“Scrivo __ un tentativo” – Mohammed El-Kurd e Franco Fortini, Donald Bostrom ph

 
 

Credo nella violenza? Be’, non credo nella violazione.

 
 

*

Nato il giorno della Nakba
 

Il termine Nakba (“catastrofe” in arabo) fa riferimento all’occupazione del 78 per cento della Palestina, avvenuta nel 1948 attraverso pulizie etniche, massacri e la fondazione di “Israele” in quell’area. Il popolo palestinese commemora la Nakba il 15 maggio di ogni anno. Sebbene gli storici la definiscano una guerra che ebbe luogo fra il 1947 e il 1949, molti sostengono che la Nakba sia ancora in corso in quanto il progetto coloniale di popolamento sionista continua a uccidere, espropriare e far sfollare i Palestinesi.

 

La vostra inciviltà ha riscritto la mia autobiografia
in pugni nello stomaco,
lame per lingue,
una bocca gravida di tuono.

La vostra inciviltà mi ha detto di farmi largo,

guardare,
ascoltare.

Sono nato nel cinquantesimo anniversario
della Nakba
da una madre che raccoglieva olive
e fichi
e altri versi coranici,
uattiini uazaituun.
Il mio nome: una bomba in una stanza bianca,
un sospetto su gambe
in un aeroporto,
una politica senza scelta.

Sono nato nel cinquantesimo anniversario della Nakba.
Fuori dall’ospedale:
proteste, gomma bruciata,
facce inkeffiyate e corpi nudi,
sassi scagliati contro carri armati,
carri armati con le bandiere degli Stati Uniti,
terre al profumo di gas lacrimogeno, cieli piastrellati di
proiettili di gomma,
certi corpi feriti, morti – morivano
numeri in prima pagina.

Io
e mia sorella
siamo nati.

Una nascita dura più di un ultimo sospiro.
In Palestina la morte è improvvisa,
immediata,
costante,
avviene fra uno o più respiri.

Sono nato fra la poesia
del cinquantesimo anniversario.
Fuori dall’ospedale
gli inni della liberazione
dicevano a mia madre
di spingere.

 

*

È per questo che balliamo
 

Casa nei miei ricordi è un divano verde, liso
e mia nonna in ogni poesia:
ogni gelsomino colto nella repressione,
ogni reazione colta nel lacrimogeno,
e il lacrimogeno, curato con yogurt e cipolle,
con resilienza,
con donne che gridavano in coro, tambureggiavano
su pentole e padelle
a suon di maledetti e hasbiyallah.

Loro usano i carri armati, noi conosciamo i sassi.
2008, durante i bombardamenti su Gaza
il mio rituale alla tivù
passava dal cordoglio
alla danza del ventre egiziana.
Oscillavo tra odio e venerazione,
accatastavo e accaparravo le ragioni di vita di Darwish,
talvolta credendoci
talvolta intingendo il pane nell’indulgenza,
consapevole che un bambino non ha pane, a Khan Yunis,
intinto nelle macerie di un tetto…

Se mi domandate di dove sono, non risponderò con una sola parola. Preparatevi sedetevi, siate composti, pronti.
Se sentir parlare di un mondo diverso dal vostro
vi mette a disagio,
bevetevi il mare,
tagliatevi le orecchie,
fate un’altra bolla per chiudere in una bolla la vostra bolla e il pretesto.
Fate saltare in aria un’altra città di corpi in nome della paura.

È per questo che balliamo: Mio padre mi diceva: “La rabbia è un lusso
che non possiamo permetterci”.
Sii posato, calmo, tranquillo – ridi quando ti fanno domande, sorridi quando parlano, rispondigli,
istruiscili.

È per questo che balliamo:
Se parlo, sono un pericolo.
Voi restate a bocca aperta,
alzate le sopracciglia.
Puntate il dito.
È per questo che balliamo:
Noi abbiamo i piedi feriti, ma il ritmo rimane,
non importa che aggettivi mi porto sulle spalle.

È per questo che balliamo:
Perché gridare non è gratuito.
Spiegatemelo per favore:
Perché la rabbia – persino la rabbia – è un lusso per me?

 

 

*

Panchine coi denti
 

Vivo di persone i cui letti
sono un cuscino e una coperta,
un posto sull’autobus,
una fermata del bus senza posti,
un asfalto duro e freddo,
un potenziale su cui dormivano o
di cui le hanno derubate. Vivo di persone
i cui sogni sono
sufficienti,
ma non egoisti abbastanza,
i cui sogni sono privi di aggettivi, rinviati,
tascabili
e famelici.
Gli han detto di trovare il vetro nella sabbia,
affamati sogni di generosità
e cemento
sputati fuori
senza zanne.

Nessun dollaro è una coperta
nessuna colpa è una tavola
su cui servire pasti o
a cui
mettersi a discutere
della loro umanità.

Nessun suono né cenno del capo
può monetizzare la mia furia
quando sento brividi crepitare come fuochi
dalla mia camera da letto.

Nessuna poesia né post basta per trasformare
la tendopoli dove vivono in una tenda.
Nessuno di loro si è chinato a raccogliere le nostre preghiere per tesserne
una casa o un cappuccio.

Vivo di persone per cui soffitti sono un lusso,
per cui, la notte al parco, le panchine hanno i denti
con le punte all’insù, affondati nella carne del sonno
e per cui la galena è un motel obbligatorio
per quando la città decide di spolverare i cuscini.
Ogni mattina passo accanto a questa gente,
incastrata sotto i ponti e in attività performanti,
dalle identità incappucciate,
soprattutto quelle di certi polsi:
polsi che si piegano o
si recidono o
contemplano la morte segnati dalle manette o
legati a una disgrazia o un debito.

Vivo di persone il cui sollievo
è un frutto ben noto
e infamato,
il cui sollievo sono peccati, sesso,
storie di mattoni spostati
o di mattoni lanciati
contro maiali in uniforme,
il cui sollievo è una reminiscenza di un letto.
Vivo di persone in cui materassi sono ricordo,
sono sostanza,
sono senza piume,
senza padre
con le molle, sfuggenti
e marciano verso l’alto e
le loro mucche nude, le loro spine dorsali travagliate, staccate
i loro racconti usciti di segno, i loro occhi
a caccia di un dollaro a una cena
ma non dollaro né una cena,
non una protesta né un pretesto.
Non una protesta né un pretesto

 

 

*

Nessun Mosè nell’assedio
 

Il 16 Luglio 2014, mentre giocavamo a calcio su una spiaggia a Gaza, quattro ragazzini fra i nove e i quattordici anni sono stati uccisi da alcuni proiettili provenienti da un’imbarcazione istraeliana.

 

È perché non c’erano più tombe a Gaza
che ci avete portati sulla spiaggia a morire?

È perché ridurci in macerie nelle nostre case,
come i nostri cugini, come i nostri futuri,
come i nostri dei,
vi scoccerebbe?

È perché ai nostri cimiteri servono cimiteri e
alle nostre lapidi servono case?

È perché ai nostri padri serviva più cordoglio?

Eravamo membra nel vento,
la nostra gioia si infrangeva sulla costa.
Pallone da calcio fra i nostri piedi
eravamo il pallone fra i loro piedi.
Nessun posto dove scappare. Nessun Mosè nell’assedio.
Onde cucite insieme, ricamate, intrecciate
impercorribili, indivisibili, varco – implausibile,
quasi ogni giorno piangiamo in anticipo.

Ammiravamo le nuvole, siamo saliti sulle nuvole.
Qui, conosciamo due soli: l’amico della terra
e il fosforo bianco.
Qui, conosciamo due cose: gli ultimi sospiri e i pochi respiri che li precedono.

Che cosa racconti ai bambini per cui il Mar Rosso non si separa?

 

 

*

Bambino vende gomme da masticare a Qalandiya
 

Ci sono bulldozer in queste nuvole. Bulldozer nelle loro nuvole e spesso portano pioggia. Un bambino a Qalandiya e hanno rubato i lucignoli alle stelle. Lui non dovrebbe stare in giro. I sassi si scaglieranno per protesta.

Questa terra ebraicizzata parla ancora arabo. I loro droni l’armeranno. Il bambino che vende gomme a Qalandiya. Non dovrebbe stare in giro. Sarà un tiratore, un ricevitore. Un bulldozer bulldozerizzato. Spesso.

Che ci fa un bambino sotto la forca a guadagnarsi la pagnotta? E il merito in questo dov’è? Da che parte sta Dio? Certi giorni sembra che preghino. Depredano spesso.

Sul marciapiede un uomo spiega la selezione naturale. Di come non dovrebbe addolcirsi nella stretta di un bambino. L’uomo dice che l’andatura del bambino somiglia troppo a un canto e troppo poco a un uomo che cammina.

Una donna gli dice che una penna è una spada. Cos’è una penna per un fucile? Un altro gli dà in pasto un sonetto. Se Shakespeare fosse di queste parti, non starebbe scrivendo.

Scrivo dei bambini palestinesi come se fossero più vecchi del travaglio.

Il bambino ha otto anni, che per gli americani sono ventidue. Il bambino lo sa. Negli incubi, la madre lo chiama uomo. Sei un uomo adesso. In questo, un pittore colleziona pennellate. Un fotografo gli tende una mano in aiuto. Vogliono costruire un museo dentro la sua tortura. Il bambino si guadagna la pagnotta sapendo che non dovrebbe.

Chiede al fotografo di pagarlo per il suo pane; il pane del fotografo. Per portafogli ingrassati dall’indigenza.

Sua madre lo chiama l’uomo di casa. Pensa che lo faccia sentire meglio riguardo la gobba che si è guadagnato prima delle 6 del mattino della sua vita. Il grigio che si è guadagnato prima delle 6 del mattino della sua vita. Qalandiya è grigio spesso.

Passo in macchina. Abbasso il finestrino. Compro quel che posso. Non dovresti stare in giro mentre sparano. Cos’è il timore per il temerario? Gli chiedo di smettere di vendere gomme. Mi dice che io non ne so un bel niente. Non ne so un bel niente delle unghie del sole che gli artigliano la nuca. Starò zitto allora.

Non so un bel niente, davvero,
Non un uomo ancora. Non un uomo spesso.

 

*

Matematica
 

La mia terra natia scava
una via di fuga verso un esilio prescelto.

Il sangue non lava via
malgrado i rubinetti
malgrado il colore del lavaggio.

 

 

*

Anziana Signora si addormenta sulla mia spalla
 

Anziana Signora sull’autobus si addormenta sulla mia spalla.
Nessun aggettivo nel vento.
I suoi fischi nel sonno sono agitati, i suoi polmoni – presumo – erano ricamati di
urla, sgranate e ingrigite.
Il telefono la sveglia,
il suo svegliarsi mi risveglia,
mi accorgo dell’indulgenza in tasca.
All’erta, mi chiede, Dove siamo?
Poco prima del posto di blocco, dico. Mi risponde:
Grazie.
الله يحميك من شر اليهود ومن شر المسلمي

Attraverso il suo velo vedo il Muro;
ne esilia il sostentamento: vendere fichi dopo due ore e qualcosa di tragitto,
permessi di viaggio,
perquisizioni e interrogatori,
incastrata dietro le sbarre,
con altri corpi chini,
in attesa.

Anziana Signora sull’autobus si alza in piedi,
le borse di plastica cariche di settanta montagne e un fiume.
Le offro una mano. Si preoccupa per la mia spina dorsale.
È grazie a donne come lei se ho spina dorsale.
Insisto, Lasci che la aiuti, la prego.
Vuole portare trentacinque montagne. Le dico che le prendo io
le borse, non così pesanti come sembrano
non così pesanti come la sua vita.
Scendiamo e camminiamo verso lo sbarramento militare.

Nell’occupazione, quando cammini, ti sembra di andar scalzo.
Qui, camminare è quasi come cercar di correre
nell’acqua.
Il soldato, biondo e scottato dal sole, le chiede di esibire il permesso.
Il mio permesso: queste rughe
più vecchie del tuo paese.
Il mio sorriso è un sole.

Il soldato, dal marcato accento inebreo, le chiede cos’ha nelle borse.
Fichi, stronzo. Che altro vuoi sapere?
Son piene di tempeste
e bombe e botti.

Sorrido, gongolo.
Lo so che aveva una pistola un giorno, nascosta nella borsa del grano,
e lo so che nascondeva nel ripostiglio combattenti per la libertà –
donna guerriera, diva del za’atar.
Forse lei stessa
si è nascosta nel ripostiglio.

Anziana Signora e io superiamo il posto di blocco.
Violente vocali nel vento.
La sua schiena, una gobba – la sua spina dorsale, la mia spina.
Mi prende le borse di mano. Grazie.
Mia figlia è venuta a prendermi.
Che Dio protegga te e i giovani
che ti circondano.

E prima che il mio fiato potesse sedersi,
se n’è andata, come se un tempo avesse conosciuto la porpora e il sudario.

 

 

*

Martiri
 

Dovremmo continuare a chiamare martiri i nostri morti.
Il nemico ha armato questa parola, e così noi enfatizziamo la nostra neutralità. [Martire] non aveva preso parte al combattimento, diritti umani nei trattini lunghi. [Martire] senza dipendenze né moventi. [
[Martiri] che spazzavano via aerei dai balconi, [martiri] fanatici, Biden livido di rabbia coi Palestinesi per l’ennesima volta. [Martiri] sono argomento di discussione.
[Martire] che conoscevo al liceo aspettava che gli crescessero le zanne.
[Martire] era innamorato mentre raschiava sotto l’autobus. [Martire] al bar e con due colpi era finito. [Martire] mio cugino non ha nemmeno scelto lo scontro. [Martire] al confine, uno sbuffo dal fucile. Fucile al [martire], moneta al distributore automatico. [Martire] non ha mai bussato.

Martire] divorzia dall’asfalto sulla via delle nozze e la polizia scientifica concorda, ma [martire] è ancora nel frigo. Sua madre è prezzemolo che va a male.
[Martire] il mio gallo nero che annuncia il mattino prima dei maiali.
[Martire] portato al lavandino e lavato.
Morte [di Martire] dieci anni dopo il governo manda cartoline di Hallmark e Washington ha sputato su Mandela pochi respiri prima di baciarlo.
[Martire] aveva comprato tre arance e non ha mai fatto la spremuta.

 

*

Ridere
 

Atlanta mi ha insegnato che le poesie non sono legno o mattoni. Le poesie non costruiranno case. Atlanta mi ha insegnato che, se hanno il giusto ritmo, la gente applaudirà comunque ai proiettili che la forano. Ciò mi ha insegnato come guardare. Ci sono tanti modi di guardare. Uno è il dubbio. Ho imparato che il successo è matematico e al tempo passato. I sistemi qui sono serpentiformi. Squame lucenti. Ho imparato a trasformare una vasca in un materasso. Atlanta mi ha insegnato come si prende un treno, come si perde un treno, come essere un treno. Atlanta mi ha insegnato a posticipare il panico, sala di controllo. Mi ha insegnato come riempirmi la testa di pavoni. Come guardare a fronte alta in una discussione. Mi ha insegnato che un dollaro fa tre shekel e mezzo. Che i dollari hanno un profumo strepitoso. Il rap femminile è la più alta forma di poesia. Le ragazze bianche sono le migliori in assoluto nel taccheggio, per motivi che Atlanta sa. Lo so che il taccheggio è triste. Atlanta mi ha mostrato per prima l’auto dei maiali in uniforme che andava a fuoco. Sto imparando a gettare benzina sui dibattiti. Questa città unisce in matrimonio i propri martiri, festeggia quando ritornano a casa. Atlanta mi ha insegnato che i ciao nei corridoi non significano amicizia. Gerusalemme mi ha insegnato la resilienza. Atlanta me ne ha insegnato un altro tipo. Ora posso portare il funerale sul podio e ridere. Mia nonna mi ha insegnato che se non ridiamo, piangiamo. Questo, Atlanta lo sapeva.

 

 

*

Addio, gelsomino di Palestina
 

Rifqa El-Kurd, mia nonna, è mancata martedì 16 giugno 2020. Aveva centotré anni.
Ogni giorno, quando tornavo da scuola, mi accoglieva sulla porta con un mazzo di gelsomini avvolti in un Kleenex. Sono cresciuto nella sua saggezza e la mia poesia ne è il riflesso. Lei è l’asse delle mie azioni, l’orchestratrice della mia cadenza. Recita camei nella mia poesia e prassi.
Nonna è scampata a guerre e a tanto altro. Aveva più anni della colonizzazione sionista. Per questo motivo i gerosolimitani l’hanno acclamata come “icona della resilienza palestinese”. Nel 1948, durante la Nakba, ha lasciato la sua casa ad Haifa dopo averla pulita per bene, ignara di averla semplicemente sistemata per i colonizzatori. Profuga, espulsa insieme ai figli da una città all’altra, è infine riuscita a stabilirsi a Gerusalemme, per poi affrontare la Naksa, il latrocinio della stessa Gerusalemme e, negli ultimi giorni di vita, la presa imminente della Cisgiordania. È morta tra il caos insorto per “l’accordo del secolo” e i piani sionisti per rendere perenne il soggiogamento palestinese, definendolo uno stato. Il suo attivismo l’ha portata in aule di tribunale, proteste, ospedali. Incessante, ha lavorato finché la sopravvivenza non è diventata una storia divertente da raccontare a quel che resta della famiglia.
Nel 2009, dei coloni sionisti – con tanto di zaini come se stessero andando in campeggio per il fine settimana – sono entrati nelle nostre case nella Gerusalemme occupata, scortati dalle forze di occupazione israeliane. Sostenevano che casa nostra fosse loro. Dopo una tumultuosa battaglia di fronte a due comitati coloniali nei tribunali israeliani, metà della casa ci è stata confiscata. Questo rilevamento faceva parte di una più ampia strategia che mira alla pulizia etnica del quartiere di Sheikh Jarrah nella sua interezza. Noi eravamo fra le centottanta famiglie palestinesi colpite da decreti di esproprio emanati dai tribunali israeliani, i quali stabilivano che le nostre abitazioni poggiassero su suolo ebraico. Guardavamo i Ghawi – la famiglia di fronte a noi dall’altro lato della strada, buttata fuori di casa – allestire un accampamento improvvisato sulla terra dove i colonizzatori sionisti si erano insediati.
Da bambino, ho assistito mentre mia nonna, all’epoca sull’ottantina, combatteva per la libertà – un’ambulanza umana che curava con yogurt e cipolle i manifestanti intossicati dal gas lacrimogeno. Nel 2009, in cortile l’ho vista opporsi col proprio corpo a polizia e coloni armati fino ai denti, dall’accento americano, che rivendicavano la nostra terra per volere divino. Come se Dio fosse un agente immobiliare.
Essendosi i colonizzatori insediati nell’altra metà della casa – con una semplice parete in cartongesso a separarci – nel 2009 tale confisca ha fatto molto scalpore. La casa è diventata un crocevia internazionale verso cui attivisti solidali e democratici curiosi venivano in pellegrinaggio. Ma nonna si rifiutava di essere un caso umanitario da contemplare. Non era una sprovveduta. Aveva sempre argomenti di discussione e fatti storici alla mano. “Lei è americano?” chiedeva ad alcuni visitatori, prima di informarli che gran parte della colpa del nostro essere senza tetto e senza stato va agli Stati Uniti. Diceva lo stesso a chi arrivava dall’Inghilterra. “Non vogliamo la vostra compassione, noi vogliamo azione”, diceva. Le sue battute intonse.
Prima della morte, ha sofferto di demenza per un anno. Tuttavia, sebbene ogni tanto si scordasse il mio nome, le sue convinzioni politiche reggevano. Le atrocità a cui aveva assistito le ammantavano a tal punto il subconscio che, in pieno decadimento cognitivo, gli aneddoti sulla Nakba erano ancora dettagliatissimi, i commenti scagliati contro la tivù coerenti e complessi.
Anche il suo umorismo reggeva ancora. Nel suo ultimo luglio, eravamo in visita da mia zia a Nablus e nonna non sapeva dove fossimo, perciò ha chiesto come saremmo ritornati a Gerusalemme. “In bici”, le ho risposto scherzando. “La bici te la prendi tu, io vengo a cavallo”, mi ha rimbeccato. Il suo instancabile sorrisetto.
Per la verità, io non sono pronto a encomiarla. Perfino scrivendo queste righe, mi ritrovo a far fatica coi tempi verbali. Certe persone non possono esistere al passato. Per cent’anni, come una funambola, ha camminato su una corda a metà fra orgoglio e amor proprio. Nonna mi ha insegnato tutto ciò che so sulla dignità. Mi ha insegnato a sparare le mie frasi come razzi, a essere resiliente. Lei ha sempre perseverato, persino di fronte a sfollamenti, pene pecuniarie, decine di processi e minacce di incarcerazione. “Lascerò Sheikh Jarrah solo quando mi faranno ritornare a casa mia ad Haifa, da cui sono dovuta fuggire nel 1948”, è famosa per aver detto, pretendendo il suo diritto a ritornare.
Non so quando riuscirò a metabolizzarne la morte. Il giorno in cui è mancata, dai social media sono giunte le più sentite condoglianze. Blog e portali di informazione piangevano la scomparsa del “gelsomino di Palestina”; proprio come una pianta, mia nonna è morta in piedi. Pubblico Rifqa, questa mia prima raccolta di poesie, per onorarla e immortalarla. So che la Palestina non lascerà morire la propria icona di resilienza. Certe persone non muoiono mai. Già mi immagino il suo volto, solcato dalle rughe, inciso sulle pietre nella Città Vecchia. So che sotto ogni mio passo ci sono grovigli di sue radici.
Qualche anno fa, stavamo guardando insieme la tivù e c’erano degli uomini che predicavano la pazienza. “Siate pazienti! Poiché dopo la pazienza giunge il conforto!” Nonna ha replicato: “Dopo la pazienza giunge la tomba!”
Ha preteso giustizia per tutta la vita e, proprio come James Baldwin non è riuscito a vivere sessant’anni in più per poter vedere il “progresso” che gli promettevano di continuo, allo stesso modo tale “progresso” si è preso molto più del tempo di mia nonna. Stiamo ancora aspettando i frutti della nostra pazienza decennale.
Mi spezza il cuore sapere che è morta senza rivedere la Palestina libera, ma le prometto che i nipoti non hanno dimenticato. Questa lotta è una rivoluzione per la vittoria. Rifqa ha incarnato tutto questo, fino all’ultimo respiro.
 

da Rifqa
di Mohammed El-Kurd

 

 

 

 

… oggi molti di noi accettano invece l’immagine del caos e della insensatezza. Per non aver saputo dare, in passato, alla nostra ragione la flessibilità dell’acqua e dell’erba, oggi ci tocca subire gli stomachevoli fumi mistici, iniziatici, ermetici, desideranti e “trasversali” che si levano dalle cerimonie intellettuali, editoriali e bancarie. In questo ci è dato distinguere quale è la differenza fra il momento che… corrispose all’anno 1967 e il presente; che è di diserzione, non tanto dalla «politica» quanto da ogni finalità; e che si traduce in un accorciamento della previsione, in un rifiuto del progetto, insomma in una affascinante contemplazione della morte, propria e altrui.
Tutto questo è stato nitidamente previsto nel film di Straub-Huillet. Naturalmente non posso identificarmi alla interpretazione critica, anzi alla geniale interpretazione, che essi hanno data del mio testo. Quel che ho scritto, nel bene e nel male, è lì, nella pagina di quell’opuscolo, nella sua punteggiatura e nel suo ritmo. Né io che ho scritto e qui scrivo sono quel signore che nei fotogrammi di Straub-Huillet cova in se stesso una esistenza sconfitta e legge, quasi incredulo, quel che un altro se stesso ha scritto, con una enfasi riverberata dai silenzi e dai fragori del presente circostante.
In alcune fondamentali immagini del film, apertamente allusive ad un passato che potrà essere anche futuro se qualcuno saprà volerlo (le montagne pacificate, l’oleandro fiorito, il panorama di Firenze, la collina del finale) c’è un continuo scambio fra «rinuncia» e «promessa». La rinuncia, la Entsagung, si converte, anche, in promessa. L’assenza dell’uomo, dov’è più assoluta (perché anche la voce tace, come nella sequenza delle Apuane) afferma la «enorme presenza dei morti»; ma non sono soltanto quei morti, non soltanto le vittime degli eccidi nazisti. Quando il presente è visto da fuori del presente, esso diventa un luogo sul quale si possono proiettare gli spiriti passati e venturi.
Ecco dunque che lo spazio delle montagne apuane implica una proposta di abitabilità; e abitabile è anche Firenze, fintanto che è veduta dalla collina. Quella proposta sommessa è però continuamente contraddetta, in altre sequenze, dal fragore del presente o dalla legge del passato, con la sua impraticabile santità (lo scampanìo, il traffico, la voce del rabbino che soverchia quella narrante). «Non qui ma altrove» è il pensiero dominante del film. In verità ciò significa: «Non oggi ma ieri e domani».
Per questo il suo intendimento profondo non è diverso da quello che era stato il mio. È detto con altri strumenti, è dilatato a maggiore significazione. La panoramica della Apuane non «dice» soltanto quel che vi è accaduto e quanta calma copra i luoghi delle stragi antiche e moderne. «Dice» anche che questa terra è il luogo abitabile per gli uomini, è quello che dobbiamo abitare. Allora Straub chiede a me di tacere. La mia voce deve scomparire perché, come è scritto in Le temps retrouvé, «cresca l’erba non dell’oblio ma delle opere feconde, sulla quale le generazioni future verranno lietamente a fare le loro “colazioni sull’erba”, incuranti di chi dorme là sotto».
Questo è detto nel rapporto fra i ragionamenti – o le invettive – del testo e l’attenzione (la parola è di S. Weil) della macchina da presa. Straub ha allontanato e chiuso per sempre non solo un episodio della interminabile Judenfrage ma anche un tentativo (il mio) di regolare certi conti, di sbarazzarmene. Il suo film va ben oltre il mio testo. Attraverso lo sguardo della macchina da presa che guardava me, ho anche potuto comprendere meglio alcuni insegnamenti formali che avevo ricevuto, in tanti anni, da alcuni pochi e assoluti maestri. Uno è la regola del morto-vivo, dello zombie. Vitalità, passione, immediatezza: in loro assenza non si fa nulla. Ma nello stesso tempo, se non muoiono, se non sono allontanate, ammutolite, guardate come beni perduti per sempre e non a noi destinati, non possono diventare «cibo di molti». Fra qualche anno, ad esempio, nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra del Vietnam e il conflitto arabo-israeliano. Abbiamo dimenticato ben altro. Non rimarranno che le comunicazioni televisive e i libri di storia. Questo è detto, in tutte lettere, nelle mie pagine dei Cani e la mia voce è ivi stridula proprio perché nell’atto medesimo in cui parla di «realtà» è soverchiata dall’assenza; e se Straub ha capito e ha detto tutto questo, come un musicista dice la sua musica a proposito di un libretto, ciò è stato perché è lui stesso soverchiato dall’assenza, perché sa come me che possiamo sperare di disegnare il futuro solo segnando a dito, con esattezza, le fosse di quel che non c’è, le lacune del reale.
Il terrazzo era in ombra al mattino. Poi veniva tutto riscaldato dal sole. Intorno c’erano alberi e fiori, c’erano nitidezza e luce. Molte erano le voci degli uccelli. Dietro la casa quadra saliva il monte, coperto di piante. Davanti, siepi e campi in declivio e il mare calmo e celeste. Il piccolo patio sul quale si muovevano i collaboratori di Straub era uno spazio delimitato, un palco cerimoniale. Su quel palco ho trascorso dieci giorni a ripetere i nomi della mia adolescenza, le parole di mio padre, l’orrore e la vergogna da cui tutti noi eravamo emersi. Ma quella tranquillissima natura non era né pace né felicità. Come nella grande panoramica delle Apuane, la calma era apparente, qualcosa chiamava aiuto, da un profondo. Ne eravamo coscienti, in qualche modo. Il mare e il cielo abbagliavano. Ma non era l’estate rovente. Il paesaggio chiedeva (noi chiedevamo attraverso il paesaggio) qualcosa come un «supplemento d’anima» e non avevo vergogna, come non ne ho ora, di questa locuzione spiritualista. Tutta la realtà della lotta “materialistica” delle classi era inclusa in quei colori di idillio ed era per noi inseparabile da quei canti di uccelli… Nelle istruzioni che Danièle e Jean-Marie mi proponevano, il testo mi si estraniava sotto gli occhi; la mia difesa era debolissima, lasciavo che liaisons inattese alterassero la punteggiatura e la sintassi. Capivo che l’operazione filmica, proprio modificando quanto recava la mia firma, proprio disfacendo il tessuto dei miei pensieri, li sormontava, li conservava. Non so se in quelle parole ci fosse quel che si dice «valore» ma certo in quella loro distruzione-rinascita uno ve n’era. Ricordavo di aver letto come Cézanne guardasse talvolta a grande distanza la tela di un paesaggio che andava dipingendo, per sapere se, immessa nella natura circostante, reggesse il confronto. Qualcosa di simile mi avveniva di provare sul patio della piccola villa dove Straub mi costringeva a ripetere un teatro di giovinezza. Parole e idee che erano nate altrove, sporche di giornali e di rabbia, in anni di desolazione e pietà, tutto questo era finito davanti al piccolo oleandro fiorito, in una luce stupefatta. La parola «conversione» è certo grossa e falsa. Ma quella, più discreta, di «mutamento», l’ho vissuta, credo, grazie alla operazione di Danièle e di Jean-Marie, in quei giorni. Da allora, le parole e le idee che, nei Cani, mi dolevano ancora, hanno smesso di farmi male. [In un mio appunto di allora ritrovo: «Sono ammalato, stanchezza, nevralgia al trigemino, capogiri. Succede, se si vuol rientrare nella propria biografia. Ma i due amici morti-viventi mi hanno data in questi giorni una straordinaria lezione di metrica»].
Oggi so che possiamo guardare a un reale senza fantasmi di consolazione. Della continuità atroce di sopraffazione e di violenza che abbiamo di fronte a noi, in Israele e qui e ovunque, possiamo parlare senza lirismo e senza autobiografia. Sembra che il processo della nullificazione e della distruzione delle differenze stia trionfalmente procedendo sul corpo delle ultime generazioni di europei, e non conti più che cosa accade nella casa del vicino perché non siamo vicini di nessuno, neanche di noi stessi e non esista nessuna questione ebraica o araba come non ne esiste più nessuna cristiana o marxista o bianca o nera o rossa; non esista nulla. Ma un vero orgoglio mi dice che non è così… Lo stesso Straub non vede forse ormai volgarizzato da astuti adattatori, del cinema e delle sue mode, quel che nella sua opera di vita è stato il risultato di una attenzione inflessibile e di una speranza che lo accecava? Ma questa nostra sconfitta apparente ci riempie di gioia. Non perché l’inversione delle tendenze – che sappiamo sicura – possa essere meccanica, fisiologica, affidata al tempo e alla sua pigrizia; ma perché, come è stato detto, «la tentazione del bene è irresistibile» e quanto più un destino sembra distrutto tanto più comincia ad assomigliare ad una libertà. La resistenza, in lotta col presente, esiste già, ignota anche a se stessa. Le nostre pagine e i nostri fotogrammi possono anche esserle sconosciuti. Non questo importa, dopotutto. Non solo a noi le parole dell’ucciso di Birkenau, che concludono I cani del Sinai, continuano a chiederci di credere alla verità.
 

da I cani del Sinai
Franco Fortini

 

“Non importa quanto va a fondo/ la verità torna sempre verso riva”