcio sulla realtà prima della sua efficacia. Alcuni dei personaggi cercano questo scorcio anche da svegli. Lily Briscoe, che in Gita al faro è una pittrice, davanti alla sua tela riflette su come poter «afferrare il fremito stesso dei nervi, la cosa in sé, prima della sua trasformazione». In un famoso passo dei suoi diari, Virginia Woolf concorda con questa aspirazione:

«Se potessi catturare la sensazione, lo farei: la sensazione del canto del mondo reale, mentre si è guidati dalla solitudine e dal silenzio del mondo abitabile».

Come suonerebbe il «canto del mondo reale»? Che aspetto avrebbe la cosa in sé? Tali domande passano per la mente di un altro personaggio di Virginia Woolf, Bernard, alla fine del romanzo Le onde:

«Così adesso, prendendo su di me il mistero delle cose, potrei andare come una spia senza lasciare questo posto, senza muovermi dalla mia sedia… Gli uccelli cantano in coro; la casa è imbiancata; il dormiente si stiracchia; gradualmente tutto torna in movimento. La luce inonda la stanza e spinge l’ombra oltre l’ombra fin dove resta sospesa in pieghe imperscrutabili. Cosa contiene quest’ombra centrale? Qualcosa? Niente? Non lo so».

 

 

In tutta la sua opera narrativa Virginia Woolf ama toccare con mano il confine tra niente e qualcosa. I dormienti ne sono strumenti ideali. Così nel suo primo romanzo, La crociera (una storia in cui Clarissa Dalloway e altre sei persone viaggiano in Sudamerica su una barca), pone la sua eroina a galla tra la veglia e il sonno, in un paragrafo straordinario:

«Mi chiedo spesso, rifletté Clarissa a letto, sopra il piccolo volume bianco di Pascal che la accompagnava ovunque, se sia davvero un bene per una donna vivere con un uomo che le è moralmente superiore, come Richard lo è per me. Ci rende così dipendenti. Suppongo di provare per lui ciò che mia madre e le donne della sua generazione provavano per Cristo. Ciò dimostra che non si può fare a meno di qualcosa. Poi piombò nel sonno, che fu come al solito estremamente profondo e ristoratore, ma visitato da sogni fantastici di grandi lettere greche che si aggiravano per la stanza, quando si risvegliò e rise tra sé e sé, ricordando dov’era e che le lettere greche erano persone reali, distese addormentate a pochi metri di distanza… I sogni non erano confinati solo dentro di lei, ma passavano da un cervello all’altro. Tutti si sognarono l’un l’altro quella notte, come era naturale, considerando quanto fossero sottili i tramezzi che li separavano e quanto strano fosse esser stati prelevati da terra per trovarsi uno accanto all’altro in mezzo all’oceano».

Penso che Virginia Woolf intenda farci apprezzare l’amabile esperimentoj coniugale con cui Clarissa condensa suo marito (Richard) in Cristo e poi Cristo in qualcosa, scritto in evidenza per ricordarci la sua vicinanza al nulla. Ma non sono certa di quanto «naturale» sia che i sogni vadano aggirandosi a bordo di un transatlantico da un cervello all’altro, o che le lettere dell’alfabeto greco antico corrispondano a persone reali. Qui si comincia a evocare qualcosa di soprannaturale. Un po’ più spettrale è un racconto pubblicato da Virginia Woolf nel 1921 e intitolato Una casa infestata, in cui una coppia di fantasmi scivola da una stanza all’altra nella casa dove era vissuta secoli prima. I fantasmi sembrano felici ma il loro transitare è perturbante, non da ultimo nell’uso dei pronomi. La voce narrante passa dal noi al si impersonale, dal tu al loro e all’io, come se nessuno nella storia potesse conservare un’identità stabile, e il racconto si conclude con una dormiente che viene svegliata di soprassalto dai fantasmi chinati sul suo letto: «Svegliandomi, esclamo:

“Oh, è questo il tuo tesoro sepolto? La luce nel cuore”».

Non so esattamente cosa significhino le ultime due frasi. Sembra che stia per compiersi una transazione di una certa importanza. Tra i regni del sonno e della veglia, della vita e della morte, Virginia Woolf spalanca la possibilità di una spoliazione, e poi la lascia socchiusa, come non sapesse da che parte stare. La storia, sebbene leggera e quasi comica, lascia in bocca un cupo retrogusto.

 

 

Confrontiamone gli effetti soprannaturali con un autore a lei precedente. Omero colloca il culmine psicologico dell’Iliade in una scena, all’inizio del ventitreesimo libro, in cui Achille si addormenta e riceve la visita della psiche del suo defunto amico Patroclo. Achille dialoga con Patroclo e cerca invano di abbracciarlo. Mentre tende le braccia nel sonno verso il suo amico morto, Achille potrebbe ricordarci il povero signor Ramsay di Gita al faro, il quale tende le braccia verso la moglie morta, tra parentesi quadre. Eppure la metafisica del sonno di Omero è molto meno cupa di quella di Virginia Woolf. I fantasmi nell’epica sono tristi ma sono anche efficaci. Mentre Patroclo, farfugliando, si dilegua verso il posto che gli è riservato agli inferi, Achille balza fuori dal letto per compiere i riti funebri che il sogno gli ha imposto, commentando:

«L’anima e i fantasmi sono certamente qualcosa!».

I dormienti di Virginia Woolf non negoziano transazioni sublimi in questo modo. La sua narrativa ci sconsiglia dal riporre in loro alcuna speranza:

«E se un dormiente, sognando di poter trovare sulla spiaggia una risposta ai propri dubbi, un compagno alla propria solitudine, dovesse allontanare le coperte e scendere da solo a camminare sulla sabbia, non gli verrà incontro nessuna immagine con parvenza di benigna e divina prontitudine tale da ricondurre la notte all’ordine e da far riflettere al mondo la bussola della sua anima… Inutile, in tale sconvolgimento, porre alla notte quelle domande su cosa, perché e come, che tentano il dormiente fuori dal suo letto in cerca di una risposta». […]

 

 

Oppure come Rosencrantz e Guildenstern nell’opera teatrale di Tom Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, dove due cortigiani shakespeariani si ritrovano nel bel mezzo della tragedia Amleto senza capire bene chi li abbia inseriti nella sceneggiatura.

 

 

Eppure si affrettano a recitare la loro parte, riescono a pronunciare le battute giuste e finiscono per morire in Inghilterra, come richiede il testo di Shakespeare. Non è chiaro se siano svegli o addormentati: sostengono di essere stati svegliati all’alba, eppure si comportano come persone imprigionate in un brutto sogno. È un sogno molto familiare. Stoppard usa la popolarità dell’opera di Shakespeare per rinchiuderci nella malvagità di quell’incubo. Come pubblico, ci colloca sul lato dormiente della pièce, accanto a Rosencrantz e Guildenstern, mentre gli altri personaggi dell’Amleto vagano dentro e fuori dalla scena borbottando passaggi del testo di Shakespeare. Stoppard ricorre al testo di Shakespeare per imprigionare Rosencrantz e Guildenstern nel suo stesso testo, un po’ come Virginia Woolf ricorreva alle parentesi quadre per catturare i Ramsay e i loro amici in una lunga notte di sonno. Come lettori proviamo per questi dispositivi un senso di piacevole colpevolezza. Vorremmo quasi vedere Rosencrantz e Guildenstern sfuggire alla situazione che li attende, se questo però non guastasse la trama dell’Amleto. Da buoni dormienti quali siamo, non vogliamo proprio svegliarci. L’opera di Stoppard elogia il sonno, funzionalmente, per la sua necessità. Nessun altra esperienza ci dà la situazione così elementare di essere governati da leggi al di fuori di noi. Nessun altra sostanza può saturare così profondamente una storia di ossessioni, inevitabilità e terrore come può fare il sonno. Il signor Ramsey, tra parentesi quadre, non ha alcuna possibilità di strappare sua moglie alla morte né Rosencrantz e Guildenstern possono riscrivere la tragedia dell’Amleto. Come dice la stessa Virginia Woilf, è inutile pure queste domande alla notte. Ciononostante, Stoppard mette il suo Guildenstern nelle condizioni di farlo. Guildenstern è una specie di filosofo dilettante che, a metà dell’opera, trae consolazione da una famosa parabola taoista sulla veglia e il sonno:

«Guildenstern: Gli ingranaggi sono in moto e hanno il loro ritmo, al quale siamo… Condannati. Ogni mossa è dettata dalla precedente: questo è il significato dell’ordine. Se cominciamo a essere arbitrari, sarà un macello: o almeno così speriamo. Perché se ci capitasse, se solo ci capitasse di scoprire, o anche solo di sospettare, che la nostra spontaneità fa parte del loro piano, sapremo di essere perduti. (Si siede). Un cinese della dinastia Tang -e, per definizione, un filosofo – sognò di essere una farfalla, il momento non fu mai più pienamente sicuro di non essere una farfalla che sognava di essere un filosofo cinese. Invidiami nella sua duplice sicurezza. […]

 

 

 

 

 

Ode al sonno
Pensa alla tua vita senza.
senza quella lastra di tempo
fuorilegge che punteggia
ogni cuscino – senza cuscini.
Senza la grande cucina nera e il
fornello bollente dove
afferri bocconi
delle gambe e delle braccia di tuo padre
solo per vederli formare una frase
che – piangi di gioia improvvisa – ti salverà
se te ne ricorderai
dopo. Dopo,
non è rimasto molto se non una
ipsilon verde pallido
imbalsamata tra far e falla
ma cosa è quella roba che ti sta
versando nell’occhio?
È il momento in cui il liquido cessa.
Un brivido è un servitore perfetto.
il suo amen dà fastidio.
“In effetti”, confida im una nota
a piè di pagina, “fu
un errore di stampa per mammut“.
Mi fa male saperlo.
come si dive, foro di uscita.
 

da Ogni uscita è un’entrata
(Elogio del sonno)
in Decreazione
Anne Carson

 

 
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* in copertina
No Want of Evidence
di Roseanne Lynch
** tutte le altre opere
sono della stessa artista.