Melvin Van Peebles

 

 

That dress, so fatal, you cannot meet the world
any other way now, when could you meet the world in any other way the deep sleep
of capital, the unbroken field, the crickets perhaps
the only sovereign things, even the birds have altered their flight and song, the medicos
will give oxygen and loneliness
for the microscopic adhesives in the lungs
The faecal planes, the drooling sky
not true the sky is the sky always the sky, wondrous the sky, under which, the acid
oceans
what is it to lament this, I am not really lamenting, I am hating this,
I am loving this I am turning into the something
necessary to live this
Dionne Brand

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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“Ero stanco di sorbirmi la merda dei bianchi e di lasciare che fossero loro a definirci”, ha scritto nel suo libro A Guerrilla Filmmaking Manifesto, pubblicato nel 1971. […] “Ho pensato che avessimo il diritto di definirci da soli. Sono molto fiero di aver deciso di fare qualcosa a riguardo”. Servendosi dei suoi prodigiosi talenti […] guidò un attacco al razzismo radicato a Hollywood, dimostrando non solo di essere in grado di produrre film di tendenza e culturalmente rilevanti – commercializzandoli direttamente al pubblico nero tramite colonne sonore e campagne promozionali dal basso – ma anche di poter battere il sistema degli studios al loro stesso gioco.
Craigh Barboza, “Cineaste”, vol. 47, primavera 2022

 

Prima di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song non esisteva un cinema afroamericano propriamente detto. Solo 4 anni prima, nel 1967 Sidney Poitier veniva invitato a cena a casa di Spencer Tracy ed era un evento. Non per la comunità afroamericana però che in quell’attore vedeva il nero che piace ai bianchi, mansueto, sbiancato, rassicurante, dimentico della cultura di provenienza e pronto a mescolarsi ai bianchi e diventare come loro. Non per Melvin Van Peebles, capace con quel solo film di cambiare tutto. Aveva un contratto per girare tre film con la Columbia, preferì girare un’opera indipendente autofinanziata che fosse 100% provocatoria, 100% radicale, sincera e che avesse a che fare con la causa della liberazione degli afroamericani o come disse lui: un film su “un uomo nero che si leva dal culo il piede dell’uomo bianco”.
È una pietra miliare del cinema arrabbiato e libero che esagera da ogni punto di vista, che non è propriamente “godibile” decenni dopo ma che sorprende ogni 5 minuti. È uno dei primissimi film americani a lavorare con il montaggio liberamente nello stile dei francesi degli anni ‘60 (jump cut, fermo immagini e macchina mano), si ispira vagamente all’Odissea e il suo solo interesse è rappresentare la corsa attraverso Harlem di un afroamericano inseguito dalla polizia bianca per il solo crimine di aver aiutato un altro afroamericano che stava per essere arrestato senza una vera ragione, solo perché alla polizia serviva un colpevole per un crimine e gli serviva in fretta.
Il film, visto oggi, suona come una lunga allucinazione, qualcosa a metà tra un figlio di Easy Rider e un’opera universitaria antisistema. In realtà il suo successo cambiò tutto nel mondo del cinema americano. Mostrò che esisteva un pubblico afroamericano e stimolò produzioni bianche a fare film per afroamericani, ovvero l’era della blaxploitation. Anche se a differenza di quei film successivi in cui il connotato politico è sottotraccia, soffuso e di sfondo, qui invece è tutto quel che c’è da vedere. Soprattutto più di ogni altro film della blaxploitation Sweet Sweetback’s Baadasssss Song ha tonnellate di sesso. Donne e uomini nudi, atti sessuali, prostitute e uno swag afro che non si vedeva mai e che impedì all’MPAA di dargli un vero rating… Quella spregiudicatezza nell’esibizione e nell’uso del corpo (è con prestazioni sessuali eccezionali che spesso Sweetback esce dalle situazioni, paga la sua libertà, chiede aiuto) erano quanto di più dirompente si potesse immaginare nel cinema bianco dell’epoca. (da Badtaste )

 

 

 

 

 

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Cineforum su Watermelon

 

 

Watermelon – Trailer

 

Watermelon- film completo

 

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 La Permission

 

“How can anyone think that black is a compliment?” whit a script financed for $60,000 by the CNC and shot over six weeks in Paris and Étretat with a $200,000 budget, Melvin Van Peebles’ first feature film takes a counterintuitive approach to the question of racism. Rather than dealing with economic and social injustices or police persecution, La permission elaborates a situation where its protagonist, a young soldier stationed on an American military base in France, is slowly filled with happiness. But at every moment and through every channel (language, gesture, fantasy…), misunderstandings, misinterpretations, mistakes, and prejudices are introduced that reign not only between people but also within the psyche. At the peak of joy, the conscience remains wounded; the highest pleasure is reached by climbing up the scaffold of compensation; separation is at work within fusion. In a racist world, there is not the slightest psychic salvation, whatever success an individual fate may have. But this permanent disagreement of the self with itself, between self and the world, populates the image and soundtrack with doublings, superimpositions, and symmetric and asymmetric echoes that attest to cinema’s genius in understanding the affective resonances of a conflict that traverses, structures, and goes beyond its actors.» (Nicole Brenez, Black Light, Locarno Film Festival)

 

 

 

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Debutto sulle scene di Broadway con un musical “ghetto-life” dal titolo
Ain’t Supposed to Die a Natural Death, scrivendo libro, musica e canzoni.
L’anno successivo, ancora su Broadway, con Don’t Play Us Cheap.

 

“Brothers and sisters getting their groove on” dal The Guardian

 

 

 

 

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[…] L’umiltà giace
di fronte alla storia
e io mi sono perdonata
a causa sua
a causa della carne bianca
che tutti abbiamo consumato segretamente
prima che nascessimo
abbiamo condiviso lo stesso pasto.
Quando mi trafiggi
sulle tue lance di un’idea miope di nero
prima di ascoltare il mio cuore che ti parla
piangi il tuo stesso sangue preso in prestito
le tue stesse visioni prese in prestito
cantando in una lingua straniera.
Non scambiare la mia carne
per il nemico
non scrivere il mio nome nella polvere
dinnanzi all’altare del dio del vaiolo
perché siamo tutti figli di Eshu
dio del caso e dell’imprevedibile
e ognuno di noi indossa molti cambiamenti
dentro la pelle.

Armata di cicatrici
sanate
in tanti colori diversi
guardo le mie tante facce
come figlia di Eshu
piangendo
se non smettiamo di uccidere
l’altro
in noi stessi
ciò che di noi stessi odiamo
negli altri
presto giaceremo tutti
nella stessa direzione
e i sacerdoti di Eshidale saranno molto occupati
loro i soli a poter seppellire
tutti quelli che cercano la morte
saltando da terra
e atterrando sulle loro teste.

 

Audre Lorde

 

 

 

 

[…] Madre ho bisogno
madre ho bisogno
madre ho bisogno della tua nerezza ora
come la terra d’agosto ha bisogno di pioggia.
Io sono
il sole e la luna e ho sempre fame
sono il bordo affilato
dove giorno e notte si incontreranno
e non saranno una cosa sola.
 
Audre Lorde