“la luna gialla/ galleggiava al disopra dell’arcobaleno nero” – Mircea Cărtărescu

 

“…finché non si spezza la fune d’argento,
finché non si polverizza il vaso d’oro…”

 

 

Eccomi, dunque, docente di romeno presso la scuola nr. 86 di Bucarest. Abito da solo in una vecchia casa, la «casa a forma di nave» cui ho accennato prima e che si trova in via Maica Domnului, nella zona del lago Tei. Come quasi ogni insegnante della mia materia per un po’ ho sognato di fare lo scrittore, così come pure nel violinista che suona fra i tavoli dei ristoranti continua a vivere, intristito e snaturato, un Efimov che un tempo aveva creduto di essere un grande violinista. Perché ciò non è successo, perché non ho creduto abbastanza in me stesso per potere andare avanti, con un sorriso di superiorità, dopo la sera del cenacolo, perché non ho avuto la convinzione maniacale di avere ragione contro tutti, quando il mito dello scrittore incompreso, pur con la sua dose di kitsch, è così forte, perché non ho creduto nel mio poema più che nella realtà del mondo: a queste domande ho cercato risposta ogni giorno della mia vita. Proprio in quella notte d’autunno già inoltrato e umido tornai a casa a piedi, abbagliato dai fari delle auto, in uno stato di paranoia che non avevo provato mai. I miei genitori, che mi avevano aperto la porta come sempre, erano rimasti senza voce. «Sembravi uno spettro, eri bianco come la calce e non comprendevi nulla di ciò che ti dicevamo» mi avrebbe detto poi la mamma. Non dormii per tutta la notte. Rilessi il mio poema più volte, e ogni volta mi sembrò diverso: geniale, imbecille, imbecillemente-geniale, genialmente-imbecille o semplicemente inutile, come se le sue pagine fossero state fogli bianchi. Avevo letto di recente Netočka Nezvanova di Dostoevskij e mi era sembrato il suo testo più bello, incompiuto perché non poteva più essere portato avanti, perché il giovane autore era arrivato troppo presto a una delle estremità del suo mondo. Avevo pensato molto al padre di Netočka, a Efimov, che aveva imparato da solo a suonare il violino e che, consumato dalla passione e dall’ispirazione, era diventato famoso nella sua lontana provincia. La supponenza dell’uomo umile investito di un talento fantastico non conosceva più limiti: Efimov aveva finito per considerarsi il più grande violinista del mondo. Finché, scrive Netočka (ma le possiamo credere? Cosa sapeva questa ragazza dell’arte, della musica, del violino? Quanto l’aveva tormentata suo padre con la sua pazzia furiosa, con le sue crisi di orgoglio e infine con il crollo nella disperazione, nella malattia e nell’alcol?), non era venuto a tenere un concerto nella capitale del governatorato un «vero» grande violinista di Mosca. Naturalmente, dopo avere ascoltato il «violinista vero», Efimov non aveva più toccato il violino ed era sparito dal suo mondo illusorio, dal mondo di sua figlia e dal mondo dello stesso Dostoevskij, lasciando dietro di sé solo una traccia di tragicità imbarazzante e di dannazione in forma di scherzo. Il pover’uomo beffato dall’angusto diavolo della provincia. Credo che nessun lettore di Netočka abbia mai avuto dubbi sulla mediocrità di Efimov come violinista, sulla sua derisoria gloria da guercio in una landa di ciechi, sul suo pietoso autoinganno. Ma io, che per alcuni mesi dell’estate del 1976 avevo vissuto come lui e come gli dèi, spaventato della mia stessa grandiosità, dell’onnipotenza di colui che viveva dentro di me e guidava la mia mano sul foglio di carta, tanto che il mio poema si era riversato sulle pagine senza cancellature, senza ripensamenti, senza aggiunte, senza riscritture, come se avessi solo eliminato, riga dopo riga, qualche spazio bianco che copriva le lettere e le parole, sapevo che Efimov era stato realmente un grande violinista, troppo grande e troppo nuovo e spuntato così all’improvviso dal nulla per potere essere compreso veramente, sicché né il governatore, né gli altri, che pure avevano avvertito la forza della sua arte, avevano percepito altro se non una luce senza contorni e non sarebbero stati in grado di spiegare perché quella musica, totalmente diversa da quella locale, li commuovesse tanto. Sapevo che non lui, gestito come un burattino da una mano di un altro mondo, era l’impostore, ma «il grande», «il vero», il compiuto violinista moscovita, famoso in tutto il mondo, che aveva concertato davanti a teste coronate, a Parigi e Vienna, e che, alla fine della sua carriera, si era degnato di fermarsi anche in un remoto angolo di Russia per incantare i barbari di laggiù con la grazia e la nobiltà della sua arte. Un’arte fatta secondo le regole, secondo i canoni rispettati da secoli, una musica perfetta, certo, ma umana. E proprio il suo lato umano era la moneta che circolava dappertutto, nei palazzi e nelle stamberghe, poiché è assai piacevole sentire il peso di una moneta nel palmo della mano. Mentre l’arte non-umana, disordinata, che non teneva in conto né la costituzione dell’orecchio umano, né quella del violino, che non conosceva i limiti del movimento delle dita sulle corde, l’arte penetrata per magia, da un altro mondo, nel corpo di Efimov, pigiava contro il palmo della tua mano la lama gelida del rasoio, che lo fendeva lungo la linea della vita, cosicché ne avresti poi portato la cicatrice per sempre.
Tra le migliaia di risposte che, nelle notti di febbre e tormento e nei giorni di rêverie, durante le ore di lezione, mentre i ragazzi scrivevano qualche tesina, o in un negozio di scarpe, alle fermate d’autobus ghiacciate o mentre aspettavo davanti a uno studio medico, ho dato alla domanda perché non sono diventato scrittore, una mi sembra più vera delle altre nel suo paradosso e nella sua ambiguità. Ho letto tutti i libri e non sono arrivato a conoscere nemmeno un solo autore. Ho sentito tutte le voci, con la chiarezza con cui le sente uno schizofrenico, ma non mi ha mai parlato una voce vera. Ho girato per le migliaia di sale del museo della letteratura, dapprima affascinato dall’abilità con cui, su ogni parete, è dipinta in trompe-l’œil una porta, con una minuziosità nell’abbinamento di ogni pezzetto di legno con la sua ombra aguzza, con l’impressione di fragilità e trasparenza di ogni crosta di vernice, il che mi portava ad ammirare gli artisti dell’illusione come non avevo ammirato nient’altro al mondo, alla fine, però, dopo centinaia di chilometri di corridoi con false porte, con l’aria viziata che sa sempre più di vernici a olio e di solventi, il vagabondare si allontana sempre più dalla passeggiata contemplativa e si trasforma in inquietudine, quindi in panico e in qualcosa d’irrespirabile. Ogni porta è una beffa e una disillusione, tanto maggiori quanto più fortemente l’occhio è stato ingannato. Sono dipinte meravigliosamente, ma non si aprono. La letteratura è un museo chiuso ermeticamente, un museo delle porte illusorie, degli artisti preoccupati delle sfumature di marrone e dell’imitazione quanto più espressiva dei battenti, dei cardini e delle maniglie, del nero felpato della toppa della chiave. Bastava solo chiudere gli occhi e tastare con le dita il muro continuo e infinito per capire che da nessuna parte nell’edificio letterario esiste un’apertura o una crepa. Solo che, sedotto dall’imponenza delle porte cariche di bassorilievi e simboli cabalistici o dalla modestia di una porta di cucina contadina, che al posto del vetro ha alla finestra una vescica di porco, non hai come chiudere gli occhi, vorresti anzi averne mille per il migliaio di false uscite che hai davanti a te. Come il sesso, come le droghe, come tutte le manipolazioni della nostra mente che vorrebbero rompere una volta per tutte il cranio e uscire fuori, la letteratura è una macchina che produce dapprima felicità, poi delusione. Dopo avere letto decine di migliaia di libri, non è possibile non chiedersi: dov’è stata la mia vita in tutto questo tempo? Hai inghiottito alla rinfusa le vite altrui, sempre con una dimensione in meno rispetto al mondo in cui esisti, per quanto stupefacenti tour de force artistici esse fossero. Hai visto i colori altrui e hai provato l’asprezza e il dolce e il possibile e lo spropositato di altre coscienze, che hanno eclissato e spinto nell’ombra le tue stesse sensazioni. E se fossi almeno penetrato nello spazio tattile di altri esseri come te, sei stato però in permanenza raggirato fra le dita della letteratura. Ti è stata sempre promessa, mediante mille voci, l’evasione, e invece ti è stato rubato anche quel briciolo di realtà che è in te.
Come scrittore ti rendi irreale con ogni libro che scrivi. Vuoi sempre scrivere della tua vita e scrivi sempre soltanto di letteratura. È una maledizione, una Fata Morgana, un modo di falsificare il semplice fatto che esisti, reale in un mondo reale. Molteplici mondi, mentre il tuo proprio mondo basterebbe a riempire miliardi di vite. Con ogni pagina che scrivi la pressione che l’immenso edificio letterario esercita su di te aumenta, obbliga la tua mano a fare movimenti che non vorrebbe fare, ti costringe a restare sulla superficie della pagina, mentre tu vorresti magari trafiggere la carta e scrivere perpendicolarmente sulla sua superficie, così come il pittore è costretto a usare colori e il musicista suoni e lo scultore volumi all’infinito, fino alla nausea e all’odio, e questo perché non riusciamo a immaginarci che possa essere anche altrimenti. Come uscire dal tuo proprio cranio dipingendo una porta sulla superficie interna, liscia e giallastra, dell’osso frontale? La tua disperazione è quella di colui che vive in due dimensioni soltanto ed è chiuso in un quadrato, al centro di un foglio infinito. Come potrebbe evadere dalla sua prigione tremenda? Se pure superasse un lato del quadrato, il foglio si espande all’infinito, neppure però quel primo lato è possibile superare, poiché la mente a due dimensioni non può concepire l’elevazione, perpendicolare alla superficie del mondo, tra i muri della prigione.
Una risposta, forse più vera delle altre, sarebbe dunque proprio questa: non sono diventato scrittore perché non sono stato, fin dapprincipio, scrittore. Ho amato la letteratura come un vizio, ma non ho creduto realmente che essa sia la via. Non mi attira la finzione, non è stato il sogno della mia vita aggiungere qualche falsa porta alle pareti della letteratura. Sono sempre stato consapevole che lo stile (che è la mano della letteratura infilata nella tua stessa mano come in un guanto), tanto ammirato dai miei grandi scrittori, non è che raptus e padronanza. Che la scrittura ti consuma la vita e il cervello come l’eroina. Che alla fine di una carriera non puoi che constatare di non avere detto nulla, con la tua mente e con la tua bocca, su di te, sui fatti minuti che hanno formato la tua vita, quanto piuttosto sempre su una realtà a te estranea, i cui fini hai seguito perché ti hanno promesso la liberazione, una liberazione simbolica, bidimensionale, che non significa nulla. La letteratura è troppe volte un’eclissi della mente e del corpo di colui che scrive.
Poiché non ho scritto (ho scritto un diario, è vero, in tutti questi anni, ma a chi può interessare il diario di un anonimo?), vedo bene oggi tanto il mio corpo quanto la mia mente. Non sono pagine né belle, né degne di un qualche interesse pubblico. Ma sono degne del mio personale interesse. Le guardo giorno dopo giorno e mi sembrano gracili come i germogli diafani, privi di clorofilla, delle patate tenute al buio. Proprio perché non sono state rigirate da ogni parte in venti libri di finzione, in poesie o romanzi, proprio perché non sono state deformate da una scrittura. Ho cominciato a scrivere su questo quaderno (di cui non ho finora detto nemmeno una parola) in circostanze speciali, giusto il genere di libro che nessuno scriverebbe. È un testo condannato fin dall’inizio, e non per il fatto che non diventerà mai libro, e rimarrà un manoscritto, relegato sopra La caduta, nel mio cassetto con i dentini e lo spago dell’ombelico e le vecchie foto, ma perché il suo argomento è molto più estraneo alla letteratura e ben più avviticchiato attorno alla vita, di cui si nutre come il gambo del convolvolo, rispetto a qualsiasi altro testo mai stilato su un foglio di carta. Con me sta accadendo qualcosa, c’è qualcosa in me. Diversamente da tutti gli scrittori del mondo, proprio perché non sono uno scrittore, io sento di avere qualcosa da dire. E lo dirò male e con franchezza, così come va detta qualsiasi cosa che meriti di essere messa su carta. Mi trovo spesso a pensare che così doveva essere: che venissi distrutto in quella lontana serata del cenacolo, che mi ritirassi del tutto da qualsiasi spazio letterario, che fossi insegnante di romeno in una scuola, l’individuo più insignificante su questa terra. Ecco che ora scrivo, e scrivo appunto il testo che, mentre leggevo libri sofisticati e impegnativi e intelligenti e coerenti e pieni di follia e di saggezza, ho di fatto sempre immaginato e non trovato da nessuna parte: un’opera al di fuori del museo della letteratura, una porta vera scarabocchiata in aria, e attraverso la quale spero davvero di uscire dal mio cranio. Un testo che colui che rilascia autografi negli incontri con gli insegnanti o in chissà quali terre straniere non ha nemmeno mai sognato.
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da Solenoide
Mircea Cărtărescu

 

 

L’Occidente
 

L’Occidente mi ha messo con la coda fra le gambe.
ho visto New York e Parigi, San Francisco e Francoforte
sono stato dove non avevo mai sognato di andare.
sono tornato con un mucchio di foto
e con la morte nel cuore.
avevo creduto di significare qualcosa e che la mia vita significasse qualcosa.
avevo visto l’occhio di Dio che mi osservava al microscopio
osservando i miei travagli sopra un vetrino.
ora non credo più nulla.
ce l’ho fatta per una stupida stabilità
per un oblio profondo
per una vagina solitaria.
ciondolavo per luoghi che ormai non esistono più!
oh, il mio mondo non esiste più!
il mio pigro mondo in cui significavo qualcosa.
io, mircea cărtărescu, non sono nessuno nel nuovo mondo
esistono 1038 mircea cărtărescu qui
e esseri 1038 volte più bravi
esistono qui libri migliori rispetto a tutto ciò che ho mai scritto
e donne a cui proprio non interessano.
l’uovo pragmatico si rompe e Dio è qua
giusto nella sua creazione, un Dio tutto ben vestito
in belle città e splendidi autunni
e in una sorta di blanda nostalgia della Virginia
del sud in auto con Dorin (country music nei diffusori)…

vedo ora oltre il mio naso
e vedo oltre il naso della letteratura
poiché io ho visto la Sears Tower
e ho visto Chicago, in una nebbia verdastra, dall’alto, dalla Sears Tower
e sul terrazzo di un grattacielo correvano due levrieri
e ho detto a Gabriela, mentre bevevamo una coca-Cola,
che la mia vita è finita.
è come nei Magi di Eliot: ho visto l’Occidente
sono passato con l’aereo sopra Manhattan
ho visto con occhi sgranati la mia morte incantata
perché la mia morte è questo.
ho guardato le vetrine con le moto Suzuki
e mi ci sono visto sudicio, anonimo
ho passeggiato per ore sulla Königstrasse
fra adolescenti con skateboard.
ero l’uomo in bianco e nero dentro una foto a colori
Kafka tra abitanti del pianeta Arcadia.
poemi, poemata, filo·senti·ami
modernismi e discussioni all’osteria su chi è più grande
classifiche fatte in treno (tornavamo da Onești):
quali sono i migliori
romanzi romeni attuali
i dieci migliori poeti viventi
così come i papua
sputano ancora oggi nel paiolo con vino di palma, perché fermenti…
però la poesia è un segno di sottosviluppo
e come guardare Dio fisso negli occhi
anche se non lo si è mai visto…

ho visto giochi al computer e librerie e mi sono parsi comunque uguali
ho capito che la filosofia è l’entertainment
e che la mistica è lo show-biz
che ci sono solo superfici qui
più complesse però di qualunque profondità.
cosa posso essere io là? un uomo affascinato, felice alla follia
ma con la propria vita conclusa.
con la propria vita fottuta definitivamente,
come quella del verme dentro una ciliegia
che ha creduto di essere anche lui qualcuno
finché si è svegliato, con la spazzatura accanto
(la mia spazzatura, le povere mie poesie)
ho visto persone per le quali la legge sull’aborto
è più importante della distruzione dei Soviet
ho visto cieli alti e azzurri, pieni delle lucine degli aerei
e ho conosciuto il grido delle quattromila università esistenti.
sono salito sulla torre Eiffel a piedi
e sono salito al Centro Pompidou attraverso il tubo di plexiglas
e a Iowa City sono andato alla Fox Head…

ho chiacchierato di postmodernismo a Ludwigsburg
con Hassan e Bradbury e Gass e Barth e Federman
così come pure il condannato blatera con il suo carnefice
ho registrato sul magnetofono il sibilo dell’accetta
che mi separa la testa dal tronco.
mi veniva da piangere nel lusso di Monrepos:
com’è possibile?
perché siamo nati inutilmente?
perché lottare con politici come Vadim e Funar?
perché non possiamo finalmente vivere?
perché ora, quando potremmo infine vivere,
respiriamo di nuovo l’odore pungente dei cassonetti?postmodernismo e pașoptism
decostruzione e tribalismo
pragmatismo e ombelichi
e la vita, che è altrove…

ho visto San Francisco, il golfo azzurro con navi
e più in là l’oceano con isole rimboscate
il Pacifico, se riesci a immaginartelo!
ho immerso le mani nell’oceano Pacifico “thanking the Lord
for my fingers”.
mi ha colto un desiderio folle di partire.
e nella celebre libreria di Ferlinghetti (esiste per davvero!)
sono entrato come se
tu entrassi coscientemente nel tuo stesso sogno o dentro un libro…
mi hanno fatto impazzire le strade di San Francisco
e Grant Street con le cineserie
e i palmieri enormi e le ragazze buffissime
dei saloni di bellezza e di parrucchiere
(le clienti
non si guardavano allo specchio, ma in monitor a colori)
e le notti americane, ti ricordi, Mircea T.?
vicino alla casetta tua e di Melissa, dopo che
per un intero pomeriggio avevamo guardato
film SF, avevamo mangiato tacos
e avevamo bevuto birra Old Style
quando siamo usciti all’aria aperta ci hanno sopraffatto le stelle
e gli aeroplani che si muovevano silenziosi fra di esse
e nella tua auto, la vecchia Ford, l’aria era gelida
e mi hai portato, attraversando la città deserta,
fino al mio
caro Mayflower Residence Hall.
e le parate del Thanksgiving e di Halloween
con vecchi banchieri vestiti da orsi e da clown
e il ragazzo di origini ceche interessato a Faulkner
e la piccola coreana dello shuttle Cambus giallo
e noi due, Gabi e io, facendo acquisti, per ore intere
da Target e K-Mart e Goodwill
ma anche nel fantastico Mall in centro…

…masticavo caramelle alla cannella nella prima mia mattinata a Washington
con la macchina fotografica al collo, nel gelo di piazza Dupont…
ho dato 7$ per vedere lo Zoo di New Orleans
e pioveva, e tutti gli animali erano nei loro ricoveri…
…in taxi, litigando con il tassista nero,
senza capire una parola di ciò che mi diceva: “Hey, man…”
…pranzi magnifici in ristoranti cinesi, thailandesi,
ma il non plus ultra da Meandros, i greci di Soho…
…The Art Institute (impressionisti a iosa)
…The Freak Museum (amazing: tre Vermeer!)
…The National Gallery (retrospettiva Malevici)

un uomo congelato per cent’anni
apre gli occhi e sceglie di morire.
ciò che ha visto era troppo bello e troppo triste.
poiché non aveva nessuno lì e fra le dita aveva un patereccio
e i suoi denti erano così malandati
e in mente
aveva ogni genere di cose prive di utilità
e tutto ciò che aveva fatto nel tempo
aveva una metà della consistenza del vento.
un uomo aveva inventato, su un’isola lontana
una macchina per cucire fatta di bambù
e si credeva geniale, visto che nessuno di lì
aveva mai escogitato qualcosa del genere. e quando vennero gli olandesi
lo ripagarono per l’invenzione
dandogliene in dono una elettrica.
(grazie, disse, e scelse di morire)
non trovo il posto giusto,
non sono più di qui
e non posso essere lì

e la poesia? mi sento come l’ultimo mohicano
ridicolo come il dinosauro Denver.
la poesia migliore è la poesia sopportabile,
niente di più: semplicemente sopportabile.
noi abbiamo fatto per dieci anni buona poesia
senza sapere che poesia scadente abbiamo fatto.
abbiamo fatto grande letteratura, e ora capiamo
che essa non può varcare la soglia, proprio perché è grande,
troppo grande, soffocata dal suo tessuto adiposo.
nemmeno questo poema è poesia
poiché solo ciò che non è poesia
può ancora resistere come poesia
soltanto ciò che non può essere poesia.
l’Occidente mi ha aperto gli occhi e mi ha fatto sbattere la testa contro l’architrave.
lascio ad altri ciò che è stata la mia vita fino ad oggi.
credano gli altri in ciò in cui ho creduto io.
amino gli altri ciò che ho amato io.
io non posso più.

non posso più, non posso più.
 

da Il Poema dell’Acquaio
Mircea Cărtărescu

 

 

 

 
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* in copertina ph. Tim Hetherington
* nel post creazioni di Yinka Shonibare