“Quanta pazienza ha il paesaggio…”

 

che cosa hai fatto per la conoscenza del disastro?

 

 

Il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato. Non colpisce questo o quello, «io» non sono sotto la sua minaccia. Nella misura in cui, risparmiato, lasciato da parte, il disastro mi minaccia, esso minaccia in me ciò che è fuori di me, un altro da me che divento passivamente altro. Il disastro non colpisce. Chi è minacciato da esso, se da vicino o da lontano è impossibile dirlo, è fuori tiro, l’infinito della minaccia in un certo senso ha infranto ogni limite.
Noi siamo sull’orlo del disastro senza che lo si possa situare nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo sull’orlo o sotto la minaccia, espressioni, queste, che implicherebbero tutte l’avvenire se il disastro non fosse ciò che non viene, ciò che ha interrotto ogni venuta. Pensare il disastro (se è possibile, e non è possibile nella misura in cui presentiamo che il disastro è il pensiero) significa non avere più un avvenire per pensarlo. Il disastro è separato, quel che c’è di più separato. Quando il disastro sopravviene, non viene. Il disastro è la sua imminenza, ma poiché il futuro, che noi concepiamo nell’ordine del tempo vissuto, appartiene al disastro, il disastro l’ha sempre già ritirato o dissuaso, non c’è avvenire per il disastro, come non c’è tempo o spazio in cui si compia. Non crede al disastro, è impossibile credervi, che si viva o che si muoia. Non c’è fede che gli sia adeguata, e nello stesso tempo una sorta di disinteresse, disinteressato al disastro. Notte, notte bianca; così il disastro, questa notte a cui manca l’oscurità, senza che la luce la rischiari. Il cerchio ruota su una retta prolungata all’infinito e riforma un cerchio eternamente privo di centro.
Al disastro non basta nulla; e questo significa che, come la distruzione nella sua purezza di rovina non gli si addice, così l’idea di totalità non potrebbe segnare i suoi limiti: colpita e distrutta ogni cosa, ricondotti all’assenza uomini e dèi, il nulla al posto del tutto, tutto ciò è troppo e troppo poco. Il disastro non è maiuscolo, forse rende vana la morte; non si sovrappone, per quanto lo supplisca, all’intervallo del morire. Morire ci dà talvolta (a torto, probabilmente) la sensazione che, se morissimo, sfuggiremmo al disastro, e non quella di abbandonarvisi; di qui l’illusione che il suicidio liberi (ma la coscienza dell’illusione non la fa dileguare, non ci permette di distogliercene). Il disastro il cui colore nero andrebbe attenuato, rafforzandolo, ci espone a una certa idea della passività. Rispetto al disastro siamo passivi, ma forse il disastro è la passività, in questo passato e sempre passato. Il disastro si prende cura di tutto. Il disastro: non il pensiero divenuto folle, e neppure forse il pensiero come ciò che sempre porta la propria follia. Sottraendoci quel rifugio che è il pensiero della morte, dissuadendoci dal catastrofico o dal tragico, rendendoci disinteressati a ogni volere come a ogni movimento interiore, il disastro non ci permette neppure di giocare con questa domanda: che cosa hai fatto per la conoscenza del disastro? Il disastro è dalla parte dell’oblio; l’oblio senza memoria, il ritrarsi immobile di ciò che non è stato tracciato, l’immemorabile, forse; ricordarsi attraverso l’oblio, di nuovo il fuori. […]
 

da La Scrittura del Disastro
Maurice Blanchot

 

 

Di lì a poco il caldo sarebbe diventato eccessivo. Affacciato al balcone dell’albergo, pochi minuti dopo le otto, Kerans guardò il sole sollevarsi da dietro i fitti cespugli di gimnosperme giganti che crescevano in un intrico selvaggio sui tetti dei grandi magazzini abbandonati a quattrocento metri di distanza, sulla sponda orientale della laguna. Persino attraverso le ampie fronde color verde oliva del fogliame, la forza impietosa del sole era quasi tangibile. I raggi, filtrando attraverso il reticolo delle foglie, martellavano il petto e le spalle scoperte di Kerans, facendolo sudare e costringendolo a indossare un paio di spessi occhiali scuri per proteggersi gli occhi. Il disco del sole aveva smesso di essere una sfera ben definita, era diventato un’ampia ellisse che andava allargandosi sempre più sopra l’orizzonte, simile a una colossale palla di fuoco che, riflettendosi sulla superficie plumbea della laguna, la trasformava in uno scudo di rame scintillante. A mezzogiorno, meno di quattro ore più tardi, l’acqua sarebbe sembrata un mare di fuoco. […] Appoggiato alla balaustra del balcone, con l’acqua immobile che, dieci piani più in basso, rifletteva la linea angolosa delle sue spalle e il suo profilo affilato, Kerans osservava una delle innumerevoli tempeste termiche avanzare attraverso una macchia di enormi felci che fiancheggiava la baia comunicante con la laguna. Intrappolate dagli edifici circostanti e dagli strati di inversione termica sospesi a circa trenta metri di altezza dalla superficie dell’acqua, le sacche d’aria si riscaldavano rapidamente e, altrettanto rapidamente, esplodevano verso l’alto come palloni aerostatici, lasciandosi alle spalle un vuoto improvviso che veniva colmato immediatamente con grande fragore. Per qualche secondo le nubi di vapore sovrastanti la baia si dispersero, e un violento tornado in miniatura si abbatté sulle piante alte venti metri, sradicandole come fossero fiammiferi. Poi, in modo altrettanto repentino, la tempesta si placò e gli immensi tronchi affiorarono sull’acqua uno accanto all’altro come sonnolenti alligatori.
Razionalizzando, Kerans si disse che aveva fatto bene a restare all’interno dell’albergo: le tempeste scoppiavano con frequenza sempre maggiore via via che la temperatura andava aumentando. Ma Kerans sapeva benissimo che il reale motivo della sua decisione era l’accettazione ormai passiva del fatto che gli restasse ben poco altro da fare. Le rilevazioni biologiche erano diventate un gioco senza senso e privo di alcuna utilità, dato che la nuova flora seguiva pedissequamente le tendenze anticipate dagli scienziati vent’anni prima, ed era sicuro che nessuno a Camp Byrd, nella Groenlandia settentrionale, si preoccupava di archiviare i suoi rapporti, figuriamoci poi di leggerli. […]

 

da Il mondo sommerso
James Graham Ballard

 

 

 

                                “Voglio che sappiate che questo posto esiste

 

 

 

Tutte le foto e le installazioni sono dell’artista Anne de Carbuccia, che ha l’obiettivo di sensibilizzare le persone sui temi importanti legati al rispetto del nostro pianeta.

” Anne ha girato per tre anni il mondo, realizzando le sue fotografie che fanno uso dell’iconografia della vanitas tipica dei secoli XVI e XVII, inserendo il cranio e la clessidra come classici simboli della vanità umana e del tempo che fugge. Questi oggetti, insieme a elementi organici trovati in loco, danno la possibilità ad Anne di creare installazioni-santuario per richiamare attenzione sui problemi del luogo e onorarne la bellezza.”

Queste installazioni sono ora a Milano nella mostra permanente One Planet One Future

 

 

 

È giù negli interstizi di
Tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.
Gabriele Galloni

 

 

 
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* il virgolettato è di Anna de Carbuccia
** la poesia di Galloni è presa dal suo libro
Sulla riva dei corpi e delle anime
*** la foto di copertina è presa dal web
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Pazienza
 

Quanta pazienza ha il paesaggio, come un vecchio cavallo,
a testa bassa nel campo.
Giornate grigie,
aria e pioggia sottile si incollano, diventano
una cosa sola, indugiano finché alla fine,
languidamente, la pioggia scioglie l’abbraccio,
acconsente a cadere. Quanta pazienza hanno collina, pianura,
l’immobile fascia boschiva, e la lenta pioggia
grigia che cade… È fede cieca? È solo
una pausa di riposo profondo? E il cavallo,
è solo rassegnato, o ha in mente
un qualche desiderio, un prato recintato
ben diverso dal suo campo fradicio,
che la pazienza potrà dischiudere? È già arrivato,
dentro di sé, in quel rifugio scaldato dal sole?
 

Denise Levertov
da Le isole via terra